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Il guasto di Cloudflare è stato così grave che ha causato anche il guasto di Downdetector, il sito che si occupa di monitorare i guasti su internet Oltre a X, ChatGPT, Spotify e tanti altri, nel down di Cloudflare è andato di mezzo anche il sito a cui si accede quando tutti gli altri sono inaccessibili.
Il nuovo film di Sydney Sweeney sta andando così male che il distributore si rifiuta di rivelarne gli incassi Christy sembra destinato a diventare il peggior flop dell'anno, il quarto consecutivo nel 2025 dell'attrice.
Diversi grandi hotel sono stati accusati di fare offerte ingannevoli e fuorvianti su Booking L’authority inglese che si occupa di pubblicità ha scoperto che quelle convenientissime offerte non sono mai davvero così convenienti.
Gli scienziati hanno scoperto che il primo bacio sulla bocca è stato dato 21 milioni di anni fa E quindi non se l'è inventato l'homo sapiens ma un ominide, un antenato comune di uomini, scimpanzé, gorilla e orango, animali che infatti si baciano.
Non si capisce bene perché ma Nicki Minaj è andata alle Nazioni Unite a parlare dei cristiani perseguitati in Nigeria Sembra che a volerla lì sia stato Trump in persona, dopo che in più occasioni Minaj gli ha espresso pubblico supporto sui social.
La nuova tendenza nell’industria del beauty è vendere prodotti di bellezza anche a bambine di 3 anni Da anni si parla di Sephora Kids, ma adesso ci sono storie che riguardano bambine addirittura più piccole.
Il Ceo di Google ha detto che nessuna azienda si salverebbe dall’eventuale esplosione della bolla dell’intelligenza artificiale Sundar Pichai ha detto che la "corsa all'AI" è un tantino irrazionale e che bisogna fare attenzione: se la bolla scoppiasse, nemmeno Google uscirebbe indenne.
La cosa più discussa del prossimo Met Gala non è il tema scelto ma il fatto che lo finanzierà Jeff Bezos Il titolo e il tema del Met Gala di quest'anno è Costume Art, un'edizione realizzata anche grazie al generoso investimento di Bezos e consorte.

Khaled Said

14 Aprile 2011

Figu 2.0. Immagino lunghe didascalie sotto le foto, i ritratti, le immagini, i video dei protagonisti di quel che accade nel pianeta. Link. Pop-up. Algoritmi. Questa serie di ritratti contemporanei è talmente contemporanea che non comincia con una faccia, ma con una pagina di facebook.

Leggo uno degli ultimi commenti sulla bacheca di “We are all Khaled Said”, postato 23 ore fa secondo l’orologio di Facebook. È forse il più importante di tutti. Dice: “La giustizia ha prevalso. Mubarak il criminale, che ha ucciso, torturato e umiliato migliaia di egiziani, e ha rubato miliardi dalle casse dell’Egitto (…) è finalmente in galera”. Nata quasi un anno fa poco dopo l’assassinio ad Alessandria d’Egitto di Khaled Said, a lui è dedicata. “Piace a 110.779 persone”: la cifra più alta per una pagina originata da laggiù, e il riconoscimento ormai consolidato di essere la scintilla dalla quale ha preso le mosse la rivoluzione egiziana.

Ed ecco il primo ritratto. Ventotto anni, figlio di una famiglia benestante di Alessandria, Khaled Said si occupava di import-export, aveva studiato computer programming negli Stati Uniti, suonava e componeva musica, frequentava spesso un Internet Cafè nel quartiere di Sidigaber. Da qui ,probabilmente, aveva postato su youtube un filmato ripreso segretamente col cellulare dove si vedono due poliziotti egiziani corrotti trafficare con uno spacciatore. E’ qui che lo beccano altri due poliziotti, in borghese. Le due cose non sono necessariamente collegate, o meglio lo sono. In Egitto, fino a quel momento, vige lo stato di emergenza. Non sai mai davvero quando ti ferma la polizia se hai fatto qualcosa oppure no, è come Il processo di Kafka.

Khaled è descritto come un tipo tranquillo, non coinvolto in alcun tipo di opposizione politica al regime. L’unica colpa che ha di fronte ai due poliziotti è quella di chiedere il motivo dell’irruzione nel locale e della spiccia richiesta di perquisire i presenti. Lo picchiano davanti a tutti. Lo trascinano fuori. Massacrato di botte, muore con il cranio sfondato e il volto ridotto a una maschera spaventosa. E’ il 6 giugno 2010. La polizia lo accusa di resistenza e possesso di armi, lo sospetta di terrorismo, renitenza alla leva, spaccio di droga. Sostiene che è morto soffocato dal sacchetto di cellophane pieno di hashish che ha inghiottito per nascondere le prove.

Quando il fratello di Khaled entra all’obitorio e riesce a scattare di nascosto un foto col suo telefonino, le bugie della polizia si rivelano per quel che sono. In pochi giorni quella foto arriva ai milioni di utenti facebook in Egitto, grazie alla pagina “We are all Khalid Said”. L’ha aperta Wael Ghomin, ed ecco il secondo ritratto. Ghomin ha 30 anni. E’ un executive del marketing di Google, vive e lavora a Dubai ma è egiziano, ha studiato al Cairo e ha sposato una ragazza americana. In gennaio, quando anche grazie alla pagina che ha aperto iniziano le manifestazioni contro il regime di Mubarak, Ghomin lascia la scrivania e torna nella sua città. Viene arrestato il 27 gennaio, passa 11 giorni in carcere senza che nessuno sappia neppure dov’è. Gli dà una mano il vento nuovo che ha preso a soffiare a piazza Tahir. Liberato, lo stesso giorno compare in diretta su DreamTv.

L’intervista a Wael Ghomin è un pezzo di televisione memorabile. Alla fine della conversazione la conduttrice manda in onda le foto di alcuni ragazzi morti in quei giorni durante gli scontri, a pieno schermo, accompagnate da una musica grave, emozionale. Comincia a recitarne i nomi. E’ qui che Ghomin scoppia in un pianto irrefrenabile, si piega sulla sedia sconvolto dai singhiozzi. Il regista, o è un genio o immaginava tutto: mette in un riquadro Ghomin, alza la musica: “A tutti i padri e le madri che hanno perso un figlio… – piange – Lo giuro, non è colpa nostra… non è colpa nostra… la colpa è di quelli che non vogliono lasciare il potere”. Precipitosamente Ghomin si alza ed esce dallo studio, seguito dalla conduttrice.

La folle chiamata alla rivolta usa tutte le armi del melodramma egiziano, ma funziona e si conclude a piazza Tahir qualche giorno dopo. Wael Ghomin parla al microfono: “La nostra rivoluzione è come Wikipedia, ok? Ognuno aggiunge un contenuto, ma non si sanno i nomi di chi ha aggiunto cosa. Questo è quel che sta accadendo. E’ la rivoluzione 2.0. Abbiamo disegnato insieme l’immagine della Rivoluzione. Ma nessuno è un eroe in questa immagine”.

Di fronte alle rivoluzioni scoppiate a sorpresa in Medioriente ci si è rifugiati dietro le vecchie categorie arrugginite dell’islamismo e del terzomondismo, della realpolitik e persino dello scetticismo nei confronti della Rete. Il governo si preoccupa per l’aumento degli immigrati e per altre idiozie, come quelle rivoluzioni non parlassero anche a noi. I più fini, sempre qui da noi, si chiedono se il tasto del “mi piace” e tutto il resto dell’attivismo politico in Rete via facebook – petizioni, adesioni, immagini nel profilo – non sia per caso l’ultima consolatoria fregatura alla quale stiamo andando incontro. Non posso escluderlo. Ma quella di Khaled e Wael è la rivoluzione di “quelli che non hanno fatto niente”. E’ la rivoluzione della tv, della Rete, della democrazia radicale.
Funziona. Si può fare.

Sono davanti a un computer, di fronte a una pagina facebook. Provo la stessa invidia e la stessa impotenza che Joe Strummer sperimentò di fronte agli scontri tra polizia e immigrati giamaicani sotto la Westway, a Notting Hill, Londra, 1976. In un impulso di populismo rock’n’roll vi copioincollo le parole di White Riot: “I neri hanno un sacco di problemi/ma non si fanno problemi a tirare un mattone/I banchi vanno a scuola/ Dove gli insegnano a essere degli idioti”.
No che non spengo il computer, adesso. Se qualcuno ha intenzione di scrivere White Riot 2.0 mi comunichi almeno il link.

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