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15:28 lunedì 17 novembre 2025
Vine sta per tornare e sarà il primo social apertamente anti AI Jack Dorsey, il fondatore di Twitter, ha deciso di resuscitarlo. A una condizione: sarà vietato qualsiasi contenuto generato con l'intelligenza artificiale.
C’è una app che permette di parlare con avatar AI dei propri amici e parenti morti, e ovviamente non piace a nessuno Se vi ricorda un episodio di Black Mirror è perché c'è un episodio di Black Mirror in cui si racconta una storia quasi identica. Non andava a finire bene.
In Cina Wong Kar-wai è al centro di uno scandalo perché il suo assistente personale lo ha accusato di trattarlo male Gu Er (pseudonimo di Cheng Junnian) ha detto che Kar-wai lo pagava poco, lo faceva lavorare tantissimo e lo insultava anche, in maniera del tutto gratuita.
In Giappone un’azienda si è inventata i macho caregiver, dei culturisti che fanno da badanti agli anziani Un'iniziativa che dovrebbe attrarre giovani lavoratori verso una professione in forte crisi: in Giappone ci sono infatti troppi anziani e troppi pochi caregiver.
Rosalía ha condiviso su Instagram un meme buongiornissimo in cui ci sono lei e Valeria Marini  Cielo azzurro, nuvole, candele, tazza di caffè, Rosalia suora e Valeria Marini estasiata: «Non sono una santa, però sono blessed», si legge nel meme.
Hideo Kojima si è “giustificato” per la sua foto al Lucca Comics con Zerocalcare dicendo che l’ha fatta senza sapere chi fosse Zerocalcare Non c’era alcuna «intenzione di esprimere sostegno a nessuna opinione o posizione» da parte di Kojima, si legge nel comunicato stampa della Kojima Productions.
Anche Charli XCX si è messa a scrivere su Substack Il suo primo post si intitola "Running on the spot of a dream" e parla di blocco della scrittrice/musicista/artista.
A poche ore dalla vittoria al Booker Prize è stato annunciato che Nella carne di David Szalay diventerà un film Ad acquisire i diritti di trasposizione del romanzo sono stati i produttori di Conclave, noti per il loro fiuto in fatto di adattamenti letterari.

Eredità di Leonardo Sciascia

A trent'anni dalla sua morte, una riflessione sul grande scrittore siciliano.

20 Novembre 2019

Rivendicava il diritto a contraddire e a contraddirsi Leonardo Sciascia, ma sempre rimanendo tenacemente fedele al suo credo, che era quello di affrontare il disordine della realtà cercando di decodificarla attraverso le parole, in un affannoso tentativo di giungere il più possibile vicino a una qualche forma di verità. Chi lo ha conosciuto lo ricorda come un uomo timido ma tenace, di sagaci intuizioni, poche parole e grandi silenzi, che altro non erano che «una difesa contro le illusioni». Un illuminista volteirano che nel suo percorso aveva raggiunto livelli altissimi di scetticismo, «steso sotto ognuno di noi siciliani come la rete di sicurezza degli acrobati del circo», come disse una volta Elvira Sellerio, sua storica editrice. La prima sera che si incontrarono, a cena, lei gli confessò il suo amore per Pasternak, perché in quel periodo sembrava non si parlasse d’altro che del dottor Zivago, appena uscito. «Non leggo mai i libri quando se ne parla troppo – rispose lo scrittore di Racalmuto – li leggo dopo». Sì, Sciascia era un anticonformista, ma non nelle pose da intellettuale o negli atteggiamenti snobistici da élite culturale, quanto piuttosto nel modo di ragionare e di pensare, sempre un passo avanti rispetto agli altri, spesso a costo di essere frainteso, come regolarmente avvenne. Sempre comunque libero da quei condizionamenti di partito a cui era costretto il suo amico Renato Guttuso, e che finirono per rovinare un’amicizia consacrata con la copertina de Il Giorno della Civetta. «La sua obbedienza ai principi, o meglio, a un principio, era indefettibile», scriverà in seguito Sciascia, «tutt’altra era la sua vita, tutt’altri i suoi sentimenti e pensieri; e con pena portava la contraddizione del come viveva col come obbediva: ma non ammetteva ci si attentasse a discuterla, pretendeva anzi che fosse capita e magari elogiata. Il che, ad un certo punto, ci ha portati a una rottura di cui entrambi abbiamo sofferto».

A rileggere oggi, a trent’anni dalla sua morte, «le sue eresie, le invettive, le ossessioni, si rimane catturati dalla capacità di anticipare temi cruciali e scomodi della vita pubblica nazionale», scrive Felice Cavallaro, giornalista del Corriere della Sera e autore di Sciascia l’eretico. Storie e profezie di un siciliano scomodo (Solferino editore). Un libro che intreccia biografia, storia e racconti personali e che mette in evidenza il suo percorso di scrittore civile, in questo molto simile a quello di Pasolini, amico «fraterno e lontano». Ma al contrario dello scrittore friulano, altro eretico ma che con il passare degli anni è stato simbolicamente reinserito all’interno di quello che Rossana Rossanda aveva chiamato l’album di famiglia, Leonardo Sciascia, mai davvero del tutto amato a sinistra, ha pagato – e forse continua a farlo – un prezzo non secondario per le sue scelte, come l’allontanamento dal Pci e il passaggio al partito Radicale, e le sue nette prese di posizione: dalle critiche al compromesso storico («Penso tutto il male possibile») al caso Tortora, dall’affare Moro, che gli valse l’ingiusta accusa di equidistanza tra lo Stato e le Brigate rosse, fino alla famigerata frase sui «professionisti dell’antimafia», che scatenò un putiferio e gli procurò attacchi forsennati. In un momento di follia da opposti estremismi qualcuno lo definì addirittura un quaquaraquà. Proprio a lui, che era stato il geniale creatore di quella considerata come la più infima categoria umana. A difenderlo basterebbero però le parole di Giorgio Bocca, in realtà uno dei suoi maggiori critici: «Il vero torto di Sciascia è di esporre tesi, di muovere critiche, di fare ipotesi che stanno fuori dagli opposti schieramenti, che non collimano esattamente né con i dogmi dell’antimafia né con le ipocrisie e le seduzioni della mafia. Seguendo un suo acuto intuito, ha spesso indicato ciò che noi non sapevamo o volevamo vedere».

Mal al di là di vecchie polemiche, da catalogare negli schedari del secolo scorso, dello scrittore siciliano restano alcuni dei libri più belli, e profetici, del Novecento italiano. Come Il Giorno della Civetta, dove per la prima volta si raccontava il fenomeno mafioso come qualcosa che non si sviluppa nel vuoto dello Stato ma è “dentro” lo Stato, o come Todo Modo, potente e grottesca allegoria che descrive i torbidi meccanismi del potere politico italiano. «Il romanzo che ci voleva per dire cosa è stata ed è l’Italia democristiana», gli scrisse in una delle tante lettere il suo amico Italo Calvino. Sullo sfondo, in questi libri come in tutti gli altri suoi lavori, l’ombra lunga dell’ossessione del potere e la questione per lui fondamentale del senso del diritto. Tutti i suoi libri, disse una volta Gesualdo Bufalino, che proprio a Sciascia deve l’origine del suo successo, «apparivano come un unico grande libro sulla giustizia». Forse è anche per questo che aveva scelto la forma del romanzo poliziesco, per raccontare storie, sempre in bilico tra saggio e racconto – «Credo di essere saggista nel racconto e narratore nel saggio», diceva di se stesso – che poteva maneggiare smontandole e rimontandole a proprio piacimento. Chissà, magari un modo per avere l’illusione di essere più vicino alla verità.

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