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La guerra dei mondi del giornalismo digitale raccontata da Jill Abramson

Intervista all'autrice di Mercanti di verità, un libro che racconta 20 anni di rivoluzione dell'informazione, seguendo le storie di Buzzfeed, Vice, New York Times e Washington Post.

di Enrico Ratto

Sono sufficienti 890 pagine per raccontare il labirinto in cui è finita l’industria dell’informazione negli ultimi quindici anni? È questa la lunghezza di Mercanti di Verità (in Italia edito da Sellerio), il libro nel quale Jill Abramson cerca di ricostruire quella che non è solo la storia di una crisi, di un declino. Non lo è perché, mentre crollavano gli imperi editoriali, mentre veniva colpita la reputazione di redazioni che tentavano maldestre scorciatoie, mentre venivano applicati approcci dell’industria ad un settore che del tutto industriale non era, altri avevano trovato la formula per battere il sistema, o almeno così sembrava. Sono stati anni in cui la prima vittima del conflitto – che di solito, si dice, è la verità – è stato il tempo: l’orizzonte temporale, da lungo, misurato per decenni (ogni quotidiano cartaceo porta con fierezza sulla propria testata l’anno di fondazione) e visionario è diventato trimestrale, fatto di strategie, compromessi e trucchi.

Jill Abramson è una giornalista che ha trascorso la sua vita tra la carta e gli inviati in carne e ossa, dal Wall Street Journal, dove è stata collega di Daniel Pearl, l’inviato ucciso in Pakistan vent’anni fa (a cercare la verità venivano mandate le persone, non gli algoritmi), fino a diventare la prima direttrice donna del New York Times. In Mercanti di Verità vengono prese in esame quattro testate, quattro scenari: New York Times, Washington Post, Vice e BuzzFeed. La domanda che negli ultimi quindici anni ha tolto il sonno a molti direttori ed editori è stata: cercare notizie o diffonderle, che cosa ci salverà? Il tempo di cui disponiamo è sufficiente per costruire una società informata, o basta appena a contribuire al successo di una campagna elettorale? Se i conti di New York Times e Washington Post sono crollati (per poi riprendersi, certo) sotto i colpi dei primi click, gli esperimenti di Vice e BuzzFeed non hanno retto la prova dell’etica. Nel sistema dell’informazione sembra siano confluite le forze di tanti elementi (industria, finanza, politica, movimenti, propaganda, tecnologia) e tutto è imploso nel giro di appena quindici anni. Abbiamo chiesto a Jill Abramson se il modello economico dei giornali non fosse troppo debole, o forse troppo rigido, se al primo cambio di paradigma è crollato tutto.

Il modello economico dei giornali ha funzionato finché le macchine da stampa sono state necessarie per stampare le notizie al fine di raggiungere il pubblico. Le compagnie di giornali avevano il monopolio delle costose macchine da stampa e, finché lo hanno mantenuto, hanno guadagnato grandi profitti. Internet ha cancellato la necessità delle macchine da stampa. Chiunque poteva pubblicare notizie. Il problema è che questo cambiamento è avvenuto molto rapidamente e le compagnie di giornali sono state lente a capire che Internet ha distrutto quello che era il modello di business dei giornali.

È corretto considerare i giornali come qualsiasi altra azienda, dove c’è un prodotto – ovvero i contenuti – e c’è personale specializzato – ovvero i giornalisti?
Certo, il contenuto dei giornali è un prodotto. Ma è un prodotto che dipende dalla capacità dei giornalisti di raccogliere informazioni affidabili e autorevoli. Questo è un lavoro duro, che richiede formazione ed esperienza, sia per i reporter sul campo che per i redattori.

Tutti possono creare artificialmente migliaia di bugie, mentre la verità è più scarsa, a volte è una sola. È questa la ragione per cui produrre – e diffondere – bugie ha arricchito così velocemente un certo sistema?
Da quando i social media sono diventati la piattaforma per condividere le notizie, le storie che ottengono più attenzione, e sono più condivise, sono quelle che riguardano controversie, gossip sulle celebrità e simili. E capita che una storia basata su un’informazione debole possa diventare virale, anche quando è costruita su bugie. Catturare l’attenzione del lettore e farlo continuare a leggere è l’obiettivo della maggior parte degli editori. Sfortunatamente, a volte il modo più rapido e redditizio per farlo è quello di pubblicare bugie.

Nel libro un ampio spazio è dedicato ai giornali locali, tra i più colpiti dalla crisi. È vero che dove c’è meno informazione locale, c’è più polarizzazione delle opinioni e sono maggiori le ripercussioni sulla vita democratica?
Sì, è vero. Quasi il 25% dei giornali locali negli Stati Uniti hanno chiuso negli ultimi 15 anni. Le fonti di notizie locali sono le più affidabili, perché i giornali locali sono vicini alle comunità che coprono. Sono vitali per la salute della democrazia. Sì, penso che la loro assenza contribuisca alla polarizzazione politica.

La situazione attuale è un epilogo per il giornalismo o, semplicemente, dobbiamo attraversare la tempesta?
Penso che alcuni giornali stiano attraversando la transizione digitale, o la tempesta, come dici tu. Quelli che sopravvivranno avranno successo perché il giornalismo che pubblicano è di qualità superiore, e include notizie che sono vitali per il pubblico, per comprendere il mondo in cui viviamo. Inoltre, i lettori apprezzano il ruolo della stampa nel tenere in pugno persone e istituzioni potenti. Ci sarà sempre un bisogno umano per una storia ben riportata e curata con intelligenza.

In Europa, Google e Facebook si stanno accordando per pagare i giornali per i contenuti condivisi attraverso le loro piattaforme. Un accordo a cui si è arrivati troppo tardi?
Ho sempre creduto che Facebook e Google dovrebbero pagare gli editori per le notizie. Non è troppo tardi. Questi pagamenti possono salvare alcuni giornali che sono sull’orlo del fallimento. Non è mai troppo tardi.