Emmanuel Carrère è anche un formidabile giornalista («io mi definisco reporter», diceva non a caso già durante una presentazione milanese del 2015). È un dato semplice, qualcuno obietterà persino scontato, ma di una rilevanza indispensabile nelle pagine in cui parla con i suoi amici intellettuali rumeni per preparare il suo viaggio sui luoghi di Dracula, fra le righe del suo ritratto di Alan Turing e nelle metafore con cui descrive gli scenari dei quattro giorni passati a Davos, nel cuore del potere economico universale. Con la frase de I Ching scelta da Adelphi per titolare Propizio è avere ove recarsi, la cristologizzazione dell’autore francese è completa, e leggendo questo zibaldone di riflessioni, turbamenti, reportage, appunti, articoli e piccole biografie i suoi adepti possono approfondirne il mistero sacro, traendone conferme alla consapevolezza di avere a che fare con un narratore geniale e appassionato, anche quando prova a mostrarsi distaccato. Dopo aver letto questo libro, sono sempre più convinto che la forza più cristallina della scrittura di Carrère vada ricercata nelle sue tormentate cronache dei processi per omicidio (qui, peraltro, si legge il complesso viatico letterario ed emotivo che l’ha portato a pubblicare L’avversario): genitori dagli sguardi spenti, nuclei familiari infranti, immedesimazioni controverse. Lo stesso scrittore ci rivela che la moglie Hélene ha avuto modo di definirle «un po’ cattoliche», ma credo che il loro valore aggiunto risieda in quella stessa definizione. D’altronde, la sua trasposizione della vicenda di Jean-Claude Romand è entrata a buon diritto nella storia della letteratura perché, decidendosi a raccontarla, Carrère ha pensato che «non poteva essere altro che un crimine o una preghiera». (Davide Piacenza)
Hisham Matar – Il ritorno (Einaudi) trad. Anna Nadotti
Chicago mi fece capire che cosa era l’America meglio di quanto avrebbe fatto una delle città più piccole. Quel misto tra l’essere nel medesimo tempo molto moderni e progrediti e molto provinciali è la nostra specialità. Aggiungiamoci la consapevolezza che tanta parte della nostra prosperità dipende dal lavoro sottopagato: erano gli immigrati e i neri a far girare Chicago. Mi piaceva l’anarchia della città. C’erano bettole e night con spogliarello a pochi isolati dal monumentale Art Institute e dagli hotel di lusso. Chicago era il robivecchi di tutte le contraddizioni esistenti in America. Certe rugginose cisterne dell’acqua sul tetto di un vecchio magazzino sembravano belle quanto lemeraviglie architettoniche del lungolago. Se volevi apprezzare la città, dovevi rivedere tutte le tue convinzioni estetiche. I miei migliori maestri in fatto di arte e di letteratura furono le strade che percorrevo nei miei giri per la città.
E vide se stesso, sulla croce della culla e della bara, mentre con fatica si contraeva ancora un’ultima volta, per poi ritrovarsi, in virtù di un ordine perentorio e ineluttabile, completamente nudo – senza alcun segno di distinzione o d’identificazione – nelle mani dei beccamorti, tra i ghigni di quegli indaffarati scuoiatori di cadaveri, dove non poteva non cogliere la misura di tutte le cose umane, senza un’ombra di pietà, senza che ci fosse anche un solo sentiero a riportarlo indietro, perché a quel punto sarebbe stato ormai consapevole del fatto che aveva sempre giocato con bari contro cui non era possibile vincere, essendo tutte le carte del gioco predeterminate: si trattava di una partita truccata alla fine della quale sarebbe stato privato anche dell’ultima su arma, la speranza, la speranza di poter un giorno ritrovare la strada di casa.
Immagine Getty Images.
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