Cultura | Dal numero
Io sono Jordan Kristine Seamón
Incontro con la diciassettenne esordiente protagonista di We Are Who We Are, la serie di Luca Guadagnino in onda su Sky.
Jordan Kristine Seamón ha diciassette anni e mi compare su Zoom seduta nella veranda di una villetta in legno color crema. Ha i capelli corti rosa shocking e gli occhi a mandorla, i cui angoli laterali, già naturalmente protesi verso le tempie, sono ulteriormente allungati da eye-liner e mascara che rendono Jordan vagamente simile a un Grigio, l’alienino dalla corporatura infantile e il testone usato anche da Spielberg in Incontri ravvicinati del terzo tipo. Jordan è la Caitlin di We Are Who We Are, la nuova serie di Guadagnino (scritta con Paolo Giordano e Francesca Manieri) coprodotta da Sky e HBO, dal 9 ottobre in esclusiva per l’Italia su Sky Atlantic e in streaming su NOW TV. La villetta è in Georgia, dove Jordan vive da quando i suoi l’hanno mandata in collegio nei pressi di Atlanta dopo averla homeschooled a Philadelphia fino ai dodici anni. Jordan si premura di riferirmi che Felicia e Jermain, i genitori, non l’hanno mandata allo sbaraglio in un altro Stato, avevano dei parenti in Georgia, non era mica completamente sola.
Durante l’intera conversazione la madre di Jordan ricorre nei nostri discorsi, come è ovvio per una diciassettenne, e di tanto in tanto vedo aprirsi alle sue spalle una porta bianca di legno e uscirne o entrare la parte inferiore del corpo di Felicia fasciato in una tuta. È stato strano per Jordan passare dall’essere educata in casa allo stare in una classe di coetanei, un collegio per giunta, dove doveva indossare l’uniforme e rispettare degli orari prestabiliti. Prima di allora si svegliava, svolgeva i suoi compiti in pigiama sotto la guida materna e tornava a dormire. Così come nella vita di Jordan, anche in We Are Who We Are il set scolastico è insolito, uno dei dettagli che rendono il teen drama diverso dai vari Beverly Hills, Euphoria, Dawson’s Creek, e Sex Education, dove da generazioni assistiamo a flirt imbarazzati vicino agli armadietti, frecciatine nelle mense e pianti nei bagni. La scuola, infatti, si trova in una base militare americana in Italia e accoglie una manciata di ragazzi le cui vite sono automaticamente spogliate dalle sovrastrutture di classe e identità razziale che normalmente ne permeano l’identità ovunque. Questo fatto rende la descrizione dei rapporti e dei nodi psicologici originale: nonostante la mescolanza di colori di pelle, linguaggi, stili di abbigliamento e corpi tipica delle storie di quest’epoca, tutto questo non assume mai una caratterizzazione di rivendicazione identitaria banale, anzi, la varietà di caratteri diventa un manifesto politico delicato e libero, dove tutti i personaggi sono ciò che sono nell’esatto momento in cui lo sono, senza rappresentare altro che sé stessi. We Are Who We Are, appunto.
L’account Instagram di Jordan, @i_am_jkseamon, al momento di questa conversazione conta meno di diecimila follower. Nei selfie, così come nelle stories e su TikTok, Jordan interpreta diverse versioni di sé stessa: qualche volta assume un’espressione sensuale, adulta, che richiama Caitlin, altre invece la sua faccia elastica muta nelle smorfie spiritose di una bambina. Nel feed la gran parte dei coetanei che compaiono sono ragazzi con cui Jordan ha lavorato in quella che mi sembra una vita aliena: piccoli eventi in Georgia sponsorizzati da brand sportivi in cui Jordan e altre ragazze si esibiscono su prati spelacchiati con delle coreografie semplici ma e caci che ricordano le prime, gloriose Destiny’s Child. La vocazione originaria di Jordan non è la recitazione, ma il canto. La musica è il tappeto su cui si sono intrecciate le sue prime relazioni familiari; la nonna materna, “nana”, cantava mentre il nonno paterno era pieno di dischi che suonava in continuazione e così già a sei anni Jordan aveva iniziato a comporre piccole poesie musicali. Una volta in Georgia, ha iniziato a esibirsi con una girl band, ed ecco spiegate le coreografie. Con un’aria un po’ triste mi dice che quell’esperimento non è andato in porto e quindi niente girl band. Ora è solista. Nel mentre la madre Felicia, instancabile, la iscriveva a tutti i provini che trovava in giro fino a quello per la serie di Guadagnino.
Mentre parla si sente un rumore gommoso. Scusandosi mi dice che è il suo cane, Vega, credo un Corgi (razza simpaticissima dall’aspetto buffo: tozzi, bassi, con il testone e due orecchie sproporzionate che in un mondo migliore gli permetterebbero il volo). Mi chiedo se i Corgi facciano il verso di una foca prima di intuire che il rumore che sento non è direttamente imputabile a Vega, ma a un gioco che squittisce. Caitlin e Jordan sono molto diverse. Caitlin vive nel proprio universo, come se ci fosse una patina trasparente a separarla dal resto dei suoi coetanei, senza che questo la renda emarginata o percepita come eccentrica. Niente di ciò che indossa tradisce la necessità di rappresentarsi attraverso oggetti o status symbol, non ne ha bisogno, le persone sono attratte da lei come se emettesse una vibrazione impalpabile allo stesso tempo quieta e intensa che la pone al centro di ogni dinamica relazionale senza che questo le costi alcuno sforzo.
Caitlin e Jordan sono molto diverse. Caitlin vive nel proprio universo, come se ci fosse una patina trasparente a separarla dal resto dei suoi coetanei, senza che questo la renda emarginata o percepita come eccentrica.
All’inizio della serie Caitlin si muove con circospezione tra il femminile e il maschile: è ancora solo spirito, senza ornamenti identitari imposti dall’esterno, come lo sono qualche volta i più fortunati tra i ragazzini. Nei primi episodi i capelli di Caitlin sono lunghissimi e lisci, e lei ricorda un elfo, tutta esile ed elastica con un’espressione indecifrabile. È stato complicato per Jordan, il cui viso è invece attraversato da zigomi fatti di plastilina che si tendono in continui sorrisi accomodanti e infantili, calarsi nei panni di Caitlin perché «Caitlin è aggressiva». Sottolinea che non le piace affatto utilizzare questo termine, ripetendo con involontaria tenerezza la differenza tra lei e Caitlin, che al contrario di Jordan non è conciliante ma sfrontata e coraggiosa. Jordan si esprime solo se interpellata, e non diffonde opinioni in giro se non quando è in famiglia, protetta. Fatta eccezione per un paio di post in occasione delle proteste Black Lives Matter in cui scrive che non le piace essere “politica” ma che in questo caso «non se ne può fare a meno», il suo feed di Instagram è privo di chiamate all’attivismo, molto rilassante.
Caitlin però le ha insegnato a essere un pochino più sfrontata, a cominciare dai capelli. Jordan li ha dovuti tagliare per esigenze di copione, e quando si è vista per la prima volta senza chioma si è sentita vulnerabile con la testa così nuda e poco femminile. Con il passare del tempo però ha iniziato a piacersi più di prima – mi chiedo se, più che per il taglio, per quella sensazione di libertà che scaturisce dalla scoperta di non aver bisogno di qualcosa che si credeva indispensabile. Mi racconta di un momento sul set dove Caitlin deve saltare su un tavolo: «Io non lo farei mai, mia mamma sarebbe delusissima da me se lo facessi! Con le scarpe poi, una follia!». È stata la madre a rassicurarla e a darle il permesso di saltare sul tavolo, ricordandole che si trattava di recitazione. L’Instagram di Felicia è disseminato di foto della figlia rappresentata per lo più in veste di talent: essendone la manager, i post che ritraggono Jordan sono accompagnati da didascalie da agenzia di management con incursioni di affetto e protezione che si insinuano tra gli hashtag professionali tradendo un impeto materno. Mi ero interrogata sulla natura di questa miscela anomala di piani mentre scorrevo il feed di Felicia, e dopo aver parlato con Jordan mi sono ritrovata a inseguire la stravagante fantasia secondo cui magari è questa la relazione familiare perfetta: una in cui gli sforzi e le aspettative di tutti i componenti del clan sono dirette verso un comune obiettivo esterno alla famiglia stessa.
Con il passare del tempo però ha iniziato a piacersi più di prima – mi chiedo se, più che per il taglio, per quella sensazione di libertà che scaturisce dalla scoperta di non aver bisogno di qualcosa che si credeva indispensabile.
Jermain ha sempre lavorato per permettere a Jordan e alla madre di concentrarsi sui sogni della figlia che sono emersi quando da piccolissima ha annunciato di voler essere una entertainer e i genitori non hanno fatto una piega, anzi, l’hanno sostenuta in tutti i modi in cui hanno potuto, regalandole questa patina un po’ bambinesca che la ammanta anche ora che ha diciassette anni e che da una parte priva Jordan di un carattere indipendente, dall’altra la protegge dalla realtà più brutale che circonda il mondo al quale sia Jordan che i suoi genitori vorrebbero che lei accedesse. Pongo a Jordan la domanda di rito sulla fluidità della Generazione Z e lei mi risponde che loro sono più fluidi perché vogliono soltanto trovare il modo di stare bene con sé stessi qualunque sia la forma che debbano assumere perché ciò avvenga. Non so se sia vero, ma nei mondi immaginati da Guadagnino lo è. La serie è il compimento di un immaginario che il regista porta avanti da sempre, quella in cui le persone fluttuano sulla superficie del pianeta, permettendosi di evolvere a seconda del paesaggio che le circonda mentre intessono relazioni profonde e prive di sovrastrutture.
In We Are Who We Are tutto questo avviene sotto il cielo bianco della pianura padana, sulle spiagge sbiadite della costa adriatica, sui bus scalcagnati che portano al mare, tra le paludi esauste ele casupole squadrate della base di Vicenza, una città Stato americana in cui le comparse locali potrebbero uscirsene con un “pora cagna” da un momento all’altro. In questo carillon fatato si muovono le vite dei personaggi, curate nei minimi dettagli, come quella di Fraser (Jack Dylan Grazer), l’irrequieto protagonista della serie, un adolescente queer che ascolta Blood Orange, legge le poesie struggenti dell’acclamatissimo Ocean Vuong e decifra le persone attraverso la cornice dell’astrologia, non si sa quanto seriamente, proprio come la nuova cultura impone. In questo dipinto non esistono smartphone o social, un dettaglio credibile data la natura di semi-villeggiatura del contorno e che rende la serie priva della volontà febbrile di spiattellare quanto la vita degli adolescenti sia impregnata di tecnologia.
Pongo a Jordan la domanda di rito sulla fluidità della Generazione Z e lei mi risponde che loro sono più fluidi perché vogliono soltanto trovare il modo di stare bene con sé stessi qualunque sia la forma che debbano assumere perché ciò avvenga.
Chiedo a Jordan come definirebbe la relazione tra Caitlin e Fraser, il cui rapporto intenso e ambivalente è la scintilla che anima le trame dell’intera serie. Non lo sa, e infatti quando ha letto il copione per la prima volta è rimasta un po’ spiazzata: i due si comportano come se non fosse necessaria alcuna fase di rodaggio tra le loro intimità, spogliate, per giunta, dell’aspetto sessuale. Semplicemente, si trovano. Secondo Jordan, Guadagnino è stato bravissimo a dipingere una relazione del genere perché anche se a lei non è ancora mai successo: «La guardi e sai che potrebbe succedere anche a te». E un po’ ha ragione.
Per Jordan recitare nella serie è stato «trasformativo». Il 7 dicembre del 2019 ha postato uno slideshow di selfie dolce e goffo in cui esprime gratitudine per ciò che le è stato concesso di fare. Prima di lavorare sul set le sue esperienze relazionali erano limitate alla famiglia: non aveva mai messo il naso fuori da lì, non aveva mai dovuto fare i conti con l’infinita e stancantissima gamma di personalità e visioni del mondo diverse da quelle della sua bolla familiare. Così, malgrado la sua aura infantile, Jordan custodisce alcune caratteristiche che ho avuto modo di notare altrove, nei ragazzi che hanno avuto a che fare finn da piccoli con mondi professionali popolati da persone che di norma non si incontrerebbero sul proprio cammino da teenager; tra queste caratteristiche, dunque, una placida consapevolezza, come un’abitudine, alla diversità di relazioni e caratteri che si possono trovare al mondo, una nozione che di solito chi non è sottoposto precocemente a queste esperienze impara nel tempo, spostandosi da un ambiente omogeneo a un altro finché non ci si tuffa nel mondo del lavoro sperando di poter tornare nel proprio il prima possibile. Prima di salutarmi, con la voce roca e sensuale di un’adulta e la faccia cangiante di una bambina, mi raccomanda di ascoltare il suo disco. Si chiama Identity Crisis, l’artista JK. È su Spotify. I testi cozzano un po’ con la vita che mi ha mostrato, ma gli immaginari costruiti in adolescenza sono necessariamente collage disordinati di stereotipi altrui, e a parte questo non è male.