Cultura | Libri

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a novembre in redazione.

di Studio

Jenny Erpenbeck – Kairos (Sellerio Editore)
Traduzione di Ada Vigliani
Che cosa incredibile e stranissima pensare a una Germania comunista a distanza di così tanti anni, anche per me che sono abbastanza vecchio da aver visto la Caduta del Muro nei telegiornali dell’epoca. Questo mondo sospeso, quasi congelato, tra l’Europa e la Unione Sovietica non è stato poi così raccontato, neanche ex post. Iniziando le prime pagine di Kairos (vincitore dell’International Booker Prize nel 2024), mi è subito tornato in mente l’unico grande romanzo che avevo letto anni fa su quel pezzo di storia e di geografia, Vite nuove di Ingo Schulze, un romanzo totalmente epistolare, che però si concentrava più sulla transizione dal comunismo al capitalismo (col suo carico di trasformazioni antropologiche e illusioni), che su ciò che era successo prima. Il romanzo di Jenny Erpenbeck, invece, inizia nel 1986, in un momento in cui ci sono solo piccole incrinature in quel mondo a parte. Le si nota controluce in quello che è il vero nucleo della storia, la relazione amorosa tra una ragazza di 19 anni e uno scrittore ultracinquantenne a Berlino Est. Una storia d’amore e di passione, ma anche di manipolazione e sofferenza, raccontata da un narratore onnisciente capace di restituire i due differenti punti di vista con un’esattezza vivida. Una storia d’amore che riesce al tempo stesso a essere uno specchio in cui il lettore può guardare ogni parabola sentimentale e una potentissima metafora politica. In fondo, sulla retta che porta dall’innamoramento al disamoramento si svolge la parte più importante delle nostre vite. (Cristiano de Majo)

Anna Pazos, Tagliare il nervo (Nottetempo)
Traduzione di Amaranta Sbardella
Negli anni Trenta del Novecento Patrick Leigh Fermor si metteva in viaggio dall’Inghilterra alla Turchia, porta dell’Oriente, attraversava un continente in cui il mondo ottocentesco finiva sotto la spinta delle prime enormi industrie, lentamente la morale si faceva più permissiva, e sbocciavano i fascismi. Anni dopo Anna Pazos lascia Barcellona e viaggia in modo più caotico: va in Grecia, poi in Israele, e da lì spesso in Palestina, in Turchia, poi con una barca a vela alle Canarie, nei Caraibi, infine a New York. È un parallelo che mi è venuto istintivo anche se, sul piano letterario, Tempo di regali non ci azzecca niente con Tagliare il nervo. Ma mi sembra che anche Pazos attraversi, con un certo smarrimento e confusione e una critica sempre puntuale e intelligente, un mondo altrettanto pieno di cambiamenti. E forse, anche questo, sull’orlo di un nuovo tipo di fascismo. Per il resto, Tagliare il nervo è un’educazione sentimentale: la cosa più interessante è che viene fatta in un mondo che non sa più definire, nei sentimenti, nel sesso, e nel rapporto tra i corpi, dove sono i confini del passato, e dove vanno messi quelli nuovi. La seguiamo mentre passa per relazioni e amicizie tossiche, anche farmacologicamente parlando, attraversa l’avvento del #MeToo chiedendosi: perché io non ho un mio trauma?, osserva il messianesimo degli israeliani più sionisti e le solitudini delle metropoli occidentali. La odiamo, a volte, perché lei non si risparmia nemmeno in questo, per quello che pensa e per le decisioni che prende, e talvolta invece tocca grandi vette di poesia. Molte frasi da sottolineare. Un memoir sgangherato che è un piacere da leggere ed è, nel senso migliore del termine, lo specchio per il caos emotivo e sentimentale che almeno un paio di generazioni stanno guadando. (Davide Coppo)

Damon Galgut, La preda (Edizioni E/O)
Traduzione di Tiziana Lo Porto
La mia predisposizione al pessimismo mi ha sempre portato ad apprezzare le storie di disfacimento, quelle in cui un essere umano procede verso il nulla attraversando una serie di iterazioni di se stesso sempre peggiori, a ogni ripetizione perdendo un pezzo, fino a che non resta più niente (soprattutto nessuna speranza, quindi nessuna illusione). Questi anni tremendi non hanno fatto altro che accentuare questa predisposizione, e adesso sono al punto in cui i miei consumi culturali ammontano a poco più che confirmation bias: mi piacciono davvero solo le cose che mi danno ragione. È (anche) per questo che La preda di Damon Galgut (uscito adesso in Italia ma pubblicato originariamente nel 1995) mi è sembrato un libro bellissimo: perché mi ha fatto disperare. Il protagonista è un uomo che non ha nome né destinazione: lo conosciamo mentre si trascina lungo una strada, lo osserviamo mentre uccide una persona, lo seguiamo mentre cerca riparo rubando l’identità della sua vittima. Tutto quello che viene dopo questi eventi – La preda è di fatto un thriller, la storia di un gatto che dà una vana caccia al topo – è irrilevante per scelta autoriale. Non conta nulla che il nostro assassino senza nome provi a scappare né a nascondersi, non importa la sua infatuazione per la chiesetta del paese in cui si ritrova a vivere né la sua paura che la legge venga a prenderlo. Nulla di tutto questo è importante, perché Galgut immerge i suoi personaggi in una frontiera sudafricana che ricorda quella americana di McCarthy: un luogo in cui la morale sembra un segreto per pochissimi iniziati e i rapporti tra persone si fondano su richiami istintivi, pre-civili. Non esiste la colpa ma solo il sospetto, al posto della redenzione c’è il tormento. Non a caso, il luogo attorno al quale tutte le vicende si svolgono è una cava: un buco nella terra, buio e freddo. Che, ci dice Galgut, è il massimo che gli esseri umani possono aspettarsi dal futuro. Non che io, personalmente, avessi dubbi a riguardo, ma è sempre piacevole scoprire di non essere i soli. (Francesco Gerardi)

Maria Luisa Frisa (a cura di), I racconti della moda (Einaudi)
Se frequentate Tiktok, magari vi siete imbattuti recentemente in una discussione curiosa, che riguarda l’avere o meno un “personal style” e, qualora mancasse, quali sono le modalità, gli “step”, per acquisirlo. Una delle creator più popolari della piattaforma, Alix Earle (ne parlavamo qui), ha avuto l’ardire di indossare un paio di skinny jeans e i video tutorial su come replicare quel look si sono moltiplicati a tal punto, accompagnati da domande apocalittiche del tipo “Ma quindi gli skinny sono tornati???”, che in tanti hanno colto l’occasione per far notare come questa annosa questione del personal style fosse, in realtà, molto più profonda di un paio di jeans. La creator Allina Ai ci ha scherzato su, consigliando alle “girls” di smetterla di fare domande idiotiche del tipo “Che cappotto devo comprarmi quest’anno”, mentre la reporter di The Verge Mia Sato ha parlato dell’omologazione dovuta all’algoritmo che oggi guida le piattaforme social e, quindi, il nostro gusto, a partire dall’assurda storia di una causa tra due creator il cui stile era praticamente identico. La moda, in questa discussione, rimane sullo sfondo, eppure è centrale lo stesso. A tutti quelli alla ricerca del loro personal style potremmo consigliare allora I racconti della moda, un’antologia in qualche modo sentimentale redatta per Einaudi da Maria Luisa Frisa, critica e teorica della moda, che nella sua bella prefazione spiega come la scelta dei saggi sia una sorta di «una lista di appunti, divagazione e scarabocchi», in cui confluiscono il suo rapporto personale con la moda, il suo gusto, i suoi studi e le sue letture. Tra gli autori ci sono bell hooks, Irene Brin, Jhumpa Lahiri, Pier Vittorio Tondelli, Bret Easton Ellis, Flavia Piccini e Joyce Carol Oates tra gli altri: una piacevolissima lettura ricca di spunti e riflessioni, abilmente selezionati da Frisa, che risolverebbe ogni dubbio delle ragazze su Tiktok, se solo leggessero questo libro. (Silvia Schirinzi)

Giulia Cavaliere, Quel che piace a me. Francesca Alinovi (Electa)
Insieme a questo librino dedicato al lavoro e alla storia della critica d’arte Francesca Alinovi, Giulia Cavaliere ha pubblicato su Spotify una playlist di pezzi che, usando le sue parole, «hanno preso parte ai mondi e ai tempi intorno ai quali Alinovi ha orbitato o nei quali si è immersa. Due ore e più di canzoni entrate nel libro o che ne hanno sotterraneamente costruito le forme. Niente di troppo didascalico, ma una matrioska di allucinazioni sonore figlie di questa storia e della sua presa sulla mia immaginazione». In generale mi sembra un’idea bellissima, quella di creare una playlist che completi e, perché no, accompagni la lettura di un libro, ma in questo caso è davvero perfetta, perché a rendere così affascinante la figura di Francesca Alinovi era anche la sua coolness, la street credibility, il carisma che emanava attraverso i suoi gusti e le sue preferenze, non solo artistiche, ma anche musicali e di stile, da come si pettinava i capelli tinti di nero blu a come aveva sistemato l’appartamento in cui abitava e che era diventato, nella Bologna della controcultura, il quartier generale della scena artistica. E quindi, ascoltare la “sua” musica mi sembra aiuti molto a immaginare la sua energia. Nel volume che fa parte della deliziosa collana OILÀ, curata da Chiara Alessi, che presenta le storie di figure femminili del Novecento che si sono distinte nel panorama creativo italiano e internazionale, Giulia Cavaliere apre la porta della casa di Alinovi, i suoi diari, il suo guardaroba e il suo giradischi, accompagnandoci in un viaggio nell’opera e nell’intimità di una donna di cui purtroppo, troppo spesso, si parla per scandagliare la morte, più che la vita (difficile non essersi mai imbattuti nell’intervista di Franca Leosini al ragazzo accusato di averla uccisa, Francesco Ciancabilla). Se i librini OILÀ sono pensati per essere letti ad alta voce dall’inizio alla fine in quarantacinque minuti, grazie alla playlist il viaggio nella vita di Francesca Alinovi può durare più a lungo. E se volete farlo durare ancora di più, c’è il bellissimo documentario del 2017 di Veronica Santi, I am not alone anyway, e il libro del 2019 che raccoglie i suoi scritti edito da Postmedia Book. (Clara Mazzoleni)

Foto di JEAN-PHILIPPE LACOUR/AFP via Getty Images