Cultura | Letteratura

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a giugno in redazione.

Jeff VanderMeer – Colibrì Salamandra (Einaudi)
Traduzione di Vincenzo Latronico

Da qualche tempo è emersa una sensibilità comune tra alcuni romanzi. Forse non si può parlare di una corrente letteraria in senso stretto ma più di una tendenza. I denominatori comuni sono l’uso del fantasy e/o della fantascienza all’interno di cornici realistiche, l’esistenza nell’intreccio di cospirazioni dai contorni molto sfumati, un’ansia da pre-apocalisse, che spesso rappresenta istanze legate al clima o alla salute del pianeta. Ma quello che rende questi romanzi nuovi è il fatto che gli elementi fantastici sono sussurrati o comunque ben integrati nella cornice realistica, tanto che nessuna definizione di genere può inquadrarli. Una delle influenze di questa sensibilità è sicuramente il “new weird”, un’espressione nata da un’antologia del 2007, curata dai coniugi Anne e Jeff VanderMeer che raccoglieva autori già famosi e altri meno, accomunati da ambientazioni tra fantascienza e fantasy urbano. Jeff VanderMeer è anche l’autore della Trilogia dell’Area X, libro celebratissimo che ha reso di nuovo interessante ed eccitante la fantascienza dopo un lungo momento di stallo successivo al cyberpunk. Ora, però, in questo Colibrì Salamandra, libro del 2021, appena tradotto da Einaudi, sembra essersi avvicinato molto di più al romanzo realistico, a quelle ambientazioni di cui parlavo, meno evidentemente di genere, dove lo scarto rispetto alla realtà è molto più sfumato, come succede per esempio in Riaffiorano le terre inabissate di John M. Harrison, uno dei libri più strani e interessanti degli ultimi tempi. Come in quel romanzo, anche qui si affonda lentamente in una storia di cui si hanno pochissimi elementi. L’atmosfera è quella di un thriller che si apre con il mistero di un colibrì imbalsamato ritrovato da Jane, la voce narrante, impiegata di un’azienda informatica, in una cassetta di sicurezza. Ci sono echi lontani di pandemie e disastri ecologici, senza però riferimenti puntuali. E si va avanti alimentati dall’ansia di una scoperta e dallo stringersi di un cerchio intorno a Jane. Colibrì Salamandra è un romanzo che incarna perfettamente lo spirito dei tempi e che rafforza l’idea di un cambiamento radicale della fantascienza: mentre un tempo immaginava futuri più o meno lontani, oggi sembra raccontare con precisione quello che stiamo vivendo. E questo può dirci qualcosa di noi. (Cristiano de Majo)

George Saunders – Un bagno nello stagno sotto la pioggia (Feltrinelli)
Traduzione di Cristiana Mennella 

In un periodo in cui tutto sembra andare storto, non c’è niente di peggio di leggere i saggi di uno scrittore come George Saunders. Così pacato, ottimista, intelligente, motivante e, soprattutto, ancora fermamente convinto che la scrittura sia un «indispensabile strumento etico-morale». Diventato famoso per i suoi racconti e l’ambizioso Lincoln nel Bardo (ne parlavamo qui), da tantissimi anni Saunders insegna scrittura creativa alla Syracuse University. Una volta un suo discorso tenuto agli studenti è stato trasformato in libretto da regalare ad amici e parenti dal titolo L’egoismo è inutile. Elogio della gentilezza (vorrei invitarlo a venire a lavorare a Milano per un po’, forse cambierebbe idea). Qualche anno fa ha pure aperto una newsletter carinissima piena di incoraggiamenti per aspiranti scrittori. La parola scritta non mi è mai sembrata così inutile e priva di una potenza propria come negli ultimi anni: avrei scaraventato questo libro motivazionale a là Carver de Il mestiere di scrivere (maledetto, quanti di noi convinti di essere grandi scrittori per colpa sua) giù dalla finestra, se non fosse per l’analisi illuminante dei sette racconti di immensi autori russi (Turgenev, Tolstoj, Chevov, Gogol’) che riporta integralmente (il primo, Viaggio sul carro, viene addirittura analizzato una pagina alla volta: stupendo). Lezioni di scrittura creativa che non servono solo a chi vuole scrivere ma anche a chi vuole re-imparare a leggere: «In sostanza, osserveremo noi stessi mentre leggiamo», scrive Saunders nell’introduzione, «Perché dovremmo farlo? Be’, la parte della mente che legge un racconto è anche quella che legge il mondo; può ingannarci, ma possiamo anche abituarla a essere precisa; può atrofizzarsi e renderci più permeabili a forze pigre, violente, materialistiche, ma può essere anche risvegliata e trasformarci in lettori della realtà più vigili, curiosi e attivi». (Clara Mazzoleni)

Anne Berest, La cartolina (e/o)
Traduzione di Alberto Bracci Testasecca

In quanti modi si può scrivere, e leggere, ancora, della Shoah? È la prima domanda che mi sono fatto, incuriosito, quando ho letto la sinossi de La cartolina, uscito in Francia nel 2021. Il titolo viene da una cartolina anonima recapitata a casa dell’autrice, con scritti soltanto quattro nomi. Sono quelli dei parenti – due bisnonni e due dei loro tre figli – uccisi dai nazisti ad Auschwitz, dopo essere stati arrestati, in occasioni diverse, in Francia nel 1942. La prima metà del libro risponde in un modo classico alla domanda iniziale: è una storia familiare che Anne Berest ricerca negli archivi di Stato, in vecchie lettere, documenti, fotografie, in associazioni di parenti di vittime, nei racconti della madre Lélia, a sua volta figlia di Myriam, l’unica figlia superstite, riuscita a scappare in tempo da Parigi. Una storia che non può non ricordare quella narrata da Filippo Tuena nelle Variazioni Reinach, direi tra i più originali libri degli ultimi trent’anni di letteratura italiana, un viaggio nel tempo alla ricerca delle tracce di un’altra famiglia di ebrei parigini, anche questi arrivati in Francia da Est come i Rabinovitch della cartolina, anche questi assassinati, tutti o quasi, in Polonia dopo il 1941. Ma Anne Berest non indaga troppo a fondo – a differenza di Tuena, che utilizza il microscopio e un gusto straordinario per i dettagli – le pieghe più intime dei suoi parenti: vuole soltanto conoscere una storia che, scopriamo, ignorava quasi del tutto, a causa della ritrosia a guardarsi indietro della nonna, e quella conseguente della madre. Il libro di Berest cambia, sorprende, colpisce, e dà una risposta nuova alla domanda iniziale dopo la metà: perché diventa un giallo, ora sì delicato, personale e angosciante, alla ricerca dell’autore dell’anonima cartolina, e del movente di quell’invio. Alla ricerca, questa volta anche fisica, paese per paese, casa per casa, delle case un tempo abitate dai Rabinovitch, delle ultime persone che li hanno incontrati, anche di chi comprò i loro beni trafugati dai collaborazionisti. E prende forza, il romanzo, in questo tentativo impossibile e doloroso di ricordare il passato e i fantasmi. Rispondendo alla domanda: si può fare in milioni di modi, tutti diversi e unici, speriamo ancora a lungo. (Davide Coppo)

Bae Myung-hoon, La torre (add editore)
Traduzione di Lia Iovenitti

Beanstalk è la torre che dà il titolo al romanzo di esordio Bae Myung-hoo, uscito nel 2009 in Corea del Sud e recentemente riedito, ora anche in Italia con la traduzione di Lia Iovenitti. Si tratta di un enorme palazzo di 674 piani che ospita 500 mila abitanti, organizzato come una vera e propria nazione indipendente, in lotta con la Cosmomafia e i Paesi limitrofi. La vita dei suoi abitanti si svolge chiaramente in un continuo su e giù, anche se alcuni preferirebbero l’orizzontalità, mentre le frontiere, difficilissime da superare, si trovano tra il ventiduesimo e il venticinquesimo piano: c’è chi però al piano terra non vuole metterci piede – “suolofobia”, si chiama – e chi, tra quelli fuori, guarda la torre e spera un giorno di trovare lavoro lì e potercisi trasferire. Attraverso sei storie connesse fra loro che si posizionano in un tempo indefinito ma stranamente riconoscibile, Bae elabora la sua personalissima critica sociale, mettendo in evidenza le storture e le assurdità della società in cui viviamo. Dalle complicate dinamiche di potere che la governano, e che porteranno dei ricercatori incaricati di studiarle a scoprire che una delle figure più riverite è nientemeno che un cane, alle proteste che pure si tengono all’interno dell’edificio e che dovrebbero essere placate da un elefante un po’ troppo buono e illuminato, fino al ruolo degli ascensori, fondamentali in un piccolo mondo che si sviluppa in verticale, La torre racconta di un futuro bizzarro ma plausibile, che ha molto da dire sul nostro presente. (Silvia Schirinzi)

Gian Marco Griffi, Ferrovie del Messico (Laurana Editore)

Ferrovie del Messico è un multiverso della follia. Ci sono momenti in cui, leggendolo, si perde la consapevolezza di avere in mano un romanzo. La storia comincia ad Asti nel 1944, quando al miliziano della Repubblica Sociale Cesco Magetti viene affidato l’incarico («dall’alto, molto dall’alto») di disegnare una mappa delle Ferrovie del Messico. Sembra quasi un romanzo storico, fino a quando non ci si ritrova improvvisamente dall’altra parte del mondo, in Sudamerica, dieci e anche venti anni indietro nel tempo. Poi di nuovo ad Asti, ad ascoltare Cesco che frigna perché gli fanno male i denti (ossessionato dal dolore come lui solo Zeno Cosini con le sue emicranie) e perché la sua amata non ricambia, lei ama i libri e un partigiano sempre alla ricerca di armi. Ma il multiverso di Griffi è infinito, va dalle Isole Samoa ai campi da golf europei, dai cartografi ai poeti passando per i bambini morti, le ragazzine violentate e lo specchio davanti al quale Hitler si mette in tiro prima di una festa (Eva Braun, al suo fianco, tenta di «dargli un’aggiustata ai baffi con un paio di forbicine da unghie»). È un multiverso di lirismo e ironia, quello di Griffi, il primo sta soprattutto nelle descrizioni e la seconda pervade ogni riga di dialogo. Lirismo e ironia sono ciò che durante la lettura porta a ridere di gusto seguendo criminali di guerra che giocano a golf in mezzo ai cadaveri. Non so, esattamente, che romanzo abbia scritto Griffi. So che lo hanno paragonato a Proust – il titolo è un omaggio allo scrittore francese, che amava giocare in borsa e comprava spesso titoli delle Ferrovie del Messico – e a Pynchon, a Borges e Gadda, a Bolaño e alla sketch comedy. Un multiverso, appunto. (Francesco Gerardi)