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I fantasmi romani di Nicola Lagioia

Intervista all'autore della Città dei vivi, ricostruzione letteraria dell'omicidio Varani.

di Giuliano Malatesta

Nicola Lagioia, La città dei vivi, Einaudi

Nella casa romana di Nicola Lagioia, dietro Piazza Vittorio, due differenti armadi contengono gli stessi identici atti processuali  interrogatori, perizie, intercettazioni, c’è perfino la traccia Gps che ricostruisce gli ultimi movimenti della macchina di Marco Prato migliaia di documenti che a fatica provano a fornire una cornice di senso all’insensato omicidio di Luca Varani, il ragazzo torturato e ucciso nel marzo del 2016 in un anonimo appartamento di periferia da due coetanei, Manuel Foffo e Marco Prato. «Nel primo sono messi per nucleo di personaggi, come fossero tre racconti diversi, nell’altro li ho sistemati in ordine cronologico. Li ho anche sul computer ma mi incasinavo, su carta è stato più semplice consultarli». Non si tratta però di morbosa curiosità e neanche di una rara forma di ossessione, anche se si può immaginare come ogni scrittore sia costretto a convivere con lampi di lucida follia, ma del tentativo di provare a mettere ordine al caos, partendo dal presupposto che «nessun essere umano è all’altezza delle tragedie che lo colpiscono». Parte da qui, da questa assunzione di debolezza, il nuovo romanzo di Nicola Lagioia, La città dei vivi (Einaudi), che in realtà è «una città di morti popolata da vivi». O meglio ancora da fantasmi, che sembrano muoversi compiendo azioni che loro stessi non sono in grado di comprendere appieno.

ⓢ Ero curioso di sapere se prima di metterti a scrivere ti eri riletto A Sangue Freddo, di Truman Capote.
Capote è uno scrittore che leggo spesso e quindi il suo romanzo, grande libro ovviamente, lo avevo ben chiaro in testa. Ma è curioso che ogni volta che si fa riferimento alla cosiddetta “non fiction novel” si citino come esempi universali A Sangue Freddo e L’Avversario di Carrère, quando in realtà sono due macchine narrative completamente differenti. Ad ogni modo il primo romanzo a raccontare storie di questo tipo fu Compulsion di Meyer Levin, che ispirò Nodo alla Gola di Hichtkock.

ⓢ Se parliamo di letteratura al servizio della realtà, anche l’Italia ha una sua nobile tradizione.
Certamente, abbiamo un’eredità importante. Penso a Cristo si è fermato a Eboli, di Carlo Levi, ma anche a Se Questo è un uomo, di Primo Levi, un racconto del male assoluto del Novecento filtrato non attraverso la lente di un filosofo o di uno storico ma di uno scrittore. Ma si potrebbe andare avanti a lungo. La Pelle di Malaparte, alcuni racconti di Il Mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese, fino alla Scomparsa di Majorana di Sciascia.

ⓢ Qual è stata la miccia che ha innescato il tuo interesse su una storia cosi assurda?
Ti rispondo tornando per un attimo a Truman Capote. Quando lui si reca in Kansas, dopo aver letto una breve notizia sul Nyt che parlava del quadruplice omicidio di una famiglia, lo fa senza sapere ancora chi siano i colpevoli ma subodorando che ci sia qualcosa che lo interessa. C’è una scena nel film Truman Capote – A Sangue Freddo in cui il protagonista, interpretato da Philip Seymour Hoffman, dice: «È come se io e loro fossimo cresciuti nella stessa casa, solo che loro sono usciti dalla porta di dietro e io da quella davanti». Lui ovviamente in loro rivede sé stesso se non fosse diventato Truman Capote, e lo intuisce prima che si svelino i colpevoli. Ecco, io ho percepito una sensazione simile. Leggendo quella storia istintivamente ho pensato che in qualche modo facevo parte di quel gruppo, quella storia mi apparteneva.

ⓢ Cosa ti colpì esattamente? Un dettaglio? Il contesto di riferimento? La promiscuità sessuale? Le storie in apparenza semplici dei protagonisti?
Quando il caso esplose molti tirarono in ballo il massacro del Circeo, ma i due episodi sono completamente diversi. Izzo e i suoi complici erano molto ben determinanti nel  perseguire il male e pianificare l’omicidio, erano persone che avevano un profilo delinquenziale. Di Manuel e Marco invece colpiva da un lato la loro apparente normalità, a dimostrazione di come sia labile il confine che separa una vita normale da una vita ribaltata, e dall’altro il fatto che subito dopo l’omicidio non sembravano capaci di ricondurre quello che avevano fatto a una libera scelta, nonostante avessero tutte le informazioni per farlo.

ⓢ Libero arbitrio, responsabilità, senso di colpa. Sono gli strumenti che provi a utilizzare per  entrare dentro questa storia, cercando di individuare un punto di rottura che faccia da collante ai tanti elementi che possono aver contribuito a giocare un ruolo  l’alcol, la cocaina, gli scompensi affettivi ma che presi singolarmente non sono in grado di spiegare una tragedia di quelle dimensioni.
Se fosse sufficiente imbottirsi ininterrottamente per quattro giorni di cocaina per tirar fuori tutta quella violenza a Roma ci sarebbero 20mila morti al giorno. Quindi credo che il tema centrale sia possedere gli strumenti che in te rendono abbastanza saldo il concetto di responsabilità, di scelta, di iniziativa individuale, di capacità di decidere della tua vita. Se non hai quegli strumenti rischi di subire una cosa del genere, anziché compierla.

ⓢ Cosi non c’è il rischio di arrivare a confondere vittima e carnefice?
Rispetto a sé stessi si, ma non rispetto a Luca Varani. Perché se così è, se vittima e carnefice si confondono, allora la differenza è che mentre Varani è una vittima incolpevole, loro sono colpevoli, della loro debolezza e del fatto di avere un’identità cosi fragile. D’altronde Manuel e Marco non sono mai in grado di distogliere lo sguardo da sé stessi, è come se si guardassero continuamente allo specchio. Sono tremendamente narcisi e quindi succubi dell’opinione altrui. Manuel, ad esempio, è preoccupato che la gente pensi che lui sia omosessuale, persino di più rispetto al fatto che lui sia un assassino.

ⓢ Forse è per questa oggettiva difficoltà a spiegare con un barlume di razionalità l’intera vicenda che un uomo delle istituzioni come il Comandate dei Carabinieri Donnarumma, incaricato delle indagini, è arrivato a evocare il diavolo.
Per me quello è stato uno spunto interessante. Volendolo interpretare in chiave laica, potremmo dire che il male è una forma di possessione, cosa peraltro abbastanza vera.

ⓢ A proposito di possessioni. L’altro grande protagonista del romanzo è Roma, una città che sembra perennemente vivere una sorta di eterno decadimento.
È uno dei personaggi del libro. L’omicidio di Luca Varani avviene in un periodo in cui si discuteva molto di Mafia Capitale. Ma la cosa interessante è che a Roma il tanto decantato mondo di mezzo esiste dai tempi degli antichi romani. Al contrario di quello che avviene in altre grandi metropoli internazionali Roma è una città in cui le classi sociali sono molto permeabili, e dove volendo tutti hanno la possibilità di incontrarsi con tutti.

ⓢ Dopo la fine del processo, sei andato per un periodo a vivere a Torino. Avevi bisogno di  respirare, cambiare aria?
Se Roma era una malattia io me l’ero presa. Il lavoro per il Salone del Libro di Torino mi ha dato l’occasione per mettere una distanza, salvo poi scoprire che questa distanza non ero in grado di rispettarla. Provavo una straziante nostalgia, alla fine sono tornato.

ⓢ Sei riuscito a venire a patti anche con il famigerato cinismo capitolino?
Eh, non sempre è facile, qualunque obiettivo di poni a Roma hai la sensazione che non valga mai la pena. Se racconti che ti piacerebbe tantissimo fare una certa cosa troverai sempre qualcuno pronto a dirti “ma che te frega“. È una forma di cinismo orrendo ma che nasconde anche un momento di saggezza. In quanto città eterna si respira la consapevolezza che tutto si corrompe e tutto si distrugge. A Roma chiunque è transitorio, anche la gloria.