Attualità

La nuova Atene

Secondo molti è la città europea del momento: dopo la crisi del 2015, una vitalità nuova l’ha resa meta di riferimento dei creativi europei. Non tutti però la vedono come una cosa positiva.

di Cristiano de Majo

Atene viva, Atene rinata. «La città europea del momento», a leggere alcuni titoli. «La nuova Berlino», dice chi la identifica come il nuovo punto cardinale nella mappa migratoria del precariato creativo. «Dopo Documenta, gli artisti si stanno comprando casa», si sente dire anche. Piccoli patrimoni ereditati dalla meglio borghesia culturale d’Europa e investiti nell’immobiliare: vendi all’Isola, compri a Kolonaki. Ma è veramente migliore il quadro della situazione della capitale greca a distanza di tre anni circa dalla feroce crisi economica e politica che la investì? Quella delle banche chiuse, delle medicine che non c’erano, delle manifestazioni durate giorni, della tecnocrazia europea che voleva “affamare un popolo”? Intanto c’è un primo dato empirico da segnalare, se guardi l’Economist o il Financial Times o Politico, per non dire dei giornali italiani, di notizie sulla Grecia e sulla sua situazione economica attuale non ne trovi quasi più. La gran parte degli articoli risale al 2015, appunto, quando si doveva raccontare la crisi e bisognava spiegare cosa la Grecia stesse passando, quando si ipotizzava quale fosse la via d’uscita, quella auspicata dalla stampa occidentale sarebbe poi stata la direzione presa dal Primo ministro Tsipras con una giravolta che avrebbe fatto gridare al tradimento il fronte romantico e internazionale dell’Oki, quel 60% che al referendum votò “No” al memorandum, le condizioni imposte dall’Europa per risanare il debito greco. Ma la Grecia adesso sta meglio? Se è difficile dirlo su due piedi, sempre cercando su Google ci si fa attirare invece dalle rubriche travel del Guardian o del New York Times, che fioccano di consigli sui modi migliori per trascorrere un weekend nella capitale greca.

Atene
«Sembra che la macchina di Atene stia funzionando, ma ci sono quartieri che è sempre più difficile permettersi» (foto di Alessandro Furchino Capria)

In una mattina della primavera del 2018, l’ho fatto anch’io: ho volato da Malpensa all’Eleftherios Venizelos, l’aeroporto internazionale di Atene, attraversando un pezzo d’Europa orientale tersa e senza perturbazioni. In una mano avevo un libro letto vent’anni prima, una prima edizione de I Nomi di Don DeLillo di Tullio Pironti Editore, la copertina con uno sfondo giallo che incornicia una vecchia fotografia in bianco e nero del Partenone. In testa avevo un video che mi era capitato di guardare poche sere prima, per caso, cercando la chiave “documentario Atene” su YouTube, la versione dal vivo di una delle mie canzone preferite, “Golden Brown” degli Stranglers, eseguita a un festival del 1985, con una line-up mitologica (Clash e Cure, tra gli altri), e un nome altrettanto mitologico: Rock in Athens. Nel video l’esecuzione sbilenca, vagamente stonata del gruppo britannico, si staglia sullo sfondo dell’Acropoli nella luce di un tramonto estivo, con un cielo arancione saturo, drogato. Nel libro di DeLillo, un’opera considerata minore ma non per me, il protagonista James Axton è «un americano che analizza la “quantità di rischio” per una compagnia di assicurazioni, fornendo dati e notizie sulla situazione politica ed economica dei Paesi mediorientali».

Il bagaglio che avevo deciso di portare aveva a che fare con una certa idea esotica, levantina, decadente e di confine

Scritta nel 1982, la storia si svolge nel 1979, nell’anno della rivoluzione islamica in Iran, e ha il suo centro proprio ad Atene, punto di partenza e di ritorno dei misteriosi viaggi di Axton in Medioriente. Così recitano le prime righe: Per molto tempo mi tenni lontano dall’Acropoli. Mi intimidiva, quella rocca tetra. Preferivo vagare nella città moderna, imperfetta, chiassosa. Il peso e l’importanza di quelle pietre lavorate rendevano arduo il compito di visitarle. Così tante cose convergono in quel punto, tutto ciò che abbiamo salvato dalla follia: bellezza, dignità, ordine, proporzione. Una visita del genere era molto impegnativa. Seguono oltre trecento pagine di prosa delilliana in purezza, che si attorciglia in intrighi poco chiari, ma con atmosfere ateniesi che ti restano addosso. Questo per dire che il bagaglio che avevo deciso di portare aveva molto più a che fare con una certa idea esotica, levantina, decadente e di confine. Ma in verità un’idea reale, per quanto molto parziale, ce l’avevo già: a inizio anni Novanta ero stato ad Atene di passaggio, durante il mio primo viaggio senza mamma e papà, diretto verso un’isola nel Mar Egeo, e dall’Acropoli, a differenza di James Axton, non mi ero tenuto lontano; guardando la città dall’alto ne avevo ricavato l’impressione fuggevole che non meritasse approfondimenti; faceva caldo e mi sentivo oppresso dal cemento, il giorno dopo mi sarei già tuffato nel mare turchese.

Sono atterrato all’aeroporto oltre vent’anni dopo e, via metro, sono arrivato alla fermata Monastiraki all’ora di pranzo. In superficie, in quel venerdì di aprile soleggiato ma con raffiche di vento, ho visto come prima cosa la cupola della vecchia moschea di piazza Monastiraki, e poi, nell’angolo dell’occhio, è spuntata la cima dell’Acropoli. L’immagine si è allargata con prepotenza e non è stato più possibile evitarla. In basso il traffico, i rumori, la folla e in alto quella Cosa, quell’oggetto surreale, fatto di una calma straniante. L’architettura metafisica che domina il caos moderno fa pensare a certe copertine di Urania degli anni Settanta, qualcosa che sta a metà strada tra il kitsch e la distopia. Ho pranzato, dietro alla piazza grande di Monastiraki, in un’ansa di Mitropoleos, ricoperta a tappeto dai tavolini dei ristoranti. Mi sono buttato sullo tzatziki, sull’insalata greca, sulla birra Alfa. E ho guardato le facce di chi mangiava ai tavoli accanto al mio. Coppie e famiglie che avrei definito inconfondibilmente greche con cinque o sei piatti davanti. Si sono fatte le tre e ancora tanti, tantissimi passanti scorrevano sulla strada. Più che turisti, comitive di studenti, amiche di shopping, qualche uomo di mezza età vestito in modo più formale.

Dopo poco, ho raggiunto in cinque minuti Psirri (che si può chiamare anche Psyri o Psiri o Psyrri), il quartiere dove ho preso casa attraverso l’agenzia Live in Athens, che offre appartamenti centrali ed esteticamente curati, la cui reception potrebbe essere la reception di qualunque altro omologo d’occidente: un tipico frullato di Post-it, legno chiaro, tazze, lavagnette, caffè americani. L’appartamento è una camera all’ultimo piano di un vecchio palazzetto, con il bagno e la cucina separati, arredato con pochi pezzi, alcuni vecchi mobili in un quadro di insieme fatto di gusto contemporaneo e comfort. La cosa più bella è il grande terrazzo affacciato sulla così chiamata piazza degli Eroi, il centro di questo quartiere, che nel corso dei giorni scoprirò frequentatissima, soprattutto di notte, con il grande murales di facce cubiste disegnate sulla facciata laterale di un palazzo moderno e i suoi mille tavolini e ombrelloni, il perenne aroma di carne grigliata e, dal tramonto in poi, le melodie persistenti del rebetiko suonato nelle taverne. Psirri è un esempio abbastanza emblematico della singolare gentrification ateniese: in questo quartiere considerato degradato e pericoloso fino agli anni Novanta, si respira un’aria allegra, sociale, tranquillizzante; a tratti, come nella reception, sembra avanzare una generica estetica occidentale, ma l’identità resta fortissima, la musica, l’odore del cibo, i vecchi che passano ore seduti al bar con davanti i beveroni di caffè, le scritte di protesta, i murales e gli alberi che spuntano dal cemento creando angoli deliziosi e impensabili.

«Guardando la città dall’alto ne avevo ricavato l’impressione fuggevole che non meritasse approfondimenti» (Foto di Alessandro Furchino Capria)

Dimitris Theodoropoulos è nato a Corinto nel 1979 e vive ad Atene dai tempi dell’università, qui ha studiato architettura e oggi ha un piccolo studio con due soci, oltre a insegnare (a Tinos e a Patrasso) e a far parte di un gruppo artistico che si fa chiamare Errands. Vive a Koukaki, ai piedi dell’Acropoli, un quartiere abbastanza centrale, considerato una delle ultime riscoperte nella mappa urbana. Un articolo su Vogue del 2017 lo certifica come “hip” e lui stesso conferma: «Sembra che la macchina di Atene stia funzionando, ma ci sono quartieri che è sempre più difficile permettersi, come Koukaki, perché sono stati conquistati da Airbnb». Atene, secondo lui, è cambiata soprattutto grazie al boom turistico che l’ha investita dopo la crisi: «Durante il picco della crisi i negozi chiudevano, il centro si stava svuotando, poi è successo qualcosa: Atene è sempre stata una città fatta di angoli incantevoli e meravigliosi ritmi di vita, con la curiosità per la crisi vissuta come una forma di esotismo, i giovani creativi stranieri hanno seguito le orme che i loro genitori avevano già percorso negli anni Settanta; per le persone creative è eccitante: da un lato c’è questa gioia di vivere, dall’altro costa tutto poco, e si possono fare molte cose con un budget estremamente ridotto». La situazione politica, la partecipazione, la ribellione hanno prodotto un’atmosfera che ha reso la città più interessante e attraente, ma l’arrivo di queste persone e il pragmatismo governativo hanno affievolito energia e sentimenti a cui alcuni guardano già con nostalgia.

«La rivalutazione è iniziata prima che Syriza vincesse le elezioni, quando c’erano giornalisti, intellettuali, artisti da tutto il mondo a vedere cosa sarebbe successo, c’erano attesa e discussioni ovunque»

È la vecchia e solita storia della bilancia con l’autenticità su un piatto e la rigenerazione urbana sull’altro: la prima richiama la seconda, la seconda tende a cancellare la prima. «Personalmente sono molto meno coinvolto dal punto di vista politico di cinque o sei anni fa, l’impossibilità di rifiutare le direttive del memorandum ha generato nelle persone di sinistra una forte disillusione». Sulla disillusione insiste molto anche Matteo Nucci, scrittore romano, che qualche anno fa ha comprato casa a Exarchìa, il celeberrimo quartiere studentesco e anarchico: «Il popolo greco è storicamente un popolo molto radicale, per i greci la svolta di Tsipras è stato un punto di non ritorno da un punto di vista ideale e culturale, così hanno completamente perso quella spinta». Nucci non è un ateniese dell’ultim’ora, è innamorato della città e la visita regolarmente da vent’anni, anche perché è appassionato di cultura antica e il suo libro più famoso è un singolare reportage narrativo sulla mitologia, Le lacrime degli eroi (Einaudi). «La riscoperta ha avuto anche conseguenze negative ma sono felice perché negli ultimi 15 anni ho dovuto sentire mille volte che Atene era brutta e la cosa tipica che si faceva era passarci per andare in qualche isola e invece non è più così, adesso si va ad Atene e si resta lì, una rivalutazione iniziata prima che Syriza vincesse le elezioni, quando c’erano giornalisti, intellettuali, artisti da tutto il mondo a vedere cosa sarebbe successo, c’erano attesa e discussioni ovunque, in qualunque bar entrassi, come una specie di Spagna pre-Guerra civile».

Antichità e modernità, ad Atene, sembrano incrociarsi senza mai veramente toccarsi. Molti quartieri hanno una peculiare estetica moderna, che con vaghezza si potrebbe definire mediterranea. Passeggiando, ho ripensato spesso agli scorci più moderni di Napoli (il Vomero, per esempio, o Posillipo), così come alle immagini mentali di città come Beirut o Tel Aviv. Qualunque panorama dall’alto offre lo spettacolo del cemento a perdita d’occhio. Mentre l’Acropoli è lì, che sembra aspettarti ogni volta che la guardi; di giorno nella sua essenza rocciosa, di notte illuminata come un fantasma della storia, dandoti ogni volta un brivido o una vertigine. A differenza di altri monumenti-icona del passato remoto (il Colosseo) o più recente (la Torre Eiffel), non sembra essere stata consumata dallo sguardo del mondo e continua a sprigionare la sua silenziosa potenza.

Qualunque panorama dall’alto offre lo spettacolo del cemento a perdita d’occhio. Mentre l’Acropoli è lì, che sembra aspettarti ogni volta che la guardi

Tutto ciò che di moderno o contemporaneo la circonda non fa che aumentare questo effetto, come l’astronave progettata da Bernard Tschumi che dal 2009 è diventata il futuristico Museo dell’Acropoli, che non si può non visitare per quello che c’è dentro (i ritrovamenti degli scavi), e che oltretutto offre la possibilità di un pranzo sul suo grande terrazzo con vista sull’Acropoli. «Il paradosso è che Atene è una delle città meno antiche d’occidente», mi dice Nucci, «ha 180 anni o poco più, quando dopo quattro secoli di dominio turco la Grecia diventa una monarchia, comunque restando sotto egemonia straniera, quella tedesca… e nel 1834 re Ottone, un giovanotto di diciott’anni con in testa il mito della classicità, sposta la capitale da Nauplia in Peloponneso a qui, dove in quel momento non ci sono neppure diecimila abitanti: è un villaggio alle pendici dell’Acropoli che conta poche migliaia di pastori e agricoltori. Ottone decide di dare alla città uno sviluppo urbanistico di tipo neoclassico, tutto con grandi viali e palazzi disegnati dagli architetti mitteleuropei, e questa è l’Atene dell’Ottocento, che già nasce con un forte stampo europeo».

L’Acropoli in lontananza (Alessandro Furchino Capria)

La mattina che sono andato a Exarchìa, sono uscito da Psirri percorrendo i vicoletti in salita assolati e pacifici, con le taverne che riaprivano le porte dopo le lunghe notti di mezedes e rebetiko, per confluire nella lunga arteria Athinas, che mi ha portato davanti al mercato centrale. Qui il paesaggio, umano e architettonico, è diventato di colpo più crudo. Negozi affastellati di oggetti di pochissimo valore, facce appesantite, segnate, o soltanto povere. Poi l’esotico spettacolo del mercato di carne. Gli agnelli appesi a testa in giù, gocciolanti di sangue, le teste mozzate ammucchiate nei cesti, le interiora, l’odore pungente. Fuori, in cerca di una galleria d’arte che alla fine non ho trovato, sono finito in una piazzola dove un gruppo sparpagliato di tossici si faceva all’aria aperta, sotto gli occhi di tutti, righe di polvere bianca tirata dai muretti, i fumi di qualche pipetta da metanfetamina. Sono quasi scappato via quando ho capito che qualcuno mi stava venendo incontro e poco dopo ho raggiunto la grande piazza Omonia, raccordo un po’ decadente di un’idea abbozzata di downtown. Exarchìa è a due passi da qui e ti accorgi subito quando ci sei dentro, perché inizi a vedere le scritte sui muri e le locandine appiccicate, come a Psirri ma di più, e i negozi di dischi e più avanti anche il cibo salutare, forse la quinoa e l’avocado toast. C’era il mercato quel giorno nell’ultima strada del quartiere prima della collina, una teoria di bancarelle che mi ha fatto pensare al tempo stesso a Berkeley e al Pigneto. E mi sono innamorato di alcune delle strade laterali del quartiere, all’apparenza molto condominiali, ma poi piene di vetrine, negozi di vestiti usati, librerie, soprattutto posti dove si mangia, che hanno sempre i tavoli pieni, praticamente a qualunque ora.

In una di queste, ho pranzato in una taverna, con i tavoli all’aperto, all’ombra dei palazzi anni Sessanta e Settanta, un posto dove poi sarei tornato più volte per colpa dei deliziosi involtini di riso nella foglia di vite e della crema di fave. Dopo il caffè, mi sono arrampicato in salita per raggiungere il Licabetto, che insieme a Filopappo è una delle colline che riscattano la città dalla sua densità pianeggiante. Ancora una vista di Atene, questa distesa abbagliante di palazzi racchiusa dal mare e dalle montagne. Infinita poi la discesa verso Kolonaki, quello che viene considerato il quartiere elegante della città, con i suoi bellissimi palazzi bianchi modernisti, i terrazzi con le piante, le scalette che ti riportano in collina, i caffè storici e quelli più contemporanei, alcuni con troppo nero e troppa pelle per essere presi abbastanza sul serio. La incontrai in un caffè a Piazza Kolonaki – scrive DeLillo ne I nomi un posto dove tutti gli ateniesi che contano si fanno vedere prima o poi, dove le donne hanno bocche imbronciate ultraviolette, la divisa è la pelle, le catene d’oro; l’oggetto futurista parcheggiato all’angolo è una De Tomaso Pantera, la macchina d’assalto delle fantasie oziose, e gli uomini snelli e barbuti si muovono sulle loro sedie, dietro lenti scure, con i pullover drappeggiati sulle spalle. Ad Atene il passaggio da quartiere a quartiere ha qualcosa di fluido, ma questo non vuol dire che il paesaggio umano ed estetico non cambi radicalmente. Kolonaki è il posto dove ho vagheggiato di trascorrere dei mesi come una spia di un romanzo di DeLillo, a non fare niente, a passare il tempo seduto ai bar, a sentirmi avvolto da questa stranissima forma di esotismo occidentale.

Atene Grecia
«Scampato il peggio, ti accorgi poi che non stavi così male». (Foto di Alessandro Furchino Capria)

Atene viva, Atene rinata, o Atene sempre la stessa. È il Cern della contraddizione europea, ma anche la città che ti mette il dubbio terribile che la vera gioia di vivere stia nella dissipazione (del tempo o di qualunque ambizione). Resta da capire cosa sia successo dal 2015 a oggi e se questo possa aiutarci in qualche modo ad affrontare quello che forse succederà domani in Italia o in qualche altro Paese europeo. «Non è successo nulla, la crisi si è fermata e l’economia ha fatto un balzicchio», mi dice Giorgio Arfaras, economista greco ma naturalizzato italiano del Centro studi Einaudi, «ma la sostanza dei problemi è rimasta la stessa, un Paese che non ha industria, che fatica a riscuotere tasse, la Grecia ha smesso di deteriorarsi però non ha risolto alcuni dei suoi problemi storici». La cosa, mi spiega, si può riassumere con una formula che potrebbe tornarci utile: «Scampato il peggio, ti accorgi poi che non stavi così male».

Dal numero 35 di Studio, in edicola