Cultura | Libri
I libri del mese
Cosa abbiamo letto a settembre in redazione.
Michael Pollan, Piante che cambiano la mente (Adelphi)
Traduzione di Milena Zemira Ciccimarra
Pubblicato nel 2011, nel 2013 questo libro stava ancora vendendo decine di migliaia di copie su Amazon e continuava a ricevere recensioni sulle riviste: «The Chronology of Water di Lidia Yuknavitch è il tipo di libro che le persone non solo leggono, ma a cui si convertono» era uno dei commenti che si leggevano. La cronologia dell’acqua è un memoir impressionante non tanto per via di quello che racconta della vita dell’autrice (aborti, abusi da parte del padre, tentativi di suicidio della madre, matrimoni falliti, dipendenza, alcolismo, insuccesso) ma per come lo fa: Yuknavitch cresce (e fallisce) come nuotatrice professionista, ma la consistenza dell’acqua – la fluidità e la trasparenza – accompagna per sempre i suoi pensieri e la sua scrittura. Una scrittura che in inglese funziona molto meglio, ma la copertina di nottetempo, che l’ha pubblicato a maggio di quest’anno (rubo le parole di una recensione: «perché cazzo ho aspettato così tanto a leggere questo libro?»), è troppo troppo bella (bella anche quella della prima edizione). La cronologia dell’acqua è stato definito un body memoir, perché il corpo della donna è sempre al centro, sofferente ma anche fortissimo, già dalle prime terribili pagine. Al tempo stesso è un libro molto spirituale, «un libro sacro», come ha scritto qualcuno. Mi ha ricordato come per certi autori la scrittura non sia soltanto una passione o una professione, ma un modo per provare a dare un senso alla propria vita. Quando è uscito Yuknavitch aveva già 48 anni (è nata nel 1963), mi chiedo quanto abbia impiegato a scriverlo e a dare forma alla sua voce, così rabbiosa e precisa, capace di essere sia sporchissima che limpidissima, sia bollente che freddissima. Attenzione: si piange spesso. Mi sono segnata quando: il primo pianto arriva già a pagina 17. (Clara Mazzoleni)
Kader Abdolah, Il faraone d’Olanda (Iperborea)
Traduzione di Elisabetta Svaluto Moreolo
Tutti i libri di Kader Abdolah parlano dell’Iran, anche quelli che parlano dell’Egitto come Il faraone d’Olanda. E quindi tutti i libri di Kader Abdolah parlando di Kader Abdolah, un «piccolo scrittore» che nella sua vita ha desiderato due cose soltanto: lasciare l’Iran, le persecuzioni dello scià e dell’ayatollah, e tornare in Iran, perché anche gli esuli invecchiano fino a sentire la mancanza «del sole, delle persone, di essere insultato». Nelle sue intenzioni Il faraone d’Olanda doveva essere il romanzo più distante, la storia più diversa dalla sua: nei fatti è l’autobiografia che Abdolah non potrà mai scrivere («Non ci sono le condizioni. Assolutamente non posso tornare e non potrei scrivere in Iran. Anche se non mi mettessero in prigione sarei in una galera forzata»). Il co-protagonista del romanzo è Abdolkarim, egiziano emigrato in Olanda, che aiuta l’amico Herman Raven, egittologo a cui l’età sta cancellando la memoria – proprio come la madre di Abdolah, affetta da morbo di Alzheimer – a prendersi cura di un tesoro segreto: la mummia della regina Merneith, che i due custodiscono in una cantina adattata a tomba regale. In vita, Merneith era la prediletta di Thot, il dio egizio che protegge chi scrive e chi sa: proprio come Abdolkarim, proprio come Abdolah. Ormai vecchio, Abdolkarim decide che la missione della sua vita è riportare in Egitto quel tesoro trafugato e assieme a Herman intraprende il viaggio di Ulisse, quello per tornare a casa. Un viaggio da cui emerge l’eredità letteraria mista di Abdolah, che è diventato scrittore due volte: una nella sua lingua madre e un’altra in quella dell’esilio, che nel suo caso è l’olandese (lingua che oggi Abdolah definisce «la mia casa»). Nel Faraone d’Olanda c’è l’autoanalisi ossessiva del vecchio nostalgico, abbellita da inserti magici presi dalla tradizione narrativa persiana: a sfidare Abdolkarim durante il suo viaggio saranno persone – chi lo accusa di essere un falsario e chi gli dice che è un pazzo, chi vuole derubarlo e chi imprigionarlo – che però potrebbero essere benissimo dei jinn, spiriti coranici talvolta benevoli e talvolta maligni, certe volte ingannatori e altre protettori, le forze che si oppongono al movimento unico e naturale dell’esistenza: quello per fare «tornare tutto al luogo da dove è venuto». (Francesco Gerardi)
Kapka Kassabova, Il lago (Crocetti)
Traduzione di Anna Lovisolo
Nell’affollatissimo panorama delle scritture personali e auto-qualcosa, una piccola perla scoperta da Crocetti nella sua collana Mediterranea, uscita in estate e un po’ scomparsa, è Il lago di Kapka Kassabova, poetessa, scrittrice di viaggio, romanziera, poco o per nulla conosciuta in Italia. Il lago, come spesso fanno questi libri, sovrappone storia personale, – quella di una famiglia macedone, vissuta sempre ai confini di qualcosa – con quella collettiva – la tragica ma anche affascinante e incasinata vicenda della Macedonia, e più in grande quella dei Balcani e del Mediterraneo orientale – ma la qualità più importante della scrittura di Kassabova è nel racconto dei luoghi. Luoghi che sembrano un altrove esotico sebbene siano a noi vicini e quasi familiari. Questo scenario è il lago di Ocrida, uno dei più antichi del mondo, posto ai confini tra l’attuale Repubblica macedone, l’Albania e la Grecia, e di conseguenza luogo dai mille influssi culturali, così come di rovesci storici, guerre, repressioni, fughe; «uno di quei luoghi sulla terra», scrive Kassabova, «che ti danno in serbo l’impressione di avere qualcosa di fatidico». Un lago dalle acque trasparenti sulle cui sponde sorgono villaggi, chiesette e un qualche centro di maggiore importanza, come Ocrida, città insieme levantina e balcanica, di orti e di viuzze, che Kassabova ha la capacità di farci vedere e sentire con una vividezza che appartiene solo agli scrittori veri. Leggendo Il lago la certezza di vivere in tempi in cui abbiamo visto tutto e in cui l’altrove non esiste più, inizia felicemente a vacillare. (Cristiano de Majo)