Cultura | Letteratura

Chi era Kathy Acker?

Nel suo nuovo libro, l'autrice di I love Dick racconta la vita di un'icona della controcultura degli anni '80, oggi quasi dimenticata.

di Clara Mazzoleni

Kathy Acker: forse soprattutto in Italia, difficilmente questo nome dice qualcosa a qualcuno. Eppure, la scrittrice (morta 10 anni fa dopo aver pubblicato una quantità assurda di libri), per un certo periodo della sua vita è riuscita a diventare un’icona della cultura underground inglese e americana (e non solo: ha scritto anche tanti pezzi per testate come il Guardian e Vogue, tra cui spicca un’intervista alle Spice Girls). Un risultato per nulla inaspettato, visto che Acker ha rincorso la fama letteraria per più di un decennio, raccontando balle per migliorare la sua biografia, facendo sesso con un sacco di gente (uomini e donne) della cricca arte/editoria/musica di quegli anni, circolando come un’anima in pena tra New York, San Francisco, San Diego e Londra, nel disperato tentativo di trovare un ambiente che riconoscesse e glorificasse la sua scrittura e la sua persona in generale.

Come scriveva nel suo romanzo in 6 parti The Childlike Life of the Black Tarantula, autopubblicato a puntate nel 1973 inviando le 6 parti a una selezione di 600 indirizzi privati di personalità della scena culturale (nello stesso modo la sua amica Eleanor Antin, artista concettuale, aveva diffuso il suo progetto più celebre, 100 Boots): «Ero interessata alla fama per questi motivi: 1. perché le persone di cui volevo approfondire il lavoro accettassero di parlarne con me, 2. per essere in grado di pagarmi il cibo, l’affitto, ecc. facendo qualcosa che mi interessava, 3. perché così gli artisti di cui mi innamoravo mi avrebbero finalmente scopato».

Nella biografia che le ha dedicato, After Kathy Acker: A Literary Biography, in cui racconta la sua esperienza di vita e analizza approfonditamente il suo lavoro, Chris Kraus ricorda come il mondo dell’arte di quegli anni fosse molto piccolo: tutti erano collegati, se non da legami matrimoniali o di sangue, dal sesso e/o dall’amicizia (infatti, Acker è stata per un certo periodo l’amante di Sylvère Lotringer, il famoso ex di Kraus, suo marito ai tempi di I Love Dick). Com’è evidente dalle sue parole, però, la fama che Acker cercava non era quella della pop star (almeno, non solo), ma la realizzazione del desiderio di essere riconosciuta dai suoi pari, dai quali si è sempre sentita separata per via di alcune esperienze della sua vita.

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Acker arrivava da una ricca famiglia ebrea dell’Upper East Side, dalla quale si allontanò subito (suo padre non era quello biologico, sparito lasciando la fidanzata incinta di 3 mesi), visto che non andava per niente d’accordo con sua madre, che morì suicida quando lei aveva 30 anni (e avevano appena iniziato a ricucire i rapporti). Come racconta Kraus, fece per scelta una vita al limite della povertà, sperando un giorno di guadagnare con la scrittura (non succederà mai: per fortuna alla fine riceverà un’eredità di famiglia e per qualche anno sarà docente universitaria) e, nel frattempo, lavorando come stripper e, prima ancora, recitando insieme al suo fidanzato in un locale porno chiamato Fun City, dove i due dovevano mettere in scena situazioni erotiche e poi scopare in pubblico. Fu questa una delle esperienze importanti e dolorose che più la fece sentire diversa dai suoi colleghi, anche se molte pratiche dell’arte contemporanea di quegli anni erano legate a nuovi modi di sperimentare col sesso, basti pensare all’opera di Vito Acconci in cui l’artista stesso si masturbava in galleria, nascosto in un sottoscala da dove gli spettatori potevano chiaramente sentirlo parlare e ansimare. Il fatto è che lei lo faceva per lavoro.

Spiegando, in un articolo del Guardian, perché ha deciso di scrivere la sua biografia, Kraus racconta di quando, insieme a suo marito, andò a trovare Acker sul letto di morte. Dopo una mastectomia la scrittrice aveva deciso di non curare il cancro opponendosi ai metodi della medicina tradizionale (e scrivendo un articolo, diventato poi abbastanza celebre, per spiegare le sue ragioni). Si era quindi rifugiata in una clinica alternativa di Tijuana. L’idea di Acker, sola e malata, sconvolse Kraus, che in quanto scrittrice e donna come lei, si chiese: «È così che andrà a finire?» L’aveva sempre vista nel suo ambiente ideale, ai reading o in giro per la città, con il suo stile aggressivo come un pugno nell’occhio, circondata da un gruppo di ammiratori impazziti (lei compresa, che la osservava da lontano con «un misto di ammirazione, invidia e ripugnanza»).

La posizione di Kraus nei confronti di Acker è in effetti abbastanza strana, come nota Olivia Laing (un’altra bravissima della nonfiction) in una recensione apparsa sempre sul Guardian. Innanzitutto non si capisce come mai Kraus non dica mai che Lotringer è il suo ex marito: «Sicuramente è la biografa ideale di Acker per molti motivi [leggendo i pipponi contenuti nelle lettere e mail indirizzate da Acker ai suoi poveri amanti, sembra proprio di leggere Kraus, nda]. Ma dato il suo interesse nel rendere visibili le trame nascoste  è sorprendente che non sottolinei la propria relazione con il soggetto».

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Le trame nascoste che Kraus rende visibili, invece, sono i giochi d’identità che Acker metteva in atto. Frugando nei dati e nelle carte, confrontandosi con i suoi amici, leggendo i suoi diari e i suoi libri, Kraus si rende infatti conto di come molte versioni non coincidano e di come la scrittrice si impegnasse a costruire, più o meno consciamente, un’immagine di sé eccentrica e ribelle, ipersessuale e iperintellettuale, il più possibile “mitologizzabile”. Un’insaziabile desiderio di trasgressione è quello che dominò tutti i suoi scritti: trasgressione sessuale e relazionale (pornografia, poliamore, orge) e trasgressione della differenza tra realtà, finzione e furto vero e proprio (nella struttura composita e delirante).

I commenti ai due articoli sul Guardian fanno capire come la vita di Acker abbia la potenza necessaria per essere ancora oggi oggetto di dibattito: chi dice che è una scrittrice importante, sperimentatrice straordinaria, lucida pensatrice e femminista potentissima (per capire l’importanza del suo ruolo è utile questa recensione uscita su Frieze), e chi dice che era soltanto capace di fare amicizia e/o andare a letto con i proprietari delle migliori menti che circolavano in quegli anni (come se questa fosse una capacità meno stimabile!).

Così commenta qualcuno: «Ognuno di questi articoli sembra solo cercare lo shock e seguire i cliché. Acker era sicuramente qualcosa di più che sesso e Bdsm. Non che ci sia niente di sbagliato in queste due cose, ma stare dietro a questi dettagli è un modo di fraintendere una donna che sotto alla superficie dà l’idea di essere un individuo molto complesso». Ecco, quello che fa Kraus è proprio frugare dietro alle mille maschere che Acker scelse di indossare, con la sua persona ma anche con la sua scrittura (basata sull’appropriazionismo coatto – ebbe infatti problemi con un autore a cui aveva fregato una pagina – sul collage e sulla rielaborazione infinita della sua biografia, cosa che non avendo vissuto 100 anni rendeva i suoi libri anche un po’ ripetitivi). La serietà con cui Kraus ha studiato il suo lavoro traspare nel libro: non solo le si dichiara assolutamente debitrice, anche se ora è molto più famosa di lei (sembra sincera), ma adotta delle tecniche formali per creare un’opera biografica che rispecchi la natura composita del lavoro della scrittrice, ad esempio includendo tutte le citazioni in corsivo invece che tra virgolette, come faceva lei quando intervallava parti dei suoi diari a pagine rubate ai romanzi di Charles Dickens (semplicemente trasformando la terza persona in prima).

Con uno sguardo non molto compassionevole, ma complice quando descrive il suo bisogno di autocrearsi nuove identità (che viene definito “la ricerca di una posizione dalla quale scrivere”) Kraus si mette a scandagliare tra i tic dell’opera e dell’esistenza di Acker, ritraendo una vita difficile e singolarissima, ma allo stesso tempo raccontando cosa significava essere un artista in quegli anni (e in certi passaggi, essere un artista sempre), un po’ come ha fatto Carrère nella splendida biografia Philip K. Dick: «La vita di Acker è stata una favola», dice sul Guardian, «e descrivere la confusione e l’amore in conflitto dentro a quelle memorie significa abbozzare un’allegoria apocrifa di una vita d’artista nel tardo Ventunesimo “È a partire dalle ragazze che inizia la storia”, scrive Acker nel suo ultimo quaderno di appunti. E come in altre vite, forse non in molte favole, lei ha creato la sua come poteva, anche se spesso non ha potuto controllarla».