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Il mondo visto dalla casting director di Euphoria

Intervista a Jennifer Venditti, casting director di A24, che ci racconta cosa sia la bellezza ai tempi dell'inclusività, del suo cult movie Billy the Kid e di come ha scoperto Hunter Schafer di Euphoria.

di Marco Bianchessi

Jennifer Venditti è una casting director americana che da 25 anni opera all’interno del settore. Attraverso le sue diverse esperienze è passata dal lavorare per la moda, al cinema e infine alle serie tv. La sua ultima collaborazione, con la casa produttrice A24, le ha permesso di mettere mano ad alcuni dei progetti più interessanti degli ultimi anni in termini di cinema, Uncut Gems dei fratelli Safdie (per chi se lo stesso chiedendo: non è stata lei a scoprire Julia Fox, l’attrice è stata una scelta dei registi), ma soprattutto di serie tv con Euphoria, uno degli show più discussi degli ultimi anni. Proprio dalla collaborazione con A24 nasce l’idea di creare un libro, Can I Ask You A Question?, che raccolga e riassuma quanto ha imparato e realizzato durante tutto il suo percorso lavorativo. L’uscita del libro è stata l’occasione per intervistarla: ne è nata una conversazione dove abbiamo parlato di cosa sia la bellezza, di cinema, di inclusività, di Hunter Schafer e delle sue origini italiane.

ⓢ Da dove nasce l’idea del libro?
Realizzare il libro è stata un’idea del team di A24. Durante il Covid avevano appena aperto la casa editrice e stavano realizzando una serie di libri riguardanti Euphoria. Come parte di questa serie avevano chiesto a diversi collaboratori di fare interviste e a me avevano proposto di realizzare un’intervista con Angus Cloud, che sarebbe stata pubblicata in uno dei libri. E da lì penso abbiano avuto l’idea di propormi di realizzare un mio libro, in autonomia. Io in realtà avevo sempre voluto fare un documentario con tutto il mio archivio di foto e storie, e l’idea era di realizzare un film sull’umanità attraverso la lente del casting. Stavo mettendo insieme le idee per il film ma avevo anche delle difficoltà a raccogliere fondi per il progetto, perciò quando mi hanno proposto il libro, ho colto al volo la possibilità.

ⓢ Il libro è completamente tratto dal tuo archivio, e si compone di interviste, fotografie, materiale d’archivio più in generale, giusto? Possiamo dire che è una sorta di riassunto dei tuoi 25 anni di carriera nel mondo del casting?
Si, voglio dire, ovviamente c’è tanto altro che non è presente ma sì.

ⓢ Riguardando indietro a questi tuoi anni di lavoro, come definiresti il tuo approccio?
Credo che il mio approccio al casting sia le fondamenta di tutto ciò che faccio, non solo il casting. Essere curiosi, tutto parte da lì, e poi bisogna essere aperti, non essere rigidi, bisogna cercare di capire il mondo e le persone. Considero attori, non attori, persone con talenti specifici che possono essere utili al mondo, senza perdere nessuna possibilità. Ma poi davvero, si riduce tutto alla curiosità, e al cercare di capire da dove vengono le persone e che storie hanno. In più c’è un discorso legato all’inclusività. Anni fa il mondo del casting era molto bloccato, con un numero limitato di attori che avevano contratti con gli studios e usavano le stesse persone per tutti i progetti, era chiuso. Io prima di lavorare nel mondo del cinema e della tv, lavoravo in quello della moda ma rimaneva sempre lo stesso problema: “Dov’è il resto dell’umanità? Dove sono il resto degli attori?” Credevo fosse necessario aprire la lente di ciò che consideriamo interessante, che sia un performer o un attore.

ⓢ Questo tema dell’inclusività è stato uno dei motivi per cui mi sono così interessato al tuo lavoro. Tu utilizzi spesso il termine di expanding beauty, che adesso è una cosa accettata.
Adesso è totalmente normale, ma quando ho iniziato non lo era per niente. Quando torno indietro con la memoria e penso alle sessioni di street casting, era bello ma poi alla fine non si concretizzava, perché si continuavano ad usare i modelli. Ci è voluto molto tempo. Guardavano a quello che facevamo, e pensavano fosse bello o particolare, ma poi non ottenevamo risultati. Adesso non vogliono persone comuni che sembrino modelli, ma volti differenti, corpi non omologati, non sarebbe stato possibile anni fa, trovavamo persone che ci rispondevano “Oh ma i vestiti non vanno bene per loro”, perché il paragone con i modelli c’era sempre. Alla fine spesso mi assumevano per fare street casting, ma volevano comunque persone uguali ai modelli. Non erano aperti. È stato un processo molto lento.

Guardandomi indietro spesso prendevamo persone interessanti con lo street casting, poi prendevano i modelli, però c’erano anche delle volte in cui ci era permesso fare di più. Questo è anche uno dei motivi per cui ho fatto Billy The Kid. Facendo scouting per la moda, ero disperata per trovare storie interessanti perché totalmente annoiata dalle facce che trovavo di solito. E quella è stata la prima esperienza che mi ha permesso di fare casting per un film. Mi piace dire che lo street casting non ha fatto colpo al tempo come lo fa ora, ci è voluto tempo perché questo modo di pensare attecchisse davvero.

ⓢ Sei stata Balenciaga prima di Demna!
Esatto! (ride) Non mi piace dirlo, ma credo di aver avuto lo stesso tipo di prospettiva o di idee, solo che io lo facevo quando a nessuno interessava.

ⓢ Credi che ci sia una sorta di contrapposizione tra il tuo modo di fare street casting e il mondo dei modelli più tradizionali?
Prima di tutto adesso odio il termine “street casting”, adesso nessuno lo fa più, tutti cercano online. Però sai, i modelli un tempo erano trovati così, le agenzie avevano scout che cercavano modelli in tutto il Paese. Non so se sia un discorso di come vieni scoperto o di che cosa sia la bellezza. Alcune persone che trovi facendo street casting sono irraggiungibili perché sono davvero originali.

Il mondo in cui siamo ora è molto diverso da quello in cui eravamo anni fa, dove l’ideale di bellezza era unico, e tutti si dovevano omologare ad esso. Ora, che tu sia un modello tradizionale o uno che si trova facendo scouting per strada, la cosa più importante è che ci siano diverse versioni di bellezza. E sono tutte irraggiungibili, perché ciascuno è uguale a se stesso. Quello che si sta rompendo per davvero è la teoria per cui tutti vogliono apparire allo stesso modo. Ecco, questo è quello che mi auguro sia cambiato perché adesso sentiamo il bisogno di dire che la bellezza può arrivare da diverse forme e volti.

ⓢ Parlando invece più nello specifico di persone con cui hai lavorato, avresti voglia di parlarmi di Hunter Schafer?
È il perfetto esempio di come stavamo facendo un sacco di audizioni per un ruolo, e non stavamo trovando nessuno, e poi è arrivata lei. Hunter faceva la modella, una mia amica me l’ha proposta per il ruolo, e non sembrava interessata alla carriera da attrice perché era interessata a seguire un percorso come fashion designer e artista a Londra. E nonostante questo è stato tutto molto naturale, perché non aveva mai fatto audizioni ne aveva mai considerato l’ipotesi di recitare, quindi abbiamo pensato di darle un supporto con un coach di recitazione, ma quando è venuta la prima volta era così empatica, artistica e sensibile rispetto sia al personaggio che alla scena, ed è scoccata la magia. Ovviamente potrei dire anche molto altro su di lei, ma trovo che Hunter sia un buon esempio di qualcuno che ha una perfetta alchimia rispetto al personaggio, e proprio per questo è in grado di farlo così bene, senza avere alcun tipo di esperienza.

ⓢ Secondo te, perché le persone hanno amato così tanto il cast di Euphoria?
Credo che lo show sia fantastico in generale, lo stile, la musica, la storia, non penso sia solo il casting ma un mix di tutte queste cose. Penso anche che, nonostante i personaggi siano iperstilizzati, le persone riescano ad entrare realmente in empatia, a relazionarsi con loro. Angus Cloud (Fezco) è un volto che non si vede spesso in tv, così come Hunter. Ciascuno può vedere una parte di sé in uno o più di essi. Sono profondi, intensi nelle loro relazioni, nelle luci e nelle ombre di una gioventù a cui le persone non vogliono necessariamente guardare o mostrare.

ⓢ Hai lavorato nella moda, in tv e nel cinema. Qual è il tuo medium preferito?
Oddio, sicuramente non la moda (ride). No, non è vero, amo la moda, ma non è stato facile per me lavorare in quell’ambiente, perché mi sembrava di essere circondata da persone più interessate a seguire i trend. Anche se, ovviamente, ci sono tante parti di quel mondo che mi piacciono.

Ti direi che è una combinazione tra il film e il casting, amo l’umanità e sono interessata ad esplorare cosa significhi essere umani in entrambi questi medium, che poi sono quelli che pratico maggiormente, e trovo questa cosa in tutti e due gli ambiti.

Attualmente sto producendo un documentario per una delle persone con cui lavoro, una scout. Similmente a quello che feci io con Billy The Kid, ha trovato questa comunità molto interessante e sta realizzando un documentario su di loro. Mi piace lo storytelling, dove esplora la vita di una persona o di una comunità, e questo è l’essenza del casting e film making, qualunque sia il personaggio o il film che stai realizzando.

ⓢ Parlando di Billy the Kid, guardandolo con gli occhi di ora, vorresti cambiare qualcosa ?
Dovrei rivederlo! Però nel periodo Covid l’avevamo rimesso in circolo, e da allora ricevo messaggi da parte di ragazzi molto giovani che si ritrovano e lo adorano. Se lo riguardassi ora, sicuramente cambierei molte cose, ma è la stessa cosa con il libro! Vedo i difetti e le cose che vorrei cambiare! (ride)

ⓢ Credo sia una cosa comune a tutte persone che realizzano qualcosa.
Parlando di Billy the Kid, penso che quello che abbia funzionato sia la storyline e il modo in cui è girato.

ⓢ Prima di chiudere l’intervista volevo tornare al libro. Trovo che la struttura a capitoli sia molto interessante, avresti voglia di raccontarmela?
È stato difficile, avevo tantissimo materiale d’archivio che purtroppo non abbiamo potuto portare all’interno. Il libro, in definitiva, riguarda l’umanità vista attraverso la lente del casting, e i quattro capitoli riguardano la mia filosofia, il modo in cui mi approccio al lavoro e più in generale alla vita. “See and Being Seen”, “Life and Cinema”, “The Alchemy of Acting” e “Through the Lens of Casting” sono i quattro capitoli, e rappresentano il modo in cui approccio il lavoro quando faccio casting. Che cosa significa guadare qualcuno? Che cosa significa utilizzare il casting come una lente per vedere qualcos’altro? Si tratta delle fondamenta con le quali approccio il lavoro, e la struttura a capitoli rispecchia questo modo.

“See and Being Seen” riguarda lo street scouting, quando ho iniziato a fare scouting per la moda, cercare persone, vederle e rendersi conto che anche loro vedono te. “Life and Cinema” riguarda il mio passaggio al film e alla televisione, vedere le persone e pensarle attraverso un medium. Un altro capitolo, “The Alchemy of Acting” parla dell’idea di mischiare professionisti e non professionisti, e cosa accade quando si decide di unire questi due approcci. “Through the Lens of Casting” riguarda i progetti cinematografici, iniziano con il casting e vederli attraverso questa lente.

ⓢ Perfetto, ho solo un’ultima domanda, a me piace finire le interviste con una domanda stupida. Il tuo cognome è Venditti, hai parenti italiani ?
Si! Mio padre si chiamava Silvio Mario Venditti! Quando lavoravo nella moda e andavo a Milano tutti mi chiedevano se fossi imparentata con il cantante (ride). Con il senno di poi avrei dovuto sfruttare di più questa possibile connessione.