Cultura | Letteratura
Il romanzo famigliare ma sperimentale di Ian Williams
Intervista all'autore del sorprendente Riproduzione sulla sua idea di letteratura, a metà tra la precisione meccanica dell'orologio e l'imprevedibile evoluzione degli organismi viventi.
Riproduzione di Ian Williams ha tutte le caratteristiche che respingono gli editor delle case editrici e gran parte dei lettori: è molto lungo, ha uno sviluppo non lineare, è un libro dove intento, struttura, forma e stile sono così connessi che avvicinandosi alla fine il libro si ammala di cancro: le parole diventano cellule corrotte dal male, in apice e in pedice leggiamo il garbuglio dei pensieri e delle interazioni non esplicite tra i protagonisti, e si sviluppa una storia nella storia, che alla fine ha il sopravvento. Eppure le quasi settecento pagine di Riproduzione (Keller editore, traduzione di Elvira Grassi) si leggono in una manciata di giorni, in estasi e ammirazione, e per fortuna c’è chi va controcorrente perché Williams con questo romanzo nel 2019 ha vinto uno dei più importanti premi letterari canadesi, il Giller Prize, e molti giornali hanno riconosciuto il suo talento. Per il Guardian, Riproduzione è accattivante e di raffinato equilibrio; il New York Times ha esaltato il linguaggio e lo sguardo sociale.
La trama abbraccia quarant’anni e si racconta in poche battute. Edgar e Felicia – lui, di mezz’età, bianco, tedesco, vagamente predatorio; lei, diciannovenne, nera, povera – si incontrano in una stanza d’ospedale al capezzale delle madri morenti. A morire è solo la madre di Felicia, e quest’ultima nel giro di pochi giorni diventa amante di Edgar e badante della madre. Dalla tormentata relazione nasce Armistice, che invece di segnare un armistizio sancisce la separazione. Tutto questo alla fine degli anni Settanta. Senza altre connessioni ritroviamo Army e Felicia nel seminterrato della casa di Oliver. Army è un adolescente, sembra la copia del padre che non ha ancora conosciuto: stessa ambizione prevaricatrice, stessa mancanza di scrupoli. A discapito delle apparenze non è Army a mettere incinta Heather, la figlia di Oliver, ma sarà Felicia a prendersi cura del bambino, Riot (come vedete si sta formando l’armata dell’umanità), con un mescolamento inestricabile di ruoli e parentele. Edgar, ormai malato, alla fine incontra Army, ma anche stavolta nulla appare limpido, la realtà è degradata dalle bugie e dalla malattia.
Riproduzione è in fondo una storia di amori mancati, una riflessione sull’eredità che lasciamo e sull’alta e darwiniana probabilità che le generazioni successive ripetano gli stessi errori dei padri (in questo caso solo dei padri). Ian Williams è nato a Trinidad, nei Caraibi, ma ha vissuto a Brampton, un sobborgo di Toronto. Prima di Riproduzione ha scritto raccolte di poesie e di racconti, ed è da poco uscito in America Disorientation, un saggio su temi scottanti come l’identità e il razzismo.
ⓢ C’è una frase proprio alla fine del libro: «Non tutti sono fatti per riprodursi». Da dove viene un’affermazione così perentoria?
Mi sono sempre chiesto: «Chi decide chi può riprodursi e chi no?». Qui in America c’è un gigantesco dibattito sull’aborto. Chi effettivamente decide non sono le donne incinte. Può perfino capitare che sia un tribunale – magari composto da soli uomini – a determinare chi si riproduce. C’è un’infinità di motivi per non sentirsi pronti ad avere figli. Da una parte c’è lo status del singolo che non vuole prendersi quel tipo di responsabilità, dall’altra c’è l’istinto naturale della specie. Credo sia una delle domande più complesse che ci siano ora.
ⓢ Succede anche con il concetto di famiglia, non credi? Se penso al tuo libro e mi chiedo cos’è una famiglia, mi trovo davanti nuclei di persone che hanno scelto di vivere insieme, ma spesso i legami tra loro sono flebili. Persone che si conoscono a malapena e che stanno insieme da poco possono essere considerate una famiglia?
Penso che per famiglia si debba intendere un gruppo di persone animato da senso di responsabilità e intimità, ma riconosco che possa esserci un legame perfino intimo fondato sulla responsabilità senza che diventi familiare. L’idea di famiglia con due genitori e 1,7 figli, che è la media qui ora, è un po’ arcaica: ormai ci sono un sacco di famiglie con figli che provengono da una relazione precedente di uno o di entrambi i partner, oppure con figli adottati o in affidamento. Per me la famiglia è qualcosa di allargato dove si possono instaurare relazioni di tipo complesso. Certo, se ci sono bambini la funzione genitoriale deve esserci per forza.
ⓢ Come interpreti la facilità con cui Felicia crea famiglie sempre diverse?
Le famiglie di Felicia si creano soprattutto per prossimità. Se pensi alla seconda parte con Oliver: lui e Felicia vivono nella stessa casa, e hanno figli più o meno della stessa età. E poi succede quello che succede, nonostante Felicia non fosse in cerca…
ⓢ In effetti Felicia non cerca mai un uomo!
È vero. In quel caso la relazione nasce proprio per motivi di condivisione dello spazio. Felicia è intrappolata in quella situazione per un anno e più. Succede e basta, e nella vita cose così capitano più spesso di quanto pensiamo. Si ritiene che la costruzione della famiglia sia un processo decisionale: scelgo la persona che voglio sposare, ci si predispone per avere figli eccetera eccetera, ma se ti sposti di qualche isolato potresti sposare una persona del tutto diversa da quella che immaginavi. Dipende dal caso, dalle coincidenze.
ⓢ Pensi che la famiglia possa essere vissuta come una forma di costrizione?
Ci sono persone che evitano in tutti i modi di farsi una famiglia e persone che non possono farne a meno.
ⓢ In Italia siamo pervasi di cultura cattolica. Prima hai fatto riferimento all’aborto in Canada. Non credere che la situazione in Europa sia rosea. Siamo scossi da un’onda regressiva che ogni giorno mette in dubbio alcune delle conquiste della modernità.
In questo senso il mondo va nella stessa direzione. La formula perfetta per la famiglia è stata testata da secoli di convivenza. Risultato: deve per forza essere affidabile. Come a dire: «Perché cambiarla se funziona così bene?». In America, dove abbiamo una storia molto più corta, c’è una certa apertura verso le famiglie gay, verso le famiglie con mamme sole anche minorenni e così via, perché ci rendiamo conto che la vita è un casino. La soluzione non è tentare di rimodellare le persone rendendole conformi. Va però detto che c’è anche da noi questa spinta di destra – un’onda regressiva, l’espressione è azzeccata –, anche se più negli Stati Uniti che in Canada. Per certi aspetti assistiamo a un ritorno indietro di decine di anni. Non so dire cosa nasconda.
ⓢ Quanto ci vuole a scrivere un romanzo così?
Tantissimo. Quando stavo per finire, i tragici crimini successi in America (soprattutto l’uccisione di George Floyd) mi hanno costretto a una riflessione più profonda. Mi sono immerso in ciò che mi fa più paura, un dramma di cui non vedo la fine. E così ho scritto i saggi che ora fanno parte di Disorientation. Solo dopo essermi liberato da questa urgenza ho potuto completare il romanzo. Quando ho iniziato a scriverlo le domande che mi formicolavano nella testa erano le stesse che si fanno le persone della mia età: «Mi devo sposare», «devo fare figli», e in questo senso la materia generale del libro è venuta fuori in modo naturale. Ma a interessarmi erano le implicazioni. A che punto ero della mia vita? Il libro è pieno della mia delusione di uomo di fronte a un mondo in perenne declino.
ⓢ Come l’hanno accolto in casa editrice quando gliel’hai mandato?
Mi rendo conto che non è un romanzo normale – di solito i romanzi non si comportano così, non hanno queste esigenze tipografiche, a me invece piace analizzare come sono costruite le cose, dalla superficie alla profondità, come certi edifici dove vedi lo scheletro d’acciaio o cemento, i mattoni, i vetri –, è tutto palese. Credo che qualche volta i libri debbano rivelare il loro meccanismo. Come romanziere non ho la pretesa dell’invisibilità, anzi mi piace pensare di essere di fronte a una macchina; penso che gli ingranaggi siano meravigliosi – guarda gli orologi – e credo che abbiamo troppa paura a immergerci nel funzionamento delle cose. Secondo me non si lavora abbastanza sulla forma: leggiamo solo per appropriarci del contenuto. Io, invece, voglio che il lettore si renda conto di quanto si può fare con il linguaggio che usiamo tutti i giorni. Per tornare al tuo punto, sì, gli editor sono rimasti sorpresi dal romanzo, ma la cosa buona di Random House è che volevano pubblicarlo, ci credevano. Hanno capito subito qual era il mio obiettivo: la riproduzione che allargava i confini del romanzo tradizionale. Sarò sempre grato a queste persone che mi hanno dato così tanta libertà.
ⓢ Pure se diversissimo per intenti, mi ha ricordato Casa di foglie di Mark Z. Danielewski.
Davvero? L’ho letto quando studiavo all’università. Mi è piaciuto perché ci sono tantissime cose dentro. Danielewski ha avuto coraggio, e pure il suo editore. La maggior parte dei lettori non è pronta per romanzi del genere: si sa, quando il libro sembra un po’ troppo d’avanguardia il mercato non reagisce bene. Sia Casa di foglie sia Riproduzione sono stati creati per stare sulla pagina. Con la versione digitale ci sono problemi, e immagino anche in traduzione. Sono tipi di scrittura molto specifici, per certi aspetti intraducibili in altri linguaggi. Come lo fai il film di Riproduzione? Certo, puoi tenere la storia ma non puoi preservare il tessuto del testo.
ⓢ Per esempio bisognerebbe inventare un modo per rappresentare il cancro che tipograficamente affligge il libro.
Sì, ma non so proprio come si possa farlo, ma non spetta a me pensarci. Mi piacerebbe essere a mia volta stupito da qualcuno che traduce Riproduzione con un altro linguaggio.
ⓢ Quando hai deciso che il cancro avrebbe fatto la sua comparsa nel romanzo? L’avevi previsto fin dall’inizio o è successo mentre scrivevi?
La prima volta che si vede il nome di Edgar cambiato (Edgrr) pensi sia un refuso, ma la seconda (Eegrr) o la terza (Ergrr) o oltre (EEEE) ti chiedi cosa stia succedendo. Ho fiducia nel lettore e sono convinto che mi restituisca questa fiducia. C’è una relazione molto delicata tra chi scrive e chi legge. Ho sentito che dovevo rischiare, e può andare male perché il lettore potrebbe pensare che non sia necessario, anzi che generi confusione, e decidere di abbandonare la lettura; ma penso che i lettori siano molto più disposti a seguirci di quello che pensiamo, nonostante la letteratura che in questi anni gli è stata somministrata. Mi chiedevi quando ho deciso di farlo. Beh, non subito. Da poeta ho una certa consapevolezza di ciò che può restituire una pagina, ma dall’altra parte rispetto la tradizione; so bene che per un romanzo ci sono aspettative molto diverse da quelle che ci sono per una poesia. Ho sempre saputo che il libro si sarebbe dovuto ammalare di cancro ma non avevo chiaro come. È bastato incoraggiare l’elemento che mi portava a fare cose strane.
ⓢ Forma e contenuto hanno passeggiato a braccetto? Ti sei imposto tutta una serie di vincoli legati alla genetica nel nome e nel numero dei capitoli e dei paragrafi. Alla fine è venuto fuori un organismo.
A volte forma e contenuto crescono simultaneamente. Sapevo, per esempio, che la seconda parte si sarebbe dovuta sviluppare con 4 personaggi e 16 capitoli ma non sapevo cosa ci sarebbe andato dentro. Lo stesso vale per le 256 sottosezioni della terza parte. Però non voglio essere ricordato come “quello delle trovate”, non voglio che sembri ginnastica mentale; ci sono scrittori che fanno un’esibizione di vocabolario. A me non interessa mettermi in mostra, voglio avere uno scopo.
ⓢ La cosa incredibile del tuo libro è che a dispetto di una struttura così elaborata si legge con facilità.
È il complimento più bello che potessi ricevere.
ⓢ Cosa pensi delle critiche che ti sono state mosse? Alcune sono dure: per esempio Bert’s Book Podcast non ha gradito le scelte stilistiche, secondo loro il libro è «overwritten»; altri insistono sul fatto che sia faticoso da seguire.
Credo che le persone che hanno avuto problemi con questo libro siano le stesse che cercano cose facili. Si sentono mentalmente dotate quando dominano il testo. È il libro a metterti alla prova. Si deve stabilire con il lettore una regola di ingaggio. È come se gli dicessi: «Non ho alcuna intenzione di insultarti con la faciloneria del junk food». Scrivo per rinforzare il rapporto del lettore con la letteratura. Mi piacerebbe che chi finisce Riproduzione si sentisse in grado di affrontare altre sfide di lettura, e allo stesso tempo non voglio che sembri solo un libro difficile. Non sai quanto mi danno fastidio i libri pieni di teoria, scritti in modo del tutto oscuro.