Cultura

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a maggio in redazione.

di Aa.Vv.

Un disegno di Opicino de Canistris (1296-1352)

Sylvain Piron, Dialettica del mostro (Adelphi)
Trad. di Angela Guidi Nissim

Nell’ultimo mese mi sono trovato davanti a tre saggi Adelphi, usciti quasi tutti insieme, con la voglia di leggere tutti e tre: Uomo diventa lupo di Robert Eisler (un testo di antropologia tratto da una serie di conferenze che cerca di dimostrare come la natura umana delle origini non fosse esattamente “cattiva” o animalesca, come vuole la tradizione, ma lo è diventata); La mente del corvo, un saggio di oltre 500 pagine sui corvi, terza uscita della collana Animalia; infine Dialettica del mostro di Sylvain Piron, un preziosissimo libro grafico che ricostruisce vita e opere di un curioso e misterioso personaggio del Medioevo, Opicino de Canistris. 

La bellezza dei saggi sta anche nel fatto che temi a cui non pensavi di essere minimamente interessato ti sembrano all’improvviso cose da cui non puoi tenerti lontano (e questo grazie anche alla cura che Adelphi mette in questi oggetti, a cominciare dalle copertine che sono bellissime in tutti e tre i casi). Alla fine sono sprofondato soprattutto nei disegni di Opicino, questo religioso del Trecento, che ci ha lasciato una serie di tavole al confine tra follia e visione, in cui con sullo sfondo di mappe geografiche più o meno immaginarie si sovrappongono incubi mistici ed erotici. Un libro che, se non fosse frutto di una meticolosa e tradiva opera di riscoperta, nella quale fu coinvolto anche il circolo di Aby Warburg, sembrerebbe un’opera di cartografia fantastica. Accanto alle immagini, decifrate nei minimi particolari, scorre la storia di questa formidabile scoperta artistica e, in mezzo, la vita di questo uomo di inizio Trecento, così lontana dalla nostra dimensione esistenziale, che la vertigine provocata circa 700 anni dopo dalle sue opere spontanee e diaristiche risulta ancora più misteriosa. (Cristiano de Majo)

Kristen Roupenian, Cat Person (Einaudi Stile Libero)
Trad. di Cristiana Mennella, Gianni Pannofino, Maurizia Balmelli

Quando è uscito Cat Person ho screenshottato il mio passaggio preferito (quando lei pensa di rispondere alla stupida domanda di lui «E ora cosa dovremmo fare?» con un secco «Ucciderci») e l’ho postato sui social, perché il modo in cui quella storia era scritta riusciva laddove la maggior parte dei racconti che analizzano le relazioni fra umani falliscono, e cioè cogliere il banale, il è-successo-anche-a-me, ah-è-proprio-così. La prosa analitica di Kristen Roupenian ha la capacità quasi fastidiosa di imbottigliarsi nel flusso di pensieri dei suoi personaggi e di renderne tutti i suoi lettori partecipi, anzi complici, giustificando frase dopo frase, pensiero dopo pensiero, le incongruenze, le ipocrisie, i fraintendimenti e i piccoli orrori di cui anche la persona più innocua può macchiarsi. Cat Person parla di una notte di cattivo sesso, di un incastro mancato tra due persone che sarebbero state molto meglio se non si fossero mai conosciute ma non nel senso di una relazione sbagliata, piuttosto in quello della sgradevole scocciatura che, a ripensarci bene, poteva essere facilmente evitata. Gli altri racconti di questa prima raccolta – che inglese si intitola non a caso You Know You Want This – vanno oltre quella ricerca del banale e spingono il desiderio (sessuale, di affermazione sociale, di affetto) fino all’epilogo horror, con mamme e figlie che uccidono le fidanzate del padre durante innocenti giochi infantili, bambine demoni che tormentano e allo stesso tempo salvano giovani affetti dal complesso del “white saviour”, coppie anaffettive che si trasmettono parassiti invisibili, uomini depressi e stralunati che collezionano inquietanti appuntamenti su Tinder. Personaggi impossibili, odiosi, che Roupenian rende così reali da farci immedesimare nella loro logica ripugnante. Come ha detto qui su Studio, è frustrante per lei che le sue storie, a causa del successo di Cat Person, siano percepite come “autobiografiche”: lei d’altra parte ce la mette tutta per «rendere invisibili la tecnica e l’impegno che ci sono dietro, presentarle come verosimili perfino quando compaiono mostri o omicidi». Che è come dire che è colpa nostra che certe cose non le vediamo e il suo lavoro è ricordarcele, per quanto schifo ci possano fare. (Silvia Schirinzi)

Roberto Bolaño, La pista di ghiaccio (Adelphi)
Trad. di Ilide Carmingnani

Ho avuto un rapporto di dipendenza dalla letteratura di Roberto Bolaño per anni, una di quelle dipendenze letterarie che molti lettori avranno sperimentato nel corso della vita: il primo libro innescò un circolo che mi portò, per un certo periodo, a leggere solamente libri dello stesso autore. Finiti quelli in lingua italiana, sono andato a recuperare quelli in spagnolo non ancora editi in Italia, le raccolte di interviste. Terminati anche quelli, rimasi orfano e per un certo periodo vagai per gli scaffali in modo confuso, senza riuscire ad appassionarmi a nulla di particolare. Passarono anni. Poi quando, non troppo tempo fa, uscì Puttane assassine per Adelphi – l’avevo letto in spagnolo, nell’edizione di Anagrama – lo approcciai e lo rifiutai. Le pagine non scorrevano, lo abbandonai immediatamente, stupito della fatica con cui leggevo un autore che avevo, un tempo, divorato. Succede? Non ne ho mai parlato, credo, ma immagino di sì, con altri autori capaci di creare culti come Roth, DeLillo, Carrère. È come lo schifo delle sigarette quando si è riusciti a smettere da anni? Qualsiasi cosa fosse successa, La pista di ghiaccio l’ha risolta: è il terzo romanzo di Bolaño ma non è una bozza, è anzi più solido e completo di altre opere che considero minori e imperfette (Amuleto, Monsieur Pain soprattutto), è estremamente bolañesco ma allo stesso tempo ha una struttura nuova e originale rispetto al resto della sua opera: tre personaggi – due cileni, un politico catalano – si dividono le pagine con il sistema della confessione incrociata per raccontare lo scenario e la loro versione degli eventi che circondano un misterioso delitto. E la magia è che il delitto si perde sullo sfondo, e ci si concentra sull’amore dei protagonisti per la pattinatrice Nuria o per la strana Caridad, e le disavventure che questi amori portano. Il riassunto migliore lo fece Bolaño stesso: «Parlo della bellezza, che dura poco e finisce quasi sempre in modo disastroso». (Davide Coppo)

Jonathan Bazzi, Febbre – (Fandango)

Ci sono bambini che grazie ai loro genitori imparano tante cose: sulla musica, sull’arte, sulla letteratura, sul cinema, sulla politica, ecc. E poi ci sono bambini che per sfamare uno strano desiderio di sapere, nato da chissà dove, devono rivolgersi all’esterno, fuori dalla loro casa. Tra i primi libri che ho amato ci sono quelli della collana Frontiere delle Edizioni EL: li leggevo di nascosto in biblioteca (c’era scritto +14 ma io avevo 10 o 11 anni). Parlavano soprattutto e quasi esclusivamente di droga, sesso, morte e malattia, tutti argomenti di cui ero misteriosamente ossessionata. Tempo fa, grazie a un trasloco, mi sono ritrovata in mano il mio preferito, l’unico che possiedo ancora (Polvere bianca di Linda Glovach – confesso, bilblioteca di Galbiate: l’ho rubato io). Leggendo Febbre, l’esordio di Jonathan Bazzi, ho rivissuto le emozioni forti di un momento della vita in cui leggere non era un passatempo (o peggio, come mi capita adesso, un’auto-imposizione) ma un’esigenza. Con una differenza, però. Febbre non è un libro per adolescenti, non è nemmeno un libro per adulti: è un libro scritto da dio. Una vita vera – dall’infanzia a Rozzano (“la terra di Fedez e di Mahmood”) alla recente scoperta (3 anni fa, a 31 anni) di aver contratto l’HIV – raccontata come un romanzo. Un’autobiografia scritta col contagocce, dove l’unicità delle parole corrisponde all’unicità dello sguardo. Abituato a essere sbagliato ovunque – troppo milanese per Rozzano (gay, colto, maestro di yoga) e troppo rozzanese per Milano (cresciuto a Rozzano, figlio di ragazza madre senza un soldo, emotivo, generoso) – il personaggio Jonathan Bazzi (e forse anche lo scrittore, chissà), ha imparato a rinunciare all’approvazione “degli altri” e ha scritto un libro oggettivamente impeccabile, praticamente impossibile da criticare (è uscito il 9 maggio ed è già in ristampa). (Clara Mazzoleni)