Attualità

I più bravi del mondo

Che senso ha il Nobel, chi vuole premiare e secondo che meriti? Come si valuta il miglior scrittore del mondo, se si può? Una lunga riflessione.

di Vincenzo Latronico

Un indovinello, per cominciare

Cos’hanno in comune Licio Gelli e Roberto Vecchioni?
Sono stati entrambi candidati al premio Nobel per la letteratura.
E cosa li distingue da Jean-Paul Sartre?
Lui lo ha vinto, ma lo ha rifiutato per ragioni ideologiche o perché, secondo André Maurois, lo smoking non gli donava.
Ma Winston Churchill che c’entra?
Niente, però lo ha vinto anche lui. In smoking stava benissimo.

 

Due opinioni su Alice Munro

Si dà il caso che io abbia iniziato di recente a leggere Alice Munro, che ha appena vinto il Nobel per la letteratura, curiosamente poco tempo dopo l’intervista in cui annunciava che non avrebbe scritto mai più. Pochi mesi fa un’amica mi ha prestato due suoi libri di racconti. Li ho letti rapidamente, in una settimana d’influenza primaverile che adesso sembra lontanissima.
Non voglio farne una recensione. Mi sono “piaciuti”, se il termine ha senso. Li ho finiti con interesse e piacere, stupendomi spesso per la qualità della scrittura, la profondità di analisi e per la sottile delicatezza con cui la caratterizzazione psicologica sfumava nell’azione, cogliendoti di sorpresa quando stavi per sospirareecco, un altro libro che parla di sentimenti. Ne ricordo qualche scena. È tutto, credo.

Ma perché, esattamente, il Nobel per la letteratura ha tutta questa importanza? Non è in fondo un premio letterario come gli altri – inaffidabile, aperto agli errori e ai condizionamenti – solo con un sacco di soldi?

Se Jennifer non mi avesse prestato quelle raccolte probabilmente le avrei comprate oggi, dopo l’annuncio del premio, con quel misto di curiosità e senso di colpevole ignoranza che suscita in me ogni Nobel di cui non so nulla (sono tanti! Su 113, ho fatto il conto, ne ho letti meno di 40). Non sono certo che avrei reagito allo stesso modo alla lettura. Mi sarei aspettato qualcosa di più – quella scintilla di grandezza che ho visto “scoprendo”, ad esempio, John Berger o Clarice Lispector o Alejo Carpentier – quella sensazione che ti fa venire voglia di rileggere e sottolineare, di disturbare i tuoi amici con la lettura di un brano pazzesco mentre probabilmente avevano tutt’altro da fare. Mi sarei detto che sono buoni libri, sì, anche ottimi, e che Munro è una grande scrittrice. Ma – mi sarei chiesto – è davvero “da Nobel”?

Penso che tutti, più o meno, abbiamo idea di cosa significhi quest’espressione, che ormai è diventata quasi antonomastica. Il premio Nobel è considerato l’apice della carriera letteraria di qualunque scrittore al mondo – e questo, curiosamente, nonostante spesso i vincitori ne siano ritenuti immeritevoli: da alcuni (come nel caso di Fo), da molti (Tranströmer) o da tutti (Pearl Buck: e se non sapete chi è non è un caso). Ma perché, esattamente, il Nobel per la letteratura ha tutta questa importanza? Non è in fondo un premio letterario come gli altri – inaffidabile, aperto agli errori e ai condizionamenti – solo con un sacco di soldi?

Insomma: che senso ha il Nobel?

 

Un senso ideale

Il premio Nobel per la letteratura è stato fondato alla fine dell’Ottocento su indicazione di Alfred Nobel, che grazie all’invenzione della dinamite aveva ammassato un patrimonio gigantesco e, si suppone, qualche senso di colpa da smaltire. Le indicazioni nel suo testamento dicevano semplicemente che il premio doveva essere assegnato, ogni anno, “all’opera migliore in senso ideale”. Così, facendola facile. Ad assegnarlo doveva essere l’Accademia di Svezia – l’equivalente di quella della Crusca, più o meno – che inizialmente ipotizzò di rifiutare per paura di ridursi ad essere una giuria letteraria con un mucchio di quattrini (timore che, a posteriori, appare fondato). Fu anche l’Accademia a determinare, periodicamente, quale fosse l’interpretazione corretta di quel senso ideale. Nei centododici anni di esistenza del premio quel senso, come la pelle dei serpenti e i desideri delle donne, è cambiato parecchie volte.

Fra i significati successivi che l’espressione di Nobel ha avuto ci sono, in ordine cronologico: opere caratterizzate da “un idealismo vertiginoso”, da “interesse universale”, scritte dai “pionieri”, o da “maestri sconosciuti”, e infine facenti parte della “letteratura di tutto il mondo”. I cambiamenti di rotta sono annunciati sul sito dell’Accademia stessa, insieme a un paragrafo un po’ patetico che si lamenta di come la stampa internazionale ne abbia spesso frainteso la portata, paragonando premi (ad esempio: quello del ’34 a Pirandello e quello del ’97 a Fo) che invece erano ispirati a criteri profondamente diversi.

A dire il vero, fatico a vedere questa diversità – le opere di un pioniere non sono di interesse universale? I maestri sconosciuti non appartengono alla letteratura di tutto il mondo? Ma quest’ultima definizione, che vige tuttora, almeno rende esplicito il fatto che i criteri di premiazione hanno a che fare con considerazioni politiche e geografiche e non solo con la rubrica del “merito” – anche ammettendo che sia possibile incolonnare meritocraticamente, da 1 a infinito, le opere letterarie di tutto il mondo come fossero giocatori del fantacalcio.

 

Il più bravo del mondo

L’idea di “letteratura di tutto il mondo” presuppone l’alternanza periodica delle letterature nazionali – qualcosa che, per opportunismo o per sincero scrupolo contro l’eurocentrismo, caratterizza il Nobel già da qualche tempo. Questo approccio rende conto del fatto che pare estremamente difficile formulare un paragone fra opere di tradizioni letterarie estremamente lontane – qualcosa che un uomo dell’Ottocento, abituato alla cultura tutto sommato omogenea del continente europeo, poteva facilmente ignorare.

Ma questa consapevolezza è già una rinuncia, per quello che vorebbe essere (o che noi vorremmo che fosse) il “premio della letteratura mondiale” – l’autore premiato sarà stato ritenuto il più meritevole fra i suoi connazionali, ma non necessariamente rispetto al resto degli scrittori che aspirano al premio. È a tutti gli effetti il naufragio del sogno della Weltliteratur, l’idea del processo di convergenza storica delle tradizioni e delle culture. E ha qualcosa di paradossale il fatto che questo naufragio sia reso necessario dal desiderio di rispettare la diversità.

Naturalmente, se il sogno naufraga è perché forse già in principio non aveva senso pensare che la “Letteratura”, così, con la maiuscola, fosse la stessa cosa in culture drasticamente altre – così come non aveva senso, a pensarci bene, l’idea che il Nobel fosse genericamente il “premio dello scrittore più bravo del mondo”. Eppure qualcosa, di quell’aura, ce l’ha (o ce l’aveva) – e anche in virtù di ciò ha l’importanza che gli diamo. Certo, non per questo il premio perde il suo prestigio: si tratta comunque di un riconoscimento periodico dell’esponente di spicco di una tradizione nazionale. Questo sarebbe tanto più importante nella misura in cui i premi nazionali, deputati proprio alla produzione del canone, sono spesso accusati (non del tutto a torto) di essere soggetti a favoritismi, scambi, maneggiamenti e il consueto gioco delle consorterie. Il Nobel sarebbe insomma una vetrina indipendente, esterna e autonoma per il meglio delle letterature nazionali, che vi si alternerebbero a turno come i premiati di diverse specialità olimpiche.

In questa vetrina, la specialità “letteratura italiana” vedrebbe due ori su sei assegnati a Dario Fo e Salvatore Quasimodo. Come dopo un disastro ferroviario, capire significa ricostruire il processo materiale che ha portato a un esito indesiderato.

 

Forse valeva la pena chiederselo prima: come funziona il Nobel?

Non si capisce bene.

L’organismo che presiede all’assegnazione del Nobel è l’Accademia di Svezia (AS). Ha 18 membri a vita, nominati per cooptazione interna e avallati dalla famiglia reale. In origine dovevano essere 20, ma re Gustaf III preferì 18 perché in svedese suonava meglio. Sei membri dell’AS formano il Comitato per il Nobel in Letteratura (CNL). La selezione del Nobel inizia quando il CNL manda delle lettere in giro per il mondo, invitando eminenti letterati a nominare un candidato per il premio. Per essere un eminente letterato occorre:

1. essere membri di una società nazionale “analoga” all’Accademia di Svezia;

2. insegnare letteratura o linguistica in un’università;

3. aver vinto un premio Nobel;

4. essere presidenti di un’associazione nazionale di scrittori.

Il CNL non manda le lettere a tutti gli eminenti letterati che ricadono nella loro definizione (sarebbero decine di migliaia); ma chiunque vi ricada può spontaneamente sottoporre una nomina, anche se non ha ricevuto la lettera. Questo significa che teoricamente l’Italia (contando 96 università con almeno 5 cattedre rilevanti, 54 cruscanti e oltre 500 lincei) potrebbe nominare ogni anno un migliaio di candidati al premio Nobel in Letteratura, uno dei quali sarebbe Vecchioni. Passata la deadline per le nomine, il CNL si riunisce e riduce la rosa dei nominati a cinque candidati; l’AS legge le opere dei cinque (con facoltà di commissionare traduzioni in caso non ne conoscano la lingua) e vota il vincitore. Applausi.

 

Che cosa significano le regole

Per prima cosa, che una singola nomina è sostanzialmente irrilevante. Nella pratica non ne avanzano tutti quelli che ne avrebbero diritto – ne arrivano circa trecento l’anno – ma il fatto che potrebbero mette in prospettiva la notizia che il tale poeta o scrittore o chansonnier sia stato effettivamente candidato: non perché sia falsa (potrebbe comunque esserlo: le candidature sono segrete per mezzo secolo, più dei dossier della CIA), ma perché significa poco.

In secondo luogo, che la prima scrematura deve essere fatta di fretta. I sei membri del CNL hanno tre mesi di tempo (in cui si immagina abbiano anche altre cose da fare) per ridurre la lista da svariate centinaia a cinque. Inoltre, benché poliglotti, è difficile immaginare che in sei possiedano competenze tali da coprire ogni lingua in cui scrivono i nominati.

I sei membri del CNL hanno tre mesi per ridurre la lista da svariate centinaia a cinque. Inoltre, benché poliglotti, è difficile immaginare che in sei possiedano competenze tali da coprire ogni lingua in cui scrivono i nominati.

Ne consegue che, per forza di cose, dovranno basare larga parte della loro decisione su quanto scritto dai segnalatori nelle schede di nomina. Non sono riuscito a trovarne una per la letteratura, ma se sono paragonabili a quelle di fisica lo spazio che viene concesso per la spiegazione è di sei paragrafi. Per farsi un’idea: questo articolo, sino a qui, sarebbe bastato a candidare al Nobel per la letteratura tutti gli italiani che lo abbiano mai vinto.

È difficile, in uno spazio simile, dare un’idea di una carriera letteraria, o anche solo di un’opera – tanto più di quelle che dovrebbero essere le “migliori del mondo”. Più immediato è invece suscitare interesse – perlomeno l’interesse a documentarsi, e investire tempo e denaro nella lettura di una traduzione – con un paragrafo biografico: che mostri, ad esempio, l’impegno politico e civile dello scrittore in questione, o che ne riassuma in toni enfatici un’innovazione linguistica che comunque sfuggirebbe in traduzione.

Questo potrebbe spiegare alcune cose. Supponiamo che non conosca l’italiano e mi trovi davanti sei paragrafi su Dario Fo e sei su Antonio Moresco (a cui ho rubato la frase che chiude questo articolo) o su Michele Mari, lo scrittore italiano che più sarei felice di vedere premiato in Svezia. Fo ha una biografia accattivante e movimentata, e ha dalla sua un grande lavoro sulla lingua la cui portata è facile da spiegare – soprattutto a chi non può capirla. Mari ha solamente una sfilza di libri meravigliosi e difficilissimi da riassumere, la cui bellezza trapela piano e ostilmente, come la fioritura di una pianta carnivora; e un posto in università. Capisco perché potrei propendere per il primo. Sei paragrafi son pochi.

Un ragionamento simile può spiegare molte altre scelte recenti più o meno controverse. Una volta arrivati alla cinquina è difficile pensare che vi sia più di un autore della stessa lingua, se non altro per ragioni statistiche; anche a libri letti, quindi, il paragone “di qualità” sarà indubbiamente subordinato a considerazioni di equilibrio e di opportunità nazionale. Quest’anno, ad esempio, era prevedibile che Murakami – pur dato per favorito – non avrebbe vinto: ci sono troppi uomini fra i premiati (quasi nove su dieci).

Ciò non toglie nulla alla qualità dei libri di Munro, o di Fo, se è per questo. Semplicemente, il fatto che abbiano ricevuto il Nobel non significa né che siano stati ritenuti “superiori” a quelli di autori di altri paesi (per l’alternanza e l’impegno per una letteratura mondiale), né a quelli dei loro connazionali (visto che, nella scrematura, è difficile presumere che questi siano stati letti in profondità).

Ma allora il Nobel che significa? Significa – solamente – che hanno dedicato una vita a scrivere, e lo hanno fatto bene, e probabilmente non hanno mai pubblicato un best-seller, e d’ora in poi saranno invidiati e ammirati e più ricchi di quanto non fossero prima. I loro libri saranno ristampati, e tradotti, e letti da persone che prima li avevano ignorati, per omissione o per impossibilità, e che dopo averli letti ne declameranno brani agli amici oppure si diranno malignamente che sì, insomma, tutta roba buona, però mica da Nobel, eh.


Un altro indovinello, per chiudere

Ci sono diciotto scrittori e accademici svedesi, seduti su un endowment da cento milioni di euro. Ogni anno si guardano in giro e – al meglio che possono, cercando di accontentare tutti – ne danno uno a uno scrittore che reputano bravissimo. E tutt’intorno – in tutto il mondo – ci siamo noi che ci agitiamo e ci pensiamo e cerchiamo di dare a questa scelta un qualche significato profondo per la cultura mondiale o la storia della letteratura.

Ma che cos’è la letteratura?