Attualità

Lavorare meno, lavorare meglio

L'ha detto l'uomo più ricco del mondo (Carlos Slim), ha trovato l'appoggio di Richard Branson di Virgin: lavorare 3 giorni la settimana è possibile?

di Alberto Mucci

L’ha proposto Carlos Slim, l’uomo più ricco del mondo: una settimana lavorativa di soli tre giorni per undici ore al giorno. Un’idea poi subito ripresa da Richard Branson in un post sul suo blog in cui ha dichiarato che «potrebbe funzionare» e che Virgin è sempre pronta a sperimentare con idee innovative. La spinta verso la riduzione dell’orario lavorativo non è nulla di nuovo, al contrario: è da sempre uno dei cavalli di battaglia dei partiti a sinistra dello spettro politico, ma il fatto che a parlarne siano stati due tra i più importanti imprenditori di oggi usando argomenti di efficienza, produttività e tenendo un occhio verso l’invecchiamento della popolazione e lo sviluppo della persona, piuttosto che ragionando sui diritti, ha riportato la questione al centro del dibattito (quiquiqui).

Ma facciamo un passo indietro. Già nel 1930 John Maynard Keynes, nelle Prospettive Economiche per i Nostri Nipoti, sosteneva che in un futuro non troppo lontano «per la prima volta dalla sua creazione l’uomo si troverà di fronte ad un nuovo problema, quello di come impiegare il proprio tempo libero». Secondo l’economista inglese questa rivoluzione sarebbe avvenuta grazie alla maggior produttività creata dallo sviluppo tecnologico e avrebbe portato entro cento anni (più o meno ai giorni nostri quindi) a una settimana lavorativa di quindici ore. Come qualunque lavoratore (anche quello part-time) può testimoniare, oggi non è così, neanche lontanamente. Al contrario: la tendenza a una riduzione dell’orario lavorativo dell’ultimo secolo ha cominciato a invertirsi (almeno nei dati riferiti agli Stati Uniti). Basta pensare al caso Francia, unico paese con una settimana lavorativa di 35 ore e dove nel 2012 l’allora primo ministro Ayrault in un articolo su Le Parisien ha sostenuto che l’eliminazione delle 35 ore lavorative «non è un tabù». Problema è – come si sono accorti Slim e Branson – che non sempre a più ore di lavoro corrisponde una maggior produttività. Anzi, spesso è il contrario (quiqui). Ma anche questo non è nulla di nuovo. Quasi contemporaneo di Keynes, già nel 1922, Henry Ford istituì la settima lavorativa di 40 ore nei suoi stabilimenti americani. E come ricorda un articolo di Michael Skapinker apparso sul Financial Times in risposta alla proposta di Slim, ai tempi furono molti a pensare a Ford come a “un pazzo”. Ma nonostante la resistenza del mondo industriale americano di allora – si dichiararono quasi tutti contrari – il boom della produttività della casa automobilistica che ne conseguì convinse quegli stessi industriali a imitare il magnate dell’auto e a ridurre la giornata lavorativa anche nei propri stabilimenti. E oggi, forse, andrebbe fatta la stessa cosa. «La proposta di Slim è importante perché evidenzia una realtà che va cambiata» dice in una conversazione con Studio Domenico De Masi, docente di sociologo a La Sapienza di Roma e fondatore di S3 Studium, «l’attuale struttura del lavoro è legata alla post rivoluzione industriale e in un panorama lavorativo radicalmente diverso come quello attuale non ha alcun senso mantenerla in vita, perché se prima circa il settanta per cento del lavoro era di tipo fisico e il trenta per cento di tipo intellettuale, quel rapporto è oggi invertito». Iniziare a ripensare la settimana lavorativa in una nuova chiave assume un’importanza ancora maggiore alla luce di uno studio dell’International Labour Organization (ILO), in cui viene evidenziato come la tecnologia mai come prima stia erodendo il confine tra le ore lavorative e quelle invece dedicate al riposo.

«L’attuale struttura del lavoro è legata alla post rivoluzione industriale»

Qualche settimana fa Businessweek ha pubblicato un j’accuse in prima persona nei confronti della trasformazione dell’attuale situazione lavorativa di molti americani a causa – appunto – di una tecnologia sempre più invadente. Nell’articolo l’autore comincia raccontando come stia scrivendo ed è sera, ma nonostante l’ora invece di riposare è davanti al computer intento a rispondere a e-mail, messaggi, telefonate e anche a scrivere l’articolo di cui sto parlando. Il motivo? oltre alla già menzionata tecnologia quella che in teoria dei giochi si chiama “tragedy of the commons”, in altre parole: non si può staccare o uscire a un orario che permetta di avere una vita oltre il lavoro perché nessuno vuole essere il primo a farlo in ufficio e nessuno vuole apparire un “lavativo” (soprattutto in tempi di alta disoccupazione) ed essere messo in cattiva luce dai colleghi che rispondono alle mail cinque minuti dopo averle ricevute. Non a caso secondo i numeri di una ricerca di Experian ogni anno il volume di posta elettronica aumenta del quindici per cento circa e secondo i dati della società di consulenza McKinsey si passa ormai il 28 per cento del proprio tempo lavorativo a rispondere alle mail (e se davvero bisogna portare a termine un progetto diventa normale rispondere la sera a casa). Cosa fare dunque? Secondo Anna Coote, ricercatrice della New Economics Foundation (Nef), «la riduzione della settimana lavorativa è un modo di arginare questo problema e ha il potenziale di essere una delle soluzioni ad altri importanti nodi della società di oggi». Già nel 2010 la Coote aveva lanciato la proposta di una settimana di 21 ore sulla base di una tesi articolata intorno a tre punti cardine. Il primo: la settimana lavorativa ridotta come una possibile soluzione al crescente problema della disoccupazione. Il secondo: un incentivo al ruolo civico del cittadino e allo sviluppo del settore culturale. Il terzo: la relazione tra lavoro e sostenibilità ambientale.

Come spiega la ricercatrice stessa a Studio: «Ripensare la struttura lavorativa settimanale significa interrogarsi sul tipo di società che vogliamo essere nel futuro. Cioè se l’attuale idea di crescita all’infinito sia sostenibile nel lungo termine, e ancora, cosa possiamo fare per modificare lo status quo». Proviamo a rispondere seguendo il ragionamento della ricercatrice. Il primo punto. Più tempo libero significa la possibilità di costruire attivamente il proprio ruolo di cittadino, informarsi di più e dunque assumere un ruolo sociale molto più attivo rispetto a quello del lavoratore esausto. Il secondo. Molto semplicemente, se l’attuale modello di crescita basato su un aumento indefinito del consumo pro-capite non è sostenibile nel lungo periodo, più persone con uno stipendio più basso faranno diminuire i consumi facendoli convergere verso i beni di prima necessità (nella maggior parte dei casi a minor emissione). Terzo. Più tempo libero per persona significa un aiuto ai settori culturali e ricreativi dato il maggior utilizzo che ne conseguirebbe. Come dire di no? Una delle maggiori critiche mosse a un’idea come quella di Coote viene da aziende che dicono, più o meno: cambiare richiede tempo e l’assunzione di più personale può creare inefficienze gestionali e dunque perdite per le società.

Alle contestazioni Coote ribatte che gli esempi di datori di lavoro in cui il part-time è la prima forma di contratto sono molteplici. Tra questi i Best Buy in Minnesota, Stati Uniti, i dipendenti statali dello Utah, sempre negli Stati Uniti, e ancora quelli della Bell, azienda di elettronica canadese, oltre che a un grosso studio legale a Plymouth, Inghilterra del sud, «di cui non posso dire il nome, ma il cui proprietario mi assicura di riuscire a compete con quelli della City (Londra), senza problemi», aggiunge la ricercatrice. Il problema di proposte come quella di Slim da una parte e di Coote dall’altra è che al di là dei ragionamenti, per essere convincibili e, soprattutto, per convincere il grande pubblico e la classe politica, devono essere testate, testate e ancora testate. A Göteborg, seconda città della Svezia, lo scorso aprile il comune ha deciso di cominciare a sperimentare con una giornata lavorativa di sei ore. Sono passati meno di sei mesi dall’inizio del test ed è troppo presto per avere dei risultati, ma come ha dichiarato il sindaco della città: l’unico modo di trovare nuove soluzioni è tentare, tentare, tentare. Slim dal canto suo ha gia’ concesso ai suoi dipendenti piu’ anziani di lavorare quattro giorni a settimana e mantenere lo stesso stipendio, mentre la Virgin offre numerose opportunita’ di organizzare il lavoro attorno alle esigenze dell’impiegato. Paragonarli a Ford sarebbe troppo, ma e’ lecito dire che tra i big di oggi sono i pionieri di quello che potrebbe diventare una radicale trasformazione della struttura del lavoro.

Le fotografie di Slim e Branson nel testo via Getty Images