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Gli armeni e gli altri: che succede in Turchia?

Il 7 giugno i turchi eleggeranno il nuovo governo. Il dibattito politico è raramente stato più contrapposto, per gli armeni ma non solo.

di Matteo Colombo

459681416Crescita economica e disuguaglianze sociali. Stabilità democratica e presidenzialismo autoritario. Apertura alle minoranze e retorica settaria. Politica inclusiva e islamizzazione della società. Pluralismo dell’informazione e censura dei media. Il dibattito politico in Turchia è ormai caratterizzato da una diversità di opinioni così radicale che i partiti non si dividono soltanto sulle strategie per affrontare i problemi, ma anche sull’analisi della situazione generale del paese. È una contrapposizione netta e radicale, che alimenta le divisioni tra le diverse componenti etniche e religiose della società turca: da una parte la maggioranza che sostiene il Presidente Erdoğan e il suo partito (Akp), dall’altra le minoranze e le opposizioni.

Il discorso del Papa e la reazione della Turchia

La dura reazione turca alle parole del Papa, che ha usato la parola «genocidio» per ricordare il massacro degli armeni nel 1915, si spiega anche (e forse soprattutto) con la contrapposizione tra le forze politiche a poche settimane dalle elezioni. In particolare, è in corso una competizione per i voti dell’elettorato di destra tra il Movimento del popolo nazionalista (Mhp) e il Partito di giustizia e Sviluppo (Akp). Secondo gli ultimi sondaggi, l’Akp avrebbe perso consensi tra gli elettori nazionalisti e questo spiegherebbe perché diversi esponenti di questo partito stiano portando avanti una retorica politica che mette al centro l’identità turco-sunnita dei suoi cittadini. Il tema degli armeni servirebbe proprio per rinforzare questo tema, fortemente caratterizzato da elementi etnico-religiosi e dai pregiudizi negativi di una parte della popolazione.

I «fatti del 1915», come vengono chiamati dal Presidente Erdoğan, sono ancora un argomento molto difficile da affrontare nel dibattito interno turco. Da un lato c’è la posizione di una parte del mondo accademico, che non contesta la verità storica della strage degli armeni, ma nega la definizione di «genocidio». Tale interpretazione sottolinea come la maggior parte di questi crimini siano avvenuti nelle regioni di confine dell’impero ottomano e devono essere valutati nel contesto della prima guerra mondiale, quando c’era la possibilità che alcuni gruppi armati di nazionalisti armeni si unissero alle truppe russe che premevano ai confini. Anche la disumana deportazione di centinaia di migliaia di armeni viene spiegata come una decisione che aveva l’obiettivo di preservare l’integrità dell’impero ottomano.

La vulgata ultranazionalista riconosce le deportazioni forzate, negando responsabilità per i massacri degli armeni.

Dall’altro lato c’è la “vulgata” ultranazionalista, che va ben oltre questa interpretazione e riconosce solo le deportazioni forzate, negando qualsiasi responsabilità dei vertici politici turchi per i massacri degli armeni. Per costoro è impensabile che alcuni dei loro personaggi di riferimento ideologico potessero essere stati a conoscenza di quanto stava avvenendo. Questo tipo di lettura degli eventi, sostanzialmente negazionista, arriva in alcuni casi a definire il massacro degli armeni come una «bugia». È un atteggiamento che si spiega anche con delle motivazioni economiche. Il riconoscimento giuridico del genocidio implicherebbe, infatti, la restituzione dei beni e delle proprietà ad alcuni discendenti delle vittime del massacro. Tale prospettiva creerebbe un’infinità di contenziosi all’interno del paese, alimentando anche tensioni con una parte della comunità armena che ancora vive in Turchia.

Il quadro interno e il tema delle minoranze

A poche settimane dalle elezioni del 7 giugno, il dibattito sulle minoranze (curdi, alevi, armeni) è diventato centrale per la politica turca. Tale discussione si interseca con la trattativa in corso tra Pkk e governo per arrivare a un cessate in fuoco da parte del gruppo indipendentista, che rappresenterebbe una novità molto significativa dopo 30 anni di conflitto armato. Tra le richieste del gruppo, inserito nella lista delle organizzazioni terroriste anche da Unione europea e Stati Uniti, potrebbe esserci anche quella di cambiare l’articolo 66 della Costituzione, che definisce «turco» (nel senso etnico del termine) chiunque sia nato all’interno dei confini di questa nazione.

Il tema dell’identità nazionale, etnica e religiosa è molto sentito in questo paese, dove circa il 30% della popolazione non appartiene alla maggioranza turco-sunnita. In passato l’ostilità da parte di una parte dei nazionalisti nei confronti delle minoranze aveva portato diversi cittadini di queste comunità etniche e religiose a scegliere i partiti di opposizione. Tale dinamica potrebbe ripetersi nelle prossime elezioni, in particolare all’interno della comunità alevi. Diversi cittadini turchi che appartengono a questo gruppo sciita (circa il 15% della popolazione) sono tradizionalmente vicini alle formazioni di sinistra e negli ultimi mesi hanno contestato al Presidente Erdoğan di avere adottato una retorica settaria.

La questione delle minoranze permette anche di comprendere la strategia del gruppo terrorista di orientamento marxista Chkp-c. Come hanno sottolineato diversi analisti politici, un attentato al giudice che indagava sulla morte di Berkin Elvan potrebbe essere stato condotto per radicalizzare lo scontro tra governo e alevi. Il quindicenne, ferito gravemente mentre si recava a comprare del pane nei giorni della protesta di Gezi Park e morto in ospedale dopo 9 mesi di coma era, infatti, nato e cresciuto nel quartiere di Okmeydanı, un’area di Istanbul abitata soprattutto da alevi. Da mesi sono in corso delle manifestazioni di protesta in questa zona della città contro il progetto di abbattere 5.000 abitazioni per costruire un nuovo quartiere del lusso che, secondo il sindaco della municipalità di Beyoğlu (Akp), «non avrà nulla da invidiare agli Champs-Élysées».

La questione di Okmeydanı è diventata i il simbolo dello scontro politico tra due visioni opposte del paese.

La questione di Okmeydanı è inoltre diventata i il simbolo dello scontro politico tra due visioni opposte del paese. Da una parte c’è l’idea di progresso dell’Akp, simboleggiata dai grattacieli, dai centri commerciali e dalle moschee moderne. Dall’altra la difesa di un quartiere popolare, abitato soprattutto da cittadini che appartengo ad una minoranza e rischiano di subire un espropriazione dei terreni su cui sorgono le loro case. Il Chkp-c avrebbe cercato di strumentalizzare questa protesta. Non è un caso che molti membri di questo gruppo siano stati arrestati proprio in questa zona di Istanbul.

Cosa succederà ora?

Nonostante il calo di popolarità e i problemi interni, la vittoria dell’Akp nelle prossime elezioni appare molto probabile. Questo partito può ancora contare su un consenso molto alto nelle grandi città e nelle zone rurali, costituito soprattutto dai piccoli imprenditori e dalle fasce più povere della popolazione, che ritengono di avere migliorato le loro condizioni economiche negli ultimi anni. Per questi settori della popolazione l’Akp resta la scelta elettorale migliore, perché lo ritengono l’unico partito in grado di comprendere le loro istanze sociali e di impegnarsi per difenderle. È un voto pragmatico e conservatore, poco interessato alle questioni della laicità e alle accuse di autoritarismo nei confronti di Erdoğan. Le opposizioni faticano perciò a convincere questi elettori a cambiare partito. Niente di più probabile, quindi, che le elezioni del 2015 confermino ancora una volta la popolarità dell’Akp e rappresentino l’ennesima vittoria di Erdoğan.

 

Nell’immagine in evidenza: Papa Francesco e il premier turco Erdogan posano insieme al palazzo presidenziale di Ankara. 28 novembre 2014. (Gokhan Tan/Getty Images).