Cultura | Libri

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a ottobre in redazione.

Karl Ove Knausgård

Brian Phillips, Le civette impossibili (Adelphi)
Trad. di Francesco Pacifico

Ho conosciuto Brian Phillips, come scrittore, una decina di anni fa, quando scriveva su The Run of Play, un blog di sua proprietà dedicato, principalmente, ad articoli sportivi. Dico articoli sportivi perché l’argomento di fondo era il calcio, ma questo nocciolo calcistico stava, spesso, davvero in fondo all’articolo – in senso di profondità, non di posizionamento nella struttura. Spesso il calcio, per Phillips, era soltanto un punto di partenza per lasciare libera la scrittura.

Dopo che il Bayern allenato da Guardiola, nel maggio 2013, sconfisse il Barcellona, la sua ex squadra , Phillips si inventò una finta e-mail completamente assurda dell’allenatore catalano a Xavi, allora il capitano del Barça, che iniziava così: «Ciao, caro amico, ogni tanto mi dico che il tempo non è altro che il vento che trasporta i semi dei denti di leone. Iniziamo in un posto, un fiore dorato, ma i mesi e gli anni ci conducono dove vorranno». Questa premessa, pur lontana nel tempo, penso dia una vaga idea, o un sentimento, di cosa si può trovare dentro Le civette impossibili. Che è, in fondo, una raccolta di articoli, ma non articoli come siamo abituati a intenderli, e nemmeno reportage.

La lunghezza, poi, non c’entra davvero. Somigliano invece a racconti indipendenti o a piccoli libri, e sono tutti caratterizzati da tre ingredienti in particolare: il primo è la libertà, al limite dell’anarchia, di cui Phillips fa uso. È un’anarchia per cui alcuni giorni passati a seguire una gara di slitte in Alaska si trasformano anche in una lezione di volo, e in cui alla fine il lettore conosce, e si affeziona, a personaggi davvero romanzeschi, ammirando fiumi ghiacciati e imparando a conoscere il meteo delle bufere. Il secondo è il senso di meraviglia: Phillips lo cerca, e in qualche modo lo trova, in ogni viaggio che fa, da Roswell al Giappone, mostrando il mondo non come una piccola palla globalizzata, ma al contrario piena di stranezze e curiosità. Il terzo è l’umorismo, che tiene alto il ritmro lungo tutte le pagine, e ricorda a tratti quello di Geoff Dyer, per citare un altro strano ibrido di giornalista o scrittore recente. (Davide Coppo)

Andrea Gentile, Apparizioni (Nottetempo)
Karl Ove Knausgård, In autunno (Feltrinelli)
Trad. di Margherita Podestà Heir

A ottobre mi è capitato di leggere due libri usciti da poco per certi versi simili, per certi versi opposti. Uno è Apparizioni di Andrea Gentile (Nottetempo); l’altro In autunno di Karl Ove Knausgård (Feltrinelli). Il libro di Gentile è una divagazione letteraria che procede per collegamenti e associazioni di idee. Il tema è quello delle coincidenze e delle “apparizioni” appunto; vette di rivelazione che vengono raggiunte casualmente nel corso di giorni apparentemente insignificanti. L’andamento è circolare, procede per aneddoti, che si legano e vengono spiegati da una ricchissima collezione di citazioni letterarie, scientifiche, artistiche, cinematografiche.

Così come Apparazioni è un libro teso all’accumulazione di indizi, In autunno è costruito sulla sottrazione. Lo stesso Gentile cita Knausgård, riferendo una lezione di scrittura seguita dal norvegese in cui gli viene chiesto dall’insegnante di smetterla di concentrarsi sulla superficie delle cose. Ed è effettivamente questo il traguardo inverosimile di questo libro, parlare con la forma del diario di nulla in particolare e di tutto (di quotidianità, di piccoli accidenti, di famiglia, di noia, di tempi morti, di micro-osservazioni del quotidiano) in modo estremamente profondo. L’insegnamento per il lettore è che, quando ci si trova di fronte alla Scrittura con la s maiuscola, essa può in effetti non raccontare, permettersi di liberarsi dalla dittatura dell’interesse e bastare a se stessa. Quasi con un approccio sapienziale, Gentile cerca di decifrare l’inspiegabile. Knausgård invece rappresenta il mistero attraverso la semplicità. Entrambi i testi ci dicono naturalmente che l’arte di scrivere può essere scovata in testi dove l’affabulazione è qualcosa di più (o meglio: qualcosa di meno) del “ti racconto una storia”. (Cristiano de Majo)

Alice Urciuolo, Adorazione (66thand2nd)

Adorazione è il primo romanzo di Alice Urciuolo, che di mestiere fa la sceneggiatrice e che ha lavorato a una delle serie più interessanti degli ultimi anni, Skam Italia. Per il suo esordio narrativo, la scrittrice ventiseienne ha scelto di raccontare la storia di un gruppo di ragazzi in fondo non troppo dissimili da quelli romani di Skam, se non fosse che i protagonisti di Adorazione vivono a Pontinia, in provincia di Latina, e che oltre alle consuete sfide che l’adolescenza comporta, hanno assistito impotenti all’omicidio di una loro coetanea, uccisa dal fidanzato. La morte di Elena è il filo conduttore delle vite delle giovani protagoniste, Diana che vuole diventare neurologa ma nel frattempo ha scoperto che effetto fanno (sui maschi) i selfie su Instagram, Vanessa che «è bellissima, ma non dice niente» e che ha un fidanzato ricco con il vizio di fare battute sul Duce, Vera che sente la mancanza del padre ma si è costituita l’immagine di ribelle. Attorno a loro si muovono amici, fratelli, genitori, sconosciuti che le contattano in chat. Nel corso della storia l’adorazione, quella dei genitori verso le loro figlie, quella fin troppo reale dei fidanzati e quella fittizia dei social, prende la forma vischiosa della noiosa vita in provincia, dove tutti si conoscono ma nessuno parla, tanto meno di com’è morta Elena. L’adorazione è una melassa di convenzioni che ricopre i rapporti tra maschi e femmine, tra giovani e adulti, e che rende ordinario anche un omicidio. Urciolo racconta, senza morale, una storia molto italiana e lo fa soprattutto con i dialoghi, le chat e i pensieri delle sue ragazze, le quali affrontano da sole un trauma che è collettivo. (Silvia Schirinzi)

Anne Boyer, Non morire (La nave di Teseo)
Trad. di Viola Di Grado

Una settimana dopo il suo quarantunesimo compleanno, la poetessa e saggista Anne Boyer scopre di avere un cancro al seno del tipo più aggressivo. Non morire parla di quest’esperienza, e di cosa significa viverla nei panni di una madre single. Nel migliore dei casi ci si aspetterebbe di trovarsi davanti al solito memoir di questo tipo: crudo e toccante, scritto col solito stile minimale e diretto, un pizzico di pensiero magico (coincidenze, corrispondenze ecc.), un po’ di autoironia, e qualche incursione saggistica. Niente di tutto questo, o meglio, non solo. Come scrive Viola Di Grado, che l’ha tradotto, Non morire (vincitore del premio Pulitzer 2020 per la non-fiction) è un «un libro che striscia come un serpente di saggezza centenaria attraverso i generi, da brillante memoir a intricata prosa poetica», ed è proprio il suo indugiare in quest’ultimo genere il motivo del suo fascino: Boyer non si limita a raccontare l’esperienza della malattia ma si sforza, in quanto poetessa, di esplorare ogni suo aspetto sfruttando tutte le possibilità del linguaggio. E così un’accurata ricerca sull’industria farmaceutica, il sistema sanitario, la “cultura del nastro rosa”, le frodi, i misticismi, le cure naturali, le youtuber che documentano ogni passaggio della loro cura (fino alla morte), e i collegamenti letterari obbligatori (Susan Sontag, Kathy Acker), accostati ad altri esempi meno scontati e quindi più illuminanti, risulta continuamente interrotta dal fraseggiare complesso e sofisticato di una mente che si spreme per restituire la dimensione onirica, oscura, terrorizzata e delirante di un corpo che si ritrova catapultato in un incubo. (Clara Mazzoleni)

Bert Holldobler, Edward Wilson, Le formiche tagliafoglie (Adelphi)
Trad. di Isabella C. Blum

La storia della società civile e magari anche le ipotesi per organizzarla in modi differenti, si annida in certi libri strani, diversi da quelli in cui ti aspetteresti di trovarla. Studiare le formiche per capire il mondo. È questo quello che rimane dopo aver letto Le formiche tagliafoglie di Bert Holldobler ed Edward Wilson – che al loro studio hanno dedicato la vita intera: un’infinita fonte di meraviglia e di riflessione su una specie che è prima di tutto società femminile (proprio come le api), e che si caratterizza per aver inventato una forma di agricoltura 5.060 milioni di anni prima dell’uomo, coltivando nei nidi un fungo con cui ha instaurato uno dei più riusciti rapporti simbiotici in natura. Per un breve periodo, si possono persino vedere queste formiche, che popolano la foresta pluviale amazzonica, volare: è il momento dell’accoppiamento, il “volo matrimoniale”, e al termine il maschio morirà, mentre la regina inizierà a fondare una nuova colonia, scavare nel terreno la sua metropoli sotterranea miracolo architettonico in cui popolazioni di milioni di individui vivranno grazie al suo comando in un elaborato sistema di caste. Leggere l’opera dei due mirmecologi, già noti per il volume del 1997 Formiche. Storia di un’esplorazione scientifica di cui questo libro è una sorta di compendio, vuol dire sentire costantemente il rumore di quelle stridulazioni in sottofondo che strappano, ritagliano con precisione le foglie degli alberi. Una peregrinazione nella loro vita societaria, tra Regina Madre, figlie, maschi in minoranza, allevati solo stagionalmente come fossero dei frutti, e un’altra su quella alimentare dedicata ai funghi, fondamentali per la loro sopravvivenza. Per imparare nuove cose, l’importanza della mutualità e di loro per noi, anche se forse ci hanno sempre inorridito, vanno dappertutto, come in quel lungo racconto di Italo Calvino del 1952, La forma argentina. «Noi non lo sapevamo, delle formiche, quando venimmo a stabilirci qui», diceva il protagonista, «c’erano loro prima di noi». (Corinne Corci)