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Hammamet: quello che c’è e quello che manca

Il film di Gianni Amelio si tiene a distanza dalla rivisitazione politica e in equilibrio tra le opposte tifoserie.

09 Gennaio 2020

Se eravate stanchi del dibattito sul Checco Zalone razzista o di quello su Rula Jebreal novella Rosa Luxemburg e Rita Pavone considerata praticamente Eva Braun, tranquilli: da oggi per voi ce n’è pronto subito un altro, dal gusto un po’ più vintage, quello sul film su Craxi. Esce oggi (430 sale), ieri ci sono state le presentazioni a Roma e Milano e da mezzogiorno e mezzo, al termine delle due ore di proiezione, già erano fuochi d’artificio, con il regista Amelio che in conferenza stampa gridava contro Barbacetto del Fatto (Gianni contro Gianni): l’accusa era quella di aver scritto della pellicola prima dell’uscita sostenendo, in sintesi, che questo Hammamet è un film contro Mani Pulite. «Lei e il suo giornale! – ha gridato con il dito puntato e trattenendo la rabbia – fate cattiva informazione!». È chiaro che se la giornata parte così a mezzogiorno, il resto, poi, è solo popcorn.

Per non farla lunga, il tema insomma è questo: il film racconta gli ultimi sei mesi di Craxi nella leggendaria località tunisina. Tutti erano alla finestra: la tesi sarà quella dell’esule o quella del latitante? Nessuna delle due: Amelio ha parlato di «un film che si accosti con pietas alla decadenza» e la curva ultras ha fatto subito buuuuu: una roba da cinefili, insomma, una cosa quasi letteraria con Craxi triste solitario y final. Niente riabilitazioni in vista, dunque, niente assoluzioni, niente condanne (quelle le aveva già di suo: due definitive, due in appello e una annullata dalla Cassazione).

Ma in un Paese dove all’ordine del giorno c’è il referendum sul taglio dei parlamentari ci si poteva accontentare di un film – del primo film importante – su Craxi senza ri-indossare le maglie delle due squadre anni Novanta dei pro e dei contro (che fanno sentire anche tutti un po’ più giovani e smart)? No, e infatti è stata subito battaglia.

«Scatta l’ora legale, panico tra i socialisti»

(Titolo di Cuore, 30 marzo 1991)

La tesi che si porta di più è questa: prima si fa la premessa su Favino, «bravissimo», «oh, è identico!» (l’ha detto anche il cognato di Craxi ed ex sindaco di Milano, Pillitteri), «merita l’Oscar!» (come se all’Academy sapessero come teneva gli occhiali il leader del Psi, ma invece chissà, magari, speriamo). Poi si storce il naso sul film: «È un po’ a metà, non si capisce bene cosa vuol essere».

Tutti speravano nella presa di posizione divisiva: santo o brigante, statista o ladrone, e invece è tanto metaforico: il tesoriere senza nome, il politico democristiano senza nome (in realtà a trovarlo ci andò davvero Cossiga), la figlia con il nome diverso (Anita, come Garibaldi, grande fissa vera di Craxi, che torna più volte nel film). C’è il finale felliniano, ci sono le musiche di Nicola Piovani (belle), ci sono un po’ di battute efficaci («L’ intelligenza la preferisco, che te ne fai della lealtà di uno stupido?», «solo i politici mediocri rispondono davvero alle domande»). Insomma, ci sono un sacco di cose, ma non c’è il sangue (se non quello della gamba in cancrena: «un foruncolo» la definì invece Di Pietro, ricorda oggi Mario Ajello su Messaggero, giusto per far capire che tempi erano), non c’è lo schierarsi, non c’è il tifo. Il povero Amelio l’ha detto e ridetto, l’ha spiegato che a lui non interessava quello, si è pure “discolpato”: «Mai votato socialista», ma niente.

Memore della conferenza stampa di ieri il buongiorno di oggi è arrivato subito con l’editoriale di Marco Travaglio: «Lasciatelo riposare in pace, che è meglio», e vabbè, era prevedibile, si sapeva. Meno prevedibile Filippo Facci: «Un film che non serve a un cazzo, da seccare un fan di Tarkosvky». E il giudizio di Facci non è un giudizio come gli altri: lui era il cronista dell’Avanti!, il giornale del partito, negli anni di tangentopoli, stava ore al telefono con Craxi, e ad Hammamet ci è pure andato quattro o cinque volte. Insomma, non è piaciuto né agli uni né agli altri, sembrerebbe, nonostante i critici cinematografici di Corriere e Repubblica diano delle incoraggianti due stelline e mezzo barra tre.

«Ad Hammamet persino il vino vien giù dai rubinetti»

(Paolo Rossi, “Ad Hammamet”, 1994)

«Eccolo il passo avanti, lento e faticoso, vent’anni dopo, verso la progressiva sottrazione di Craxi dalla dimensione mostruosa, livorosa, cancerosa nell’anima in cui era stato relegato negli anni di Mani Pulite», prova a fare una sintesi Mattia Feltri, con lungimiranza e ottimismo. Ma questo passo è appunto lento e faticoso, soprattutto in un contesto di guelfi e ghibellini, e se ancora stiamo a discutere della Resistenza 80 anni dopo, figuriamoci di Craxi. Poi c’è il gruppo di turisti un po’ truzzi che riconoscono Craxi ad Hammamet e che gli gridano «ladro» mentre lui si difende con orgoglio e retorica: oggi ‘sti turisti assalitori cosa voteranno? Cinque Stelle? Saranno ecologisti alla Fioramonti? Il partito di Conte? Solo per capire questo bisognerebbe farci un altro film.

Infine spiace per la mancanza di luoghi altri che non siano spiagge e suq tunisini: Milano nel film è una dimensione onirica, è la sua Itaca dove non riesce a tornare, quindi è normale che non ci sia. Ma Roma! Neanche un po’ di soddisfazione… Non c’è il leggendario palazzo di Via del Corso 476, proprietà Inps, che ai tempi d’oro ospitava sino a 180 funzionari. E soprattutto non c’è – anche se aleggia – il Raphael delle monetine: sarebbe stato bello rivederlo com’era, come ce lo ricordavamo leggendone dai retroscena, con la suite al sesto piano con terrazza su tre livelli tra le cupole, la collezione di ceramiche di Picasso e i Mirò e i De Chirico appesi, Prima Repubblica in purezza. Oggi invece è diventato “Biohotel Organic” e al posto della suite c’è il ristorante “ecologico” Mater Terrae. Chissà se Bettino, che nel film ruba pure dai piatti degli altri (scherzandoci pure su: «Ecco il magna magna della politica»), avrebbe apprezzato.

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