Cultura | Letteratura

La Barcellona di Anagrama

La celebre casa editrice spagnola nasceva 50 anni in una città con un clima di sorprendente vivacità culturale che si contrapponeva al franchismo.

di Giuliano Malatesta

Ritratto del fondatore e direttore editoriale di Anagrama Jorge Herralde (LLUIS GENE/AFP/Getty Images)

Come quasi tutti i catalani vissuti a Barcellona durante la dittatura, Jorge Herralde era un fervente francofono. D’altronde in quegli anni il vento di libertà spingeva in quella direzione, oltre i Pirenei. La sua prima fantasia da editore, prima ancora che lo diventasse realmente, fu quella di pubblicare le opere complete di Sartre e Camus in edizione di lusso, ma sfortunatamente Gallimard gli negò i diritti. Però all’epoca studiava ancora ingegneria ed era un ragazzo un po’ ingenuo, come lui stesso si definiva. Poi, un giorno, entrando negli uffici dell’agenzia di Carmen Balcells, la mitica super-agente letteraria che rivoluzionò il rapporto tra editori e scrittori facendo la fortuna dei più importanti autori di lingua spagnola, s’imbatté in un saggio del filosofo italiano Giancarlo Marmori, Senso e anagramma, e scoprì che aveva finalmente trovato il nome adatto per la sua nuova casa editrice. La celebre Anagrama, in seguito divenuta talmente famosa che non era così inusuale, come ha raccontato una volta lo scrittore argentino Alan Pauls, incontrare persone affermare di star leggendo un libro di Anagrama, indipendentemente dal nome dell’autore.

Fondata nel 1969 e subito diventata un simbolo di resistenza culturale al franchismo, oltre 4.000 titoli in catalogo, con molti nomi prestigiosi e alcune raffinate scoperte (Roberto Bolaño e Javier Marías), Anagrama, da qualche anno di proprietà della Feltrinelli, è giunta al traguardo dei suoi primi cinquant’anni e per festeggiare l’anniversario il suo fondatore, Jorge Herralde, parteciperà domani al Salone del Libro di Torino ad un incontro con il patron dell’Adelphi, Roberto Calasso. Così, in attesa di ascoltare racconti e storie di un protagonista della scena editoriale del secondo Novecento, vale forse la pena rievocare quel clima di straordinaria effervescenza culturale che si respirò a Barcellona a cavallo tra i Sessanta e Settanta, un luogo dove, per dirla con le parole Mario Vargas Llosa, «il libro era il Re e la letteratura la Regina». Un fatto davvero sorprendente, se si considera la cappa di perbenismo e ipocrisia che avvolgeva il Paese e il profondo disprezzo che il Generalissimo nutriva per Barcellona, città culturalmente anarchica e ultimo bastione di resistenza antifranchista.

La verità era che sul finire degli anni Sessanta Barcellona appariva molto più vicina all’Europa, soprattutto a Parigi, che non al resto della Spagna; stava diventando una città cosmopolita, che respirava l’aria fresca che arrivava dai Pirenei o dalle città catalane francesi, come Perpignan, dove nel weekend le signore della buona società si rifugiavano per cercare di assistere a qualche rassegna cinematografica, con la segreta speranza di incrociare almeno un fotogramma con il volto, o il culo, di Marlon Brando. Madrid per i catalani era solo “un pueblo a nord di Toledo”, come la definì sprezzante Carlos Barral, una sorta di pioniere in campo editoriale con la sua casa editrice, la raffinata Seix Barral. La leggenda racconta che Cent’anni di solitudine arrivò nelle mani di Barral prima ancora che in quelle dell’agenzia Balcells ma che lui rifiutò il manoscritto perché era troppo snob, nella sua genialità, per interessarsi a una novella di provincia e più in generale a quel tipo di scrittori secondo i quali il mare «es siempre mas azul che nunca».

La verità era che sul finire degli anni Sessanta Barcellona appariva molto più vicina all’Europa, soprattutto a Parigi, che non al resto della Spagna

In quel periodo sembrava spuntassero nuove realtà editoriali a ogni angolo di strada e Barcellona si ritrovò in breve a essere la capitale culturale dell’America Latina. Tutti i maggiori scrittori, da Márquez a Vargas Llosa, vivevano o passavano in città e lungo la Rambla si potevano incontrare talmente tanti autori che uno dei rischi maggiori era quello di far confusione tra tizio e caio. Così quando un giorno, all’aeroporto catalano El Prat, un signore si avvicinò discretamente a Gabo, domandandogli se fosse Cortázar o Vargas Llosa, lui, che stava cercando di prendere sonno in una sala d’aspetto, aprì frettolosamente un occhio e con voce seriosa rispose: «Los dos». E in fondo poco importa se quel fenomeno sia stato realmente un boom letterario, o più semplicemente una straordinaria operazione di marketing applicata alla letteratura, all’interno della quale, ha osservato una volta il critico letterario Emir Rodríguez Monegal, «gli scrittori latino-americani dovevano dimostrare di essere latino-americani prima ancora di essere scrittori».

Non era però esclusivamente una questione letteraria. In città l’aria stava decisamente cambiando. La nuova musica, il cinema, gli editoriali di avanguardia entravano in Spagna dalla frontiera con la Catalogna, dove anche l’alta borghesia, tradizionalmente molto conformista, aveva oramai abbandonato un regime franchista in crisi di consenso e dunque costretto a cedere scampoli di modernità. Calle Tuset, nella zona dell’Eixample, dove Maria del Mar Bonet cantava «che vuole questa gente che viene a bussare all’alba» – atto di accusa contro lo polizia colpevole di aver fatto cadere uno studente – divenne per qualche tempo l’epicentro della movida pop barcellonese, una sorta di effimera e passeggera Carnaby Street londinese. Con i suoi lampioni dipinti di giallo e di verde e quella inedita atmosfera che faceva presagire squarci di libertà attirò agenzie pubblicitarie, studi di design, negozi di moda e sedicenti artisti.

È in quel periodo che Oriol Regàs, un ex pilota di rally, intuì che la smania di trasgressione della borghesia illuminata e antifranchista, in seguito passata alla storia con la definizione di “gauche divine”, (copyright del critico Joan de Sagarra), aveva disperatamente bisogno di un’oasi di permissività e tolleranza che desse libero sfogo alle proprie ansie di libertà. Nacque così, nel febbraio del 1967, il Bocaccio, un locale che in pochi mesi divenne un punto di riferimento della movida catalana oltre che il luogo simbolo di una generazione stanca di essere claustrofobicamente rinchiusa nel recinto ideologico della dittatura. Per lanciare il Bocaccio Oriol Regàs organizzò una sottoscrizione, una sorta di azionariato popolare con quota minima da 10mila pesetas. Vennero raccolti in breve tempo 5 milioni di pesetas, grazie all’adesione di gran parte della meglio gioventù barcellonese. Tra i primi soci figurò anche Jorge Herralde, che in seguito vendette la sua partecipazione proprio per fondare Anagramma.

Immagine pubblicitaria del Bocaccio datata 1968 (sullo sfondo si intravede il logo)

Come ogni giovane e un po’ confuso movimento di avanguardia che si rispetti anche la gauche divine aveva le sue muse, giovani donne belle, affascinanti e intelligenti, sempre in prima linea quando c’era da farsi portabandiera di qualche nuova tendenza culturale. Come Rosa Regàs, sorella di Oriol, che agli inizi degli anni Settanta aveva già fondato la propria casa editrice, La Gaia Ciencia. O come Beatriz de Moura, giovane figlia di un diplomatico brasiliano, che nel 1968 aprì, a soli trent’anni, la casa editrice Tusquets. Descritta da tutti come una donna bellissima, a qualcuno ricordava la Jeanne Moreau del Jules et Jim di Truffaut, si dice fosse capace di sedurre chiunque nel giro di quindici minuti, molto meno se si aveva la fortuna di incontrarla nella sala da ballo del Bocaccio.

Il locale simbolo di quella stagione chiuderà a metà degli anni Ottanta ma il suo momento d’oro terminò il 20 settembre del 1975, come se con la morte di Francisco Franco avesse improvvisamente esaurito la sua ragion d’essere. Quel giorno, scriverà Manuel Vázquez Montalbán, «la città si riempì di passanti con il silenziatore, negli occhi un messaggio di mura abbattute, nella gola la secchezza del prudente silenzio. Su e giù per le Ramblas, come sempre».