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Storia di J.D. Vance: da Elegia americana alla destra trumpiana

Un tempo convinto sostenitore del movimento Never Trump, oggi favorito dell'ex Presidente, che lo ha aiutato a vincere le primarie repubblicane in Ohio: storia dello scrittore che si prepara a portare in Senato la Nuova Destra Americana.

di Francesco Gerardi

Donald Trump e J.D. Vance assieme in un comizio del 23 aprile scorso (Foto di Drew Angerer/Getty Images)

Tre settimane fa, la carriera politica di J.D. Vance sembrava finita. Le primarie per scegliere il candidato repubblicano al seggio dell’Ohio nelle prossime elezioni di midterm si stavano dimostrando una sfida oltre le sue capacità. Era terzo nei sondaggi e faticava a riempire di pubblico i luoghi dei suoi comizi: intristito, si riduceva a intrattenere i presenti con deprimenti battute sull’aumento del prezzo delle uova di Pasqua («questa storia dell’inflazione è proprio vera, eh, gente?»). Vance si preparava a tornare al suo lavoro di venture capitalist, magari da questa esperienza avrebbe potuto trarre un sequel di quell’Elegia americana che nel 2016 l’aveva reso uno dei protagonisti del dibattito letterario e, soprattutto, politico americano.

E poi è arrivato l’endorsement di Donald Trump. «Lui è quello giusto», ha detto l’ex Presidente. Ieri J.D. Vance è diventato il candidato repubblicano al seggio senatoriale dell’Ohio. Tutti i pundit americani danno per scontata la sua elezione al Senato, a prescindere da chi sarà l’avversario democratico. A 36 anni sarà uno dei più giovani senatori d’America e c’è chi sta già provando ad attaccargli addosso l’etichetta di Alexandria Ocasio-Cortez repubblicana. Altri parlano della messa a punto del primo prototipo di Nuova Destra Americana, un movimento politico e culturale risultato del superamento dei vizi di forma che hanno portato all’assalto di Capitol Hill. Oltre l’alt right e QAnon, i Proud Boys e Jake Angeli. Da certi punti di vista persino oltre il Make America Great Again, quantomeno per come lo ha inventato e interpretato Trump.

Nessuno sa perché Trump abbia scelto proprio Vance. C’è chi dice lo abbia fatto perché era la maniera semplice ed efficace di dimostrare un potere che alcuni si azzardano a mettere in dubbio: scegliere il candidato più in difficoltà e portarlo alla vittoria con la semplice imposizione delle mani, confermando le doti taumaturgiche che lo rendono il candidato inevitabile per il 2024. Altri sostengono che Trump abbia scelto Vance con lo stesso metodo con il quale sceglie qualsiasi altra cosa: guardando la tv. Pare l’ex Presidente abbia notato Vance nelle ospitate nella trasmissione di Tucker Carlson su Fox News, e che gli sia piaciuto molto. «Ha il look giusto», avrebbe detto. Altri ancora si dicono convinti che l’endorsement di The Donald sia la destinazione obbligata del viaggio politico di Vance, un traiettoria trasformativa che il Washington Post ha raccontato in un pezzo intitolato “La radicalizzazione di J.D. Vance”.

Nel 2016, quando uscì Elegia americana, Vance era il conservatore più letto e apprezzato da quelle che lui stesso oggi definisce le «élite costiere», quell’intellighenzia traumatizzata dalla sconfitta di Hillary Clinton e alla ricerca di una spiegazione. Larry Summers, professore di Harvard ed ex treasury secretary dell’amministrazione Clinton, definì l’opera prima di Vance una «lettura necessaria per chiunque voglia capire l’ascesa di Trump o la disuguaglianza in America». Un memoir che raccontava la white trash abbandonata nel sud e nel midwest americano, lavoratori dell’industria del ferro lasciati ad arrugginire nella Rust Belt assieme alle fabbriche abbandonate. In parte anche una saga familiare americana, la risposta dell’Ohio e del Kentucky a Le correzioni, un racconto a suo modo epico dominato da Mamaw, la nonna di Vance, una donna che «amava Dio, la parola fuck, e possedeva 19 pistole», figura centrale nel coming of age di un ragazzino abbandonato dal padre assente e dalle madre eroinomane. Soprattutto, una spiegazione del trauma del 2016 data da un giovane uomo, repubblicano da sempre e conservatore convinto. Un giovane uomo arrabbiato capace di sfuggire alla dipendenza da sussidi e sostanze e di realizzare il Sogno Americano passando da due delle sue istituzioni fondamentali: le forze armate (i Marine) e l’università (Yale).

Nel 2016, Vance era uno dei principali esponenti del movimento Never Trump. Definiva Trump come «eroina culturale», un leader che avrebbe portato il proletariato bianco «to a very dark place», l’aggregatore di un elettorato che lo sceglieva anche perché «razzista». Tutte ragioni per le quali, nel 2016,  disse di aver preso in considerazione di votare democratico, di contribuire a mandare Hillary Clinton alla Casa Bianca. Tutte frasi che sono finite nei tantissimi spot che i suoi avversari nelle primarie repubblicane in Ohio gli hanno dedicato, dipingendolo come un ipocrita nel migliore dei casi e nel peggiore un agente esterno.

Non fosse stato per l’endorsement di Trump, probabilmente Vance non sarebbe riuscito a convincere gli elettori della sincerità della sua conversione. Ha raccontato praticamente ovunque – compreso il podcast di Steve Bannon – di essere una sorta di San Paolo del trumpismo: all’improvviso si è reso conto di quanto avesse ragione Trump quando parlava della corruzione e dell’immoralità e dell’inettitudine della classe dirigente americana. Una parte fondamentale del mito fondativo di Vance si basa sulle modalità e tempistiche di questa epifania. Dopo il successo di Elegia americana, racconta Vance, ha avuto modo di conoscere e frequentare quelli che ora racconta come gli avversari suoi e d’America: i vincitori della globalizzazione, quelli che provano a distrarre il popolo con le guerre culturali su razza, sesso, genere, orientamento sessuale («per me, invece, ogni guerra è guerra di classe», ha raccontato Vance in uno stupendo pezzo di James Pogue pubblicato su Vanity Fair), quelli che «non provano alcuna riconoscenza per il Paese che gli ha permesso di diventare ciò che sono». Ha scelto di tornare in Ohio e di estendere il dominio della lotta: da letteraria a politica, accettando finalmente l’offerta (e i finanziamenti) del suo mentore Peter Thiel, uno dei pochi sovrani conservatori che dominano la Silicon Valley, un re oscuro che in passato ha sostenuto Trump e che ora, assieme a Curtis Yarvin – noto anche come red pill prince, lord Yarvin o «il nostro profeta» negli ambienti della destra americana – è alla ricerca di the next big thing repubblicana. Da qui, l’inizio della trasformazione che The Atlantic ha definito come una prova di «spietato cinismo».

Per i liberal che avevano posto in Vance le loro speranze di convertire un uomo nuovo repubblicano, il dolore è stato grande: vederlo parlare della globalizzazione come di una macchina mortale, di Cina come dell’Impero del Male, dell’economia finanziaria come della grande truffa ai danni del popolo americano è stata una delusione. Ma c’è anche chi, nel discorso politico di Vance, scorge novità e contraddizioni che probabilmente saranno quelle del dibattito pubblico che verrà. Da un lato rivendica il diritto all’isolazionismo degli Stati Uniti: «A essere onesto, non mi importa granché di quello che succede in Ucraina», ha detto. Dall’altro, rimprovera gli americani di aver dimenticato di essere i destinatari di una missione a loro affidata da Dio e dalla Storia: «Siamo diventati una barzelletta di Paese», ha ribadito in più occasioni.

Per il momento, Vance è riuscito a convincere i pezzi del suo mondo che adesso contano di più. Gli elettori dell’Ohio e, soprattutto, Donald Trump. L’ex Presidente ha commentato la sua decisione di sostenere Vance con un’affermazione che a molti è parsa la conferma dell’inevitabilità della scelta populista: «Se mi rifiutassi di sostenere tutti quelli che hanno parlato male di me, non potrei sostenere nessuno nel Paese. Lui in passato ha detto delle cose meno che carine sul mio conto. Ma ora ha capito. E me lo ha dimostrato».