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LeRoy Grannis, storia del più grande fotografo di surf

In una nuova monografia di Taschen, le immagini del fotografo che ha raccontato l'ascesa del surf da sport a stile di vita.

02 Maggio 2018

Per chi è abituato a vedere l’America solo in fotografia, sembra che sulla West Coast faccia sempre estate. Il sole della California, le pareti d’acqua che si arricciano sui ragazzi in costume e alcuni slang giovanili da spiaggia fanno parte di un immaginario da cartolina ormai globalizzato. Lo cantavano i Beach Boys negli anni Sessanta, considerata l’epoca d’oro del rock e del surf, e lo hanno documentato diversi fotografi che in quegli anni decisero di sfidare la salsedine per portare i loro teleobiettivi al mare. I surfisti erano i modelli perfetti da fotografare, con i loro fisici sempre abbronzati in equilibrio sull’acqua, in pose mai identiche, nelle mete affollate di Malibu o di San Onofre. Mentre cominciava ad abbozzarsi il concetto di Californication e l’Lsd viveva i suoi ultimi anni di libertà prima di essere demonizzato, si stava avverando una piccola rivoluzione fotografica.

Se oggi la spiaggia è il luogo più popolare delle Storie Instagram, infatti, lo dobbiamo anche ai grandi fotografi che ne fecero negli anni Sessanta il proprio atelier sperimentale. I primi grandi surfisti degli anni Venti, tra un’onda e l’altra, documentavano le proprie bravate con gli amici cercando di catturare su pellicola l’atmosfera che avrebbero cantato a breve i primi gruppi musicali. Tom Blake, l’hawaiano considerato il pioniere del surf moderno, è anche uno dei primi fotografi ad aver inventato la custodia waterproof per i corpi macchina: una scatola piuttosto ingombrante in legno e vetro, disegnata per riparare la sua Graflex Speed Graphic 45 dal mare di Waikiki Beach. Sulla sua scia, furono tanti i surfisti che alternarono lo sport alla fotografia, tutti rigorosamente autodidatti. Tra questi, LeRoy Grannis ha prodotto uno dei più ricchi archivi di atleti sulla tavola da surf, oltre a migliorare la custodia di Blake con un upgrade significativo: bordi in gomma e ventose, che permettevano di cambiare rullino alla macchina anche in acqua.

L’eredità di Grannis non si ferma però all’innovazione tecnologica. La sua opera fotografica è stata raccolta integralmente per la prima volta nel 2006, in una monografia di Taschen a edizione limitata dal nome LeRoy Grannis: Birth of a Culture. La grande popolarità del libro ha portato alla stampa di altre edizioni, tra cui quella del 2013 curata da Jim Heimann: Surf Photography of the 1960s and the 1970s, riedita da Taschen in un nuovo formato nell’aprile 2018, è appena tornato in libreria. Sono fotografie che ci trasmettono l’ascesa culturale del surf da sport a stile di vita: longboard e occhiali da sole, surfer stomp nelle radio delle station wagon, autostrade piene di tavole da surf legate sui tetti delle macchine. Gli anni Sessanta e Settanta esportarono la cultura surfista in tutto il mondo e le poche riviste che ne hanno parlato – Surfer e Reef tra le più rilevanti – erano tutte rifornite dall’obiettivo di Grannis. Il fotografo californiano aveva anche lui alle spalle una carriera da surfista: cominciò a 14 anni e smise poco dopo i 40, con una breve parentesi che lo vide arruolato nell’Aeronautica durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1960 esordì con una propria camera oscura e l’anno successivo si imbarcò per le Hawaii, dove con un 650 millimetri immortalò le gigantesche onde di Sunset Beach e i surfisti che sfidavano il Pacifico.

In un’intervista del 2006, il New York Times non esitò a definire LeRoy Grannis «il padrino della surf photography». Le sue inquadrature a pelo d’acqua, influenzate in gran parte dall’amico e maestro John Heath “Doc” Ball, nacquero per catturare le torsioni dei surfisti sull’onda e le loro gare e finirono per abbracciare anche il mondo della pubblicità commerciale. «Quando cominciai, non mi entrava un soldo», aveva commentato il fotografo. «Non c’erano tutti i film e i programmi tv di oggi a convertire sempre più gente al surf». In ogni immagine c’è il dinamismo del mare curvo e la nostalgia di una disciplina oggi del tutto sdoganata, che agli occhi dei primi beach boys doveva sembrare l’attività più cool e ambiziosa d’America. Grannis ha fatto luce su un fenomeno per specialisti che nel tempo è diventato simbolo di un Paese. Ogni weekend si faceva su e giù tutta la costa californiana, si appostava con la sua macchina e cominciava a documentare le competizioni per le nascenti riviste di surf. Poi, quando anche i marchi di tavole o abbigliamento sportivo si accorsero della potenza visiva del surf, ecco che Grannis improvvisava idee brillanti con pochissimo materiale: come quella volta che per la Jacobs Surfboards ritrasse un surfista di Hermosa Beach in equilibrio sull’acqua con abito nero e scarpe eleganti.

Grannis sviluppò ben presto un occhio critico sulla cultura degli anni Sessanta, quando decise di dedicarsi pienamente all’editoria. Nel 1964 insieme al magnate Dick Graham fondò il magazine International Surfing (poi solo Surfing), che per decenni curò sia come condirettore che come photo editor. Le sue pagine hanno documentato un’intera generazione di giovani sportivi, in decine di reportage su tutte le gare regionali che si tenevano durante l’anno nei surfing club americani. Il surf raccontato dal Grannis editore andava ben oltre il passatempo domenicale e diventava il pretesto per raccontare la società dell’epoca. Era uno stile di vita che non conosceva pause, che diventò un riferimento anche tra chi le spiagge non le aveva mai viste. Surfing ha cessato di esistere nel gennaio del 2017, e la sua grande influenza è stata ricordata anche da Surfer, il suo storico competitor fondato da John Severson, con cui per decenni si è conteso gran parte dei lettori.

Oggi il surf popola le coste ed è diventato una moda anche per troppi. «Sta diventando così affollato», aveva detto una volta Grannis. Il fotografo è morto nel 2011 sulla stessa spiaggia dov’era nato e che aveva fotografato per anni, Hermosa Beach. Probabilmente aveva notato anche lui che i surfisti americani erano aumentati esponenzialmente, diventando quasi 3 milioni intorno al 2005. Forse sapeva anche che due amici di tavola avevano fondato un marchio di abbigliamento, Quicksilver, che aveva raggiunto ricavi nell’ordine del mezzo milione a quadrimestre. La scena del surf continuava a mietere successi, sia competitivi che stilistici, ma era già cambiato rispetto all’immagine che ne aveva dato Grannis agli albori. Oggi quelle immagini ci illustrano un’epoca in cui fotografare il mare sgombro era più facile, e più poetico.

Immagini: in evidenza una pipeline (1970); all’interno San Onofre nel 1963 (© LeRoy Grannis)
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