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La grande abbuffata sarà sempre uno scandalo

A cinquant'anni dalla prima al Festival di Cannes che entusiasmò e disgustò il mondo del cinema, il capolavoro di Marco Ferreri è tornato nelle sale in versione integrale e restaurata.

di Francesco Gerardi

La recensione più bella della Grande abbuffata di Marco Ferreri la fece uno dei presenti alla prima del film al Festival di Cannes del 1973. Nella sala grande del Palais des Festivals la proiezione del film è appena finita, scorrono i titoli di coda, le maschere aprono le porte, il pubblico si alza dalle seggiole. Prima di scappare via dalla sala, un uomo disgustato e furibondo si rivolge a Ferreri e al cast – Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Michel Piccoli, Philippe Noiret e Andréa Ferrèol – ancora seduti in prima fila, urlando: «Facevate prima a pisciarci direttamente addosso!». È il segnale che scatena l’inferno: tutti i presenti in sala iniziano a insultare regista e attori, a urlare, a sputare. Ferreri, Mastroianni, Tognazzi, Piccoli, Noiret e Ferrèol si salvano solo grazie all’intervento della Gendarmerie, che li scorta fuori dal Palais. Per tutto il tempo Ferreri manda baci al pubblico che lo vuole fare a pezzi, confermando la fama di buffone del cinema italiano che lui stesso si era assegnato.

Il giorno dopo i giornalisti chiesero un commento sull’accaduto alla presidente della giuria Ingrid Bergman, che si disse tutt’altro che sorpresa: «La Francia ha ritenuto opportuno essere rappresentata da due dei film più osceni e volgari del festival e questo è il risultato». Bergman parlava appunto della Grande abbuffata, produzione francese finanziata attingendo al patrimonio personale di Jean-Piere Rassam, costretto a metterci soldi suoi perché già all’epoca la fama di Ferreri lo precedeva e nessun produttore voleva averci a che fare, e La maman et la putain di Jean Eustache. «La grande abbuffata è finita. La borghesia finisce con questo film. Dopo c’è la post-borghesia. Ogni giorno di più esisteranno solo i padroni e gli operai. Ci sono gli operai, i padroni e gli emarginati. I padroni e gli operai dureranno vent’anni. Poi ci saranno solo gli emarginati», fu il commento di Ferreri a un film la cui portata, il cui impatto, il cui successo – probabilmente l’unico della sua carriera – nemmeno lui era riuscito a prevedere. Le censure, invece, quelle se le aspettava eccome e le desiderava pure: in Italia, la Procura di Catania ordinò il sequestro del film e la rimozione di otto scene, cinque minuti reinseriti nella versione restaurata tornata in sala in questi giorni per il 50esimo anniversario dell’uscita.

Dopo la prima a Cannes, in Francia non si parlava d’altro che di questo film: due milioni e mezzo di spettatori andarono a vederlo non appena uscì nelle sale. Andréa Ferrèol, prima della Grande abbuffata una sconosciuta attrice teatrale di 25 anni, ha raccontato che per lei divenne difficile andare a mangiare fuori perché tanti ristoranti si rifiutavano di servire chiunque avesse partecipato alla realizzazione del film. Nelle rare occasioni in cui riusciva a sedersi a un tavolo, succedeva sempre qualcosa: una volta una persona seduta vicino a lei in un ristorante la riconobbe, si alzò, le andò incontro e le disse: «Visto che qui c’è lei, me ne vado io!». Noiret definì degli stupidi tutti coloro i quali se la prendevano con un film che era «uno specchio»: non era certo colpa degli attori né del regista se l’immagine che il pubblico vedeva riflessa nello specchio faceva schifo. Un’opinione, questa di Noiret, condivisa da buona parte della critica dell’epoca. I Cahiers du cinéma affidarono la recensione del film al 27enne Pascal Bonitzer, che per sua stessa ammissione ridusse la Grande abbuffata a una metafora del capitalismo crepuscolare per restare fedele alla linea maoista che la rivista si era data in quegli anni. In Italia negli anni ne hanno scritto tutti: Adelio Ferrero, Maurizio Grande, Morando Morandini, Pier Paolo Pasolini, che nel numero 231 di Cinema nuovo spiegò – in molte e difficili parole, come gli piaceva – che Ferreri aveva capito certe cose e travisato altre. Due anni dopo uscì Salò o le 120 giornate di Sodoma, per tanti all’epoca e ancora oggi una versione rivista e corretta della Grande abbuffata.

Da buffone quale era, Ferreri si divertiva a giocare con le parole che venivano usate per spiegare il suo film, certe volte dicendo che erano proprio giuste e altre volte spiegando perché erano completamente sbagliate. E quindi certo, i quattro protagonisti del film – il cuoco Ugo, il conduttore televisivo Michel, il pilota Alitalia Marcello, il magistrato Philippe – rappresentano la società che conosciamo. Ma allora il film parla del suicidio a cui sta andando incontro la nostra società, gli dicevano. Non per forza, non è detto, rispondeva Ferreri: «Non è che decidano in partenza che vanno a suicidarsi, loro vanno a mangiare. Cambiano vita, semplicemente». E quindi di cosa parla questo film, gli chiedevano. Forse parla di corpi, spiegava Ferreri. Nello stesso senso in cui tutti i suoi film parlano di corpi: prima di diventare regista Ferreri aveva studiato da veterinario e la sua idea di corpo resterà sempre quella anatomica, fisiologica dello studioso. All’inizio, La grande abbuffata doveva avere un altro titolo: Ferreri aveva deciso per I masticanti, e che titolo perfetto sarebbe stato, privo degli eccessi e dei piaceri che La grande abbuffata ingannevolmente suggerisce. Masticare è un atto disgustoso, i cui rumori cerchiamo consapevolmente di coprire, la cui meccanica nascondiamo con la mano quando le circostanze ci costringono a parlare a bocca piena. Nessuno vuole guardare una persona masticare.

Non c’è piacere in questo film, né nulla di piacevole. Il cibo appare disgustoso nonostante a prepararlo fosse stato il famoso chef italiano Giuseppe Maffioli: si guasta subito, esposto alle luci del set. Il sesso è imbarazzante, come quello che Marcello fa con Anne, la prostituta interpretata da Florence Giorgetti (che lasciò il set dopo che Ferreri le chiese di girare una scena in cui avrebbe dovuto orinare davanti a tutti), sui sedili della sua adoratissima Bugatti. Oppure triste, come “l’ultimo favore” di Andréa a Ugo. Infantile, come l’ossessione per i seni di Philippe. Represso, come il sesso che Michel vorrebbe fare con Marcello. La morte nella Grande abbuffata è tremenda, perché è chiaro che «non si può morire mangiando!», come urla in una scena un disperato Marcello. Lui muore nel rigore del freddo; Michel nella sua stessa merda che gli cola giù lungo la gamba destra fino a formare una pozza, la pancia piena di aria che lo priva della sua unica gioia, l’attillatissimo dolcevita rosa che sfoggia all’arrivo nella villa; Ugo si farcisce fino a scoppiare con il suo disgustoso triplo paté di fegato, Philippe spira tra due montagne di gelatina tremolante. La grande abbuffata è un monumento alla disperazione, nato dalla disperazione di Ferreri dopo il fiasco della Cagna e il divorzio dalla moglie, in un periodo in cui dormiva sul divano della casa di Philippe e Alain Sarde in attesa di una nuova idea. L’unica sua distrazione erano i leggendari pasti «pasta cibo sesso, pasta cibo sesso, sesso cibo pasta, pasta cibo sesso» che i Sarde organizzavano nel loro appartamento vicinissimo agli Champs-Élysées, “feste” alle quali spesso partecipavano pure Ugo Tognazzi e Bartrand Tavernier: La grande abbuffata, appunto.

Non è un inno all’edonismo – come lo definì Luis Buñuel – così come non è invito alla risata. Anche se è un film che, quando vuole far ridere, fa davvero ridere. Tognazzi che imita Marlon Brando è esilarante, e lo è ancora di più se si è consapevoli dell’omaggio al mangione americano per definizione, il ghiottone hollywoodiano per eccellenza. E poi la scena – ripresa da Ostlund in Triangle of Sadness – in cui Michel cerca disperatamente di porre rimedio all’esplosione della tazza del cesso urlando «È spaventoso! È mostruoso! Sono travolto dalla merda!», che fa tanto più ridere se si è consapevoli che quello è Ferreri che parla dei suoi insuccessi («Questa puzza di merda non se ne andrà mai», commenta Ugo a inondazione passata). Dieci anni fa fu proprio Piccoli a presenziare al ritorno a Cannes della Grande abbuffata. Che per lui il film sia soprattutto una commedia lo si capisce dall’unica cosa che ebbe da dire in quella giornata, una dedica a Ferreri, Mastroianni, Tognazzi, Noiret: « Sono tutti morti. Ho voluto dirlo perché mi rende estremamente triste. Ma non lasciamo che questo ci impedisca di ridere!». Accanto a lui, l’altra sopravvissuta di quel set, Andréa Ferrèol. Alla fine di questa nuova proiezione della Grande abbuffata a Cannes, l’attrice si guardò intorno e, delusa, disse: «Mi sarebbe piaciuto ci fosse stato un po’ di scandalo anche questa volta».