Attualità

La moglie scomparsa di Star Wars

Marcia Lucas, prima moglie di George, ha plasmato Guerre stellari e lo stesso regista, ma la sua partecipazione ai film della saga è stata cancellata dalle cronache.

di Andrea Fiamma

Star Wars: per quanto uno si appassioni a un argomento, certi angoli rimangono nascosti con più ostinazione di altri. Come la storia di Marcia, montatrice del primo Guerre stellari e moglie del regista George Lucas. A differenza degli altri, è un episodio che la Lucasfilm tiene a non farvi vedere. Marcia Lucas ha plasmato Guerre stellari e George Lucas stesso. A dirla tutta, Marcia Lucas ha plasmato il cinema contemporaneo, volontariamente o meno. Non molti la conoscono, persa com’è tra i sedimenti di quel monumento culturale chiamato Guerre stellari, al cui apice c’è il faccione di George Lucas.

Rapporti interrotti per via delle sue manie di controllo: Gary Kurtz, produttore dei primi due Guerre Stellari, se ne è andato alla fine dell’Impero colpisce ancora perché lavorare con Lucas era diventato «un po’ come interagire con Howard Hughes»; di Irvin Keshner, regista dello stesso film, mal sopportava il modo in cui girava (tanti master e poche coperture= poca libertà di movimento in fase di montaggio). In un’intervista sul Washington Post Lucas parla di dittatura: «Non si può lavorare dando consigli da dietro le spalle. O sei il dittatore o non lo sei». Non è mai stato un problema di meriti, più di potere decisionale, giacché ha sempre accreditato chi doveva accreditare, anche quando non aveva fatto molto. Nei titoli di coda de L’Impero colpisce ancora la sceneggiatura del film è attribuita a Leigh Brackett (Un dollaro d’onore, Il lungo addio), un omaggio postumo nonostante la sua bozza fosse stata rigettata in toto. Solo Marcia Lucas è stata estromessa da ogni cronaca. Di lei si sa troppo poco per essere vissuta nel secolo dell’informazione.

Nella sterminata produzione audiovisiva e letteraria dedicata alla saga, il suo nome compare due o tre volte. La mancanza più grave è quella dei Making of  voluti della Lucasfilm. Etichettati come «i resoconti definitivi», non lesinano di particolari sugli aspetti più bui di quegli anni (Carrie Fisher che lavora fatta di cocaina, per esempio), ma Marcia è epurata dai testi, in particolare da quello sul primo Guerre stellari. Rinzler, autore dei documentari, la dipinge come una comparsa, uno dei tanti alieni della cantina di Mos Eisley. Vale lo stesso per L’Impero dei sogni, il documentario ufficiale della serie. Anche qui, una fugace foto d’archivio e qualche citazione d’obbligo sono l’unico obolo che la Lucasfilm ha sentito di dover pagare. In qualsiasi prodotto propagato dalla compagnia non c’è traccia di Marcia. La lacuna si estende alla stragrande maggioranza dei prodotti fuori dal controllo del mogul, vuoi per intenzione vuoi per la ritrosia naturale della donna, comparsa soltanto in Easy Riders, Raging Bulls di Peter Biskind, in cui è riportata tra i principali nomi della New Hollywood degli anni Settanta, e nella biografia non autorizzata di Dale Pollock Skywalking: The Life and Films of George Lucas.

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Quello che le testimonianze suggeriscono è che Marcia sia stata oltre che una moglie e una – ottima, a sentire Martin Scorsese, Francis Ford Coppola e John Milius – montatrice, anche una partner creativa. Quando vuole girare American Graffiti, una storia di formazione sugli adolescenti di Modesto con una colonna sonora rock and roll, i suoi amici cercano di dissuaderlo, mentre Marcia lo incoraggia a realizzare un prodotto con al centro i personaggi e le loro tribolazioni. Lucas ha sempre difeso il suo status di artista sperimentale. Il suo debutto, L’uomo che fuggì dal futuro, era un film celebrale, fatto di suggestioni poco penetrabili dagli spettatori. È Marcia che lo sfida a realizzare qualcosa con più cuore. «Emozionare il pubblico è facile», pare sia stata la risposta di lui, «basta mostrare un tizio che torce il collo a un gattino».

American Graffiti fonda la sua forza sulla disposizione del materiale narrativo, George lo avrebbe voluto con un montaggio serrato e una griglia rigida nella successione delle storie. Marcia lo convince a dare alle scene il tempo necessario per crescere, di modo che il girato trovi il proprio respiro. Decenni dopo, quando monterà L’attacco dei cloni, il secondo prequel della saga, Lucas verrà coperto di critiche per il modo sincopato con cui conduce l’azione, impedendo alle scene di sviluppare un qualsiasi senso drammaturgico. Su Guerre stellari, Marcia non soltanto infonde dinamismo e tensione alla scena dell’attacco finale alla Morte Nera, ma consiglia il marito su un punto cardine della storia, uccidere Obi-Wan Kenobi, e su alcuni momenti che definiranno il tono della pellicola, come il bacio di buona fortuna di Leila a Luke o la gag di Chewbecca contro il piccolo robot. Iniezioni di calore ed empatia, l’empatia ingenua e innocente della provincia, da cui sia lei sia George provengono.

«Eravamo felici. Il posto era piccolo ma ci bastavano la cucina e il letto»

Galeotta fu Verna Fields, montatrice de Lo squalo. Nel 1967 Marcia viene mandata ad assistere la Fields sul documentario del viaggio in oriente di Lyndon B. Johnson. La quantità di girato è talmente elevata che la Fields assume un gruppo di studenti della University of Southern California per smistare le riprese. Tra loro c’è George, che viene messo a lavorare con Marcia. Non potrebbero essere più diversi: lei interessata alle storie e ai personaggi, espansiva e ottimista; lui pessimista e riservato ai limiti della sociopatia, ripiegato sulle sue aspirazioni artistoidi. George medita ogni scelta e la pacatezza con cui tratta la moviola manda ai pazzi Marcia, abituata al mondo della pubblicità in cui non si può stare tanto a elucubrare sul girato. George è intimidito da Marcia in quanto professionista del settore, mentre la ragazza sperimenta un certo complesso d’inferiorità intellettuale. Nonostante le premesse, iniziano a uscire insieme. Si piacciono perché hanno opinioni forti e non accettano le imposizioni. «Solo Marcia era ardita abbastanza da reggere un testa a testa con Lucas e, occasionalmente, emergeva vincitrice». Inseparabili, Lucas se la porta dietro sui set dei film di Francis Ford Coppola, con cui George instaura un forte legame basato sull’insofferenza comune verso le major cinematografiche. Si sposano e vanno a vivere in un piccolo appartamento nei pressi di San Francisco. «Eravamo felici. Il posto era piccolo ma ci bastavano la cucina e il letto».

Ma Marcia si sente osteggiata in quanto ‘moglie di’. Agogna offerte esterne, anche se il suo bisogno non va a genio al marito. Si erano a stento smarcati da Francis Ford Coppola, uno che appena la moglie gira le spalle si circonda di donne più giovani (la Lucas glielo ha visto fare durante un festino a casa Coppola), e ora George la vede piombare nel covo di perdizione di Martin Scorsese, alla ricerca dei servigi di Marcia. «Marty era selvaggio, all’epoca si faceva di tutto e aveva un sacco di ragazze» conferma Willard Huyck, sceneggiatore di Indiana Jones e il tempio maledetto, «George era un tipo casalingo e odiava vederla con loro».

Proprio quando è all’apice della carriera, con un Oscar in tasca per Guerre stellari, Marcia perde interesse nel montaggio. Scorsese si è trovato una nuova partner, quella Thelma Schoonmaker che nel 1980 aveva forgiato Toro scatenato, e le altre proposte non le interessano abbastanza. Rifiuta di montare Viaggio all’inferno di Eleanor Coppola adducendo come scusa le pulizie di primavera in casa: «Ha lavorato così tanti anni senza mai fermarsi», commenta la Coppola, «voleva starsene a casa con la famiglia». Ma Lucas è sommerso dal lavoro: le riprese de L’Impero colpisce ancora, la costruzione dello Skywalker Ranch – un abnorme complesso abitativo/lavorativo – e quel progettino sull’archeologo guascone da far partire. «Te lo prometto» le assicura lui, con il coefficiente di sincerità del drogato alle prese con l’ultima pera, «ancora uno e poi smetto, non farò altri film del genere».

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L’adozione di una bambina sembra placare la foga di Lucas e i tre vivono un breve periodo di quiete: c’è da fare un ultimo Guerre stellari e iniziare a pensare al secondo Indiana Jones. Mentre è coinvolto nella produzione del Ritorno dello Jedi, Lucas lascia la moglie a supervisionare la costruzione del ranch, un complesso mai piaciuto a Marcia («Diceva che il ranch era per noi, ma abbiamo montato American Graffiti in uno scantinato ed eravamo felici lo stesso»). Una delle sezioni prevede una cupola di vetro colorato creata da Tom Rodrigues, un artista locale di cui Marcia si innamora. Nel tentativo di salvare la relazione, propone l’appoggio a un consulente matrimoniale, ma l’unica terapia di coppia che viene in mente al rigido Lucas è farle montare Il ritorno dello Jedi, in modo da averla vicina.

I due si lasciano. Il divorzio mette in ginocchio la giovane Lucasfilm e il regista è costretto a liquidare la divisione della grafica computerizzata dove quei quattro illusi del dipartimento farneticano di un film animato al computer. Venduta a Steve Jobs, la divisione diventa la Pixar. E, se milioni di adulti piangeranno vedendo dei cartoni animati, sarà anche un po’ merito di Marcia. E Quando George Lucas si rende conto di aver perso l’amore e i soldi, si ritira nella sua Xanadu. Monumento all’ego, lo Skywalker Ranch diventa simulacro del suo fallimento come marito. Lo ritroviamo vent’anni dopo, ubriaco di magie digitali, ma sereno, pronto alla pensione. Tre anni fa un altro addio, con la cessione delle chiavi del suo regno alla Disney.

Nelle ultime interviste concesse, le similitudini che Lucas usa per descrivere la vendita rimandano all’immaginario amoroso (il fidanzato lasciato, il divorzio), un paradosso se si pensa alla scarsa empatia del regista. Egli vorrebbe entrare in contatto con la sua parte emotiva , ma quando tenta di umanizzarsi sembra Jeff Bridges in Starman («Io invio saluti!»). «È emotivamente bloccato, incapace di condividere i sentimenti», ricorda Marcia. «Quando finimmo Il ritorno dello Jedi mi disse che era una brava montatrice. In sedici anni di conoscenza, credo sia stata l’unica volta che mi ha fatto un complimento». Non c’è da stupirsi allora se lo spazio riservato alle donne nella saga è esiguo. Più che rappresentare una misoginia di fondo, la carenza risponde probabilmente a una naturale inclinazione di Lucas verso l’autobiografia. Perché Guerre stellari è George Lucas, dal primo all’ultimo film. La prima trilogia, quella classica, quella che piace a tutti, racconta della crescita di Luke Skywalker attraverso l’emancipazione dalla famiglia e la realizzazione in un cammino irto di ostacoli e tentazioni. In pratica, un simulacro di Lucas; cresciuto nella città più distante dal centro luminoso dell’universo, se ce ne fosse uno, ribellatosi al padre e alle major, George trova il successo ed è messo di fronte agli esiti delle sue scelte: il regista indipendente è diventato capo di un impero, lo stesso combattuto in giovinezza. Con la seconda trilogia, quella dei prequel, quella odiata da tutti, Lucas sembra aver perso le redini del progetto. Circondato da yes man e privo di restrizioni, l’autore è troppo occupato a riempire lo schermo di meraviglie plasticose per preoccuparsi dei personaggi in carne e ossa. Invece, la caduta di Anakin Skywalker, corrotto dal male nel tentativo di salvare la moglie che lui stesso ucciderà, è di nuovo un racconto personale. Il morality play di un uomo che aveva tutto e l’ha dissipato proprio perché era troppo occupato a trovare un modo per non perderlo.

Nella quadratura del cerchio, Lucas si è risposato – per la prima volta dopo l’unione con Marcia – nel 2013, e il nuovo capitolo della sua saga debutta – per la prima volta senza la sua supervisione – questa settimana.
A montarlo ci sono due donne, Maryann Brandon e Mary Jo Markey, collaboratrici di J.J. Abrams dai tempi di Alias. Tutto è cambiato dal 1977, quando due persone si preparavano a vivere insieme il resto della loro vita.

Nelle immagini: Oola, uno dei pochi personaggi femminili, della prima trilogia.