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Guido Maria Brera e il Candido che diventa rider

Intervista allo scrittore che insieme al collettivo i Diavoli ha reintepretato il classico di Voltaire calandolo nella contemporaneità.

di Leonardo G. Luccone

Guido Maria Brera. Foto di Umberto Nicoletti

Immaginate una metropoli comandata da Voltaire, «il social network indispensabile per fare qualsiasi cosa». A dargli voce è Pangloss, che «tutto vede e prevede»; ti scruta dai maxischermi montati sulle facciate dei palazzi, centinaia di repliche che distribuiscono comandamenti inappellabili. Voltaire «misura in tempo reale le variazioni di serotonina […] e la mantiene sempre a un livello adeguato attraverso l’eterna oscillazione tra gratificazione e castigo, dolore e ricompensa». Questo è il nostro mondo domani, o «tra cinque minuti», il passetto in avanti del capitalismo della sorveglianza, la nuova società che sta cancellando il tempo e l’individuo a colpi di libertà standardizzata. Questa è la vittoria delle multinazionali che hanno sostituito con il game la linfa del lavoro: l’algoritmo pervade le vite e giudica le prestazioni, dispensando a suon di crediti benefici ai migliori, e punendo i peggiori. Del gioco non c’è nulla, tutto è competizione, fino al parossismo delle Olimpiadi aziendali, tanto per esacerbare la rivalità e «stimolare il desiderio di scannarsi a vicenda». Una lotteria di Babilonia obbligatoria e necessaria per il perdurare del sistema.

Guido Maria Brera e il collettivo I Diavoli hanno riscritto il capolavoro di Voltaire: Candido stavolta è un rider, un invisibile, un escluso che non ha capito di esserlo, convinto di vivere nel «migliore dei mondi possibili». All’inizio non si accorge di nulla, «immerso nella sua realtà parallela»; è un uomo start-up nel capitalismo delle piattaforme, un giubilante sottomesso alla sovranità dell’algoritmo. Spende i suoi crediti ricreativi per intrattenersi con Cunegonda, e il massimo della gioia lo prova quando lei si materializza olograficamente nella sua stanza. Ogni tanto ha un glitch, un’interruzione del flusso di sistema, e per un attimo spalanca gli occhi.

Solo alla fine si rende conto che «la felicità è un momento del reale da acchiappare e stringere più forte che si può», e capisce che bisogna disobbedire a Voltaire, sottrarsi, come faceva Bartleby lo scrivano. La città finalmente gli appare per quello che è: «Un simulacro di violenza e sfruttamento». E così Candido rifiuta il meccanismo, compiendo «il primo passo per cambiare il mondo e crearne uno diverso». «Nessuno può essere pienamente felice finché gli altri continuano a essere infelici. Non può esistere nessuna isola di gioia in mezzo a un oceano di crimini e di orrore» scrive Manuel Scorza in La danza immobile, uno dei libri preferiti di Guido Maria Brera, e queste parole potrebbero essere il motto di vita di questo umanissimo investment officer convertito all’umanesimo che ha scommesso su La nave di Teseo e recentemente su Chora, una delle più interessanti piattaforme di podcast in Italia. Brera è intenzionato a portare avanti la lezione di Federico Caffè, il suo nume, e ha l’energia e il coraggio di chi si è fatto da solo.

Vorrei iniziare con una riflessione sulle sinistre occidentali. Si può dire che si siano innamorate della tecnologia e abbiano permesso a certe multinazionali e a certi soggetti di incunearsi nelle falle legislative: ecco Amazon, ecco i rider?

Un po’ per errore strategico, un po’ per una serie di altri motivi, la sinistra ha visto nella tecnologia un mezzo per democratizzare il mondo; guarda come sono partite le primavere arabe e ancora prima la narrativa del World is Flat («il mondo livellato» di Thomas L. Friedman). Ritenevano che una tecnologia governata da privati potesse portare progresso per tutti, ma è stata una grande illusione, anzi una colossale bugia, e le sinistre non se ne sono proprio accorte, almeno voglio pensarlo, ma è anche vero che alcuni ci hanno giocato con questa situazione. Da lì nasce Trump, da lì cominciano a rafforzarsi le istanze populiste.
 

Il super potere di Bezos che invade ogni ambito, la pervasione della sorveglianza di Google, Facebook, Instagram, immagino che tu abbia scelto di partire dall’ottimismo cieco di Candido perché tu stesso sei stato molto critico con l’ondata di Clinton e Blair, da molti salutata come un periodo positivo per le sinistre. È così?

Voglio precisare che io mi riferisco a tutte le sinistre occidentali, e non solo all’Italia. La mia analisi politica è questa: quando cade il Muro finisce il secolo breve dove imperava la narrativa di Thatcher e Reagan, un paradigma di governo concentrato sull’individuo e non sulla società. A quel punto la sinistra ha pensato bene di allearsi con il grande centro: si è fatta ammaliare dalla politica economica dei monetaristi nel tentativo di combattere l’inflazione e migliorare produttività e competitività. È così che nasce l’estremismo di centro che ha governato l’Occidente negli ultimi trent’anni.

Pensi che stare troppo al potere abbia fatto male alla sinistra?

Direi di sì. Le sinistre sono state dominate da un pensiero unico: riforme, competitività sfrenata, da una parte; e dall’altra, prestiti a tutti per comprare qualunque cosa. Questa è solo «illusione di ricchezza». Non hanno visto il malcontento che piano piano cresceva e sono andate avanti nella chimera di avere il mondo piatto, senza dislivelli economici e finanziari. Solo che dalla grande illusione si è passati alla rabbia – pensa ai Vaffa Day post Lehman Brothers – poi alla nostalgia. È lo stesso percorso che c’è nel nostro Candido, e in fondo sono le tre componenti che abbiamo tutti dentro: l’illusione, la nostalgia, la rabbia.

Mi sembra che tu voglia tenerti lontano dalla rabbia…

Ci si fa poco con la rabbia. Con Candido abbiamo voluto mostrare che c’è un quarto momento: la conoscenza, e la conoscenza deve essere condivisa. Bisogna collettivizzare tutto il bene ottenuto negli ultimi trent’anni. 

E come si fa? Pensi a un’attualizzazione del modello di Adriano Olivetti?

È proprio lì che volevamo arrivare con il Candido. Se ci pensi Olivetti è l’opposto delle piattaforme di oggi. A me spesso dicono: «Ma come, tu lavori facendo investimenti, speculando in borsa, e ora ti metti a criticare il capitalismo!» La verità è che io attacco la parte negativa di questo mondo: quella che permette a una società di aprire la sede in un posto e pagare le tasse in un altro; di andarsi a prendere i lavoratori dove costano meno. Questi comportamenti non ci sono ancora sui libri di Storia economica, anzi, vengono giustificati con l’idea di puntare a un mondo perfetto con uguali condizioni per tutti. Lo mostriamo chiaramente in Candido. Viviamo in un mondo dove il capitale è messo nelle migliori condizioni per proliferare, ma non può essere così: questa è la legge della giungla.

Perché il tuo Candido è così miope? Tutti attorno a lui vedono, perfino la madre; la realtà corrotta ce l’ha davanti, i colleghi gli urlano di aprire gli occhi e lui non vede.

Anche noi siamo così, se ci pensi. Candido siamo noi, Candido è la sinistra che non vede. Abbiamo scritto Candido perché volevamo raccontare le sinistre occidentali dal periodo pre-Lehman, l’indebitamento per mantenere lo stesso livello di vita che la globalizzazione stava erodendo. Candido non vede perché gliel’hanno raccontata bene. Non vede perché ha una componente di ottusità.

Se non fossi stato immerso nella finanza fino al collo, avresti avuto la capacità di descrivere il mondo dei Diavoli e di Candido come hai fatto, e soprattutto imbarcarti in investimenti come La nave di Teseo e Chora?

No. Ho studiato il dispositivo molto bene. È di questi giorni la notizia che alcuni fondi si rifiutano di investire in Deliveroo, che nel frattempo si sta quotando in borsa. Io sono arrivato prima. Queste realtà le ho viste nascere, so come funzionano: tassi di interesse bassissimo, indebitamento elevatissimo, governi deboli, forti lobby, maglie legislative in cui infilarsi. Non pago le tasse e non pago i lavoratori. Ma che razza di investimento è? Posso dire una parolaccia? Vaffanculo.

È vero che il tuo affacciarti ai mestieri creativi non è stato incoraggiante?

Sì. Avevo scritto una sceneggiatura sul crac di una banca internazionale, ma purtroppo successe per davvero con il fallimento della Lehman. Incontrai Giancarlo Leone che mi scoraggiò: «Questo si chiama recentismo, che lo fai a fare». «Sì, ma io l’ho scritta due anni prima». Fu bravo il mio agente, Antonangeli, a dirmi: «Qual è la tua prossima idea?» Io risposi senza pensare: «Secondo me sarà uno Stato a fallire». È nato tutto da lì. Ho riadattato quello che avevo e ho scritto un libro, poi le cose sono andate abbastanza veloci. Questa specie di preveggenza ce l’ho dentro. L’idea di scrivere di un rider ci è venuta in mente quattro anni fa. La scrittura ci ha messo a dura prova. Non sapevamo se scriverlo tutto come il Candido di Voltaire o no. Alla fine abbiamo usato Voltaire per le prime cento pagine, poi è diventato un romanzo realista.

Nei Diavoli ti sei messo in gioco tantissimo, attingendo alla tua biografia. Con Candido eravate un team, come è andata la scrittura?

Sono soddisfatto perché è venuto fuori un modo di lavorare collettivo orizzontale. Tante mani di vernice una sull’altra. Avevamo paura che ci avrebbero letto quattro gatti e per fortuna non è così. Volevamo portare questo messaggio in un contesto mainstream. È stato un progetto folle: è una riscrittura filologica di Voltaire. Per me è un risultato eccezionale, siamo veramente contenti. Ci ripaga di tanti pregiudizi. Ci ripaga del grande lavoro fatto.  Quando le cose le racconti bene arrivano, e a noi sono arrivate direttamente dai rider. La nostra forza è stare sulle orme del futuro. Era già successo con il finale dei Diavoli. Ho immaginato la Francia che protestava quattro anni prima dei gilet gialli; ho immaginato il fallimento di una grande banca, e in Italia ci siamo andati vicino con il Monte dei Paschi di Siena. Con La fine del tempo abbiamo raccontato Federico Caffè e ora è su tutte le prime pagine, considerato uno dei maestri, anche di Mario Draghi, e con lui Keynes e il keynesianesimo. Sto dando tutto me stesso per la promozione di questo libro, sto facendo discorsi che non avrei fatto per altri prodotti. Sto lavorando molto con il collettivo perché penso che in Italia serva un laboratorio di pensieri di questo tipo. Il fatto di aver ristampato dopo quattro gironi ci dà speranza. 

Quanta della vostra indignazione civile è finita dentro il libro?

Sui rider abbiamo fatto un lavoro di ascolto. Abbiamo raccolto molte storie allucinanti. Eravamo sbigottiti. Quando a fine febbraio il procuratore di Milano Francesco Greco li ha definiti «schiavi dell’algoritmo» è stata una vittoria, ma io voglio andarci ancora più pesante: sono schiavi dell’intera società.

Quanti anni ha Candido? Te lo chiedo perché in certe pagine mi sembra un ventenne, in altre un cinquantenne mai cresciuto.

Mi sarebbe piaciuto vederlo nascere nel 1989, perché è una data simbolica.

C’è un meccanismo di restituzione nel tuo agire?

Voglio essere crudo: ci tengo a distinguere tra restituzione privata e restituzione pubblica. Con quella privata ci faccio i conti tutti i giorni; quella pubblica per me è cercare di dare a tutti la cassetta degli attrezzi. Mi auguro che ci sia una componente di restituzione in tutti noi; io ci provo, una volta vinco, una volta perdo. Ho bisogno della scrittura perché voglio raccontare come dovrebbero andare le cose in un mondo normale, un mondo dove le aziende pagano i lavoratori, dove la finanza non può scommettere sul fallimento di un Paese. Voglio che tutti abbiano la stessa possibilità di farcela, come in fondo è stato per me. Se questo è restituzione, allora sì.

E tu come ce l’hai fatta?

Ho frequentato l’università pubblica e poi sono entrato in un mondo molto meritocratico dove vinceva chi aveva le idee migliori. In finanza puoi essere raccomandato, avere il triplo cognome, ma se fai male non vai avanti, specie a Londra, dove ho iniziato seduto su una pila di elenchi telefonici perché non avevamo nemmeno le sedie. Alla Fineco, il mio primo lavoro dopo la laurea, guadagnavo un milione di lire al mese ed ero l’ultimo degli ultimi, ma proprio questo dovermi conquistare tutto mi ha aiutato a crescere velocemente.

Due o tre generazioni fa se ti facevi un mazzo così, se avevi idee, talento, potevi emergere – parlo di un trend, non di casi isolati. Dal ritratto che emerge in Candido e da ciò che abbiamo di fronte, oggi una persona di talento senza santi in paradiso ha buone possibilità di venire inghiottita dal sistema.

Io stesso ora non ce la farei. Vengo da una famiglia normale, mi alzavo alle cinque di mattina per andare a seguire le lezioni alla Sapienza. Nessuna storia di piccola fiammiferaia. Avevamo perfino una casa al mare e una in campagna. Mio padre era funzionario di banca: guadagnava forse tre milioni di lire. Siccome avevamo solo il suo stipendio, dovevamo stare attenti a tutto: se volevo una maglietta, tornavo a casa, lo dicevo, ne parlavamo e forse a fine mese me la compravano. Ma non eravamo una famiglia umile, lo ripeto, avevamo degli agi. Eravamo la tipica classe media, che in Italia è sempre stata piuttosto espansa. Ma non avevamo di certo i soldi per fare un’impresa. Zero.

E quando ti sei messo a fare l’imprenditore, loro come l’hanno presa?

Malissimo. Pensa che non gli ho nemmeno detto che mi ero laureato, e in questo ho sbagliato perché gli ho tolto una grande soddisfazione. Quando mi sono licenziato da più giovane dirigente di banca (la Warburg), con una carriera molto promettente davanti – ricordo ancora quando mi diedero la macchina, una Bmw Z3, una cosa pazzesca! – i miei mi hanno dato del folle. E forse folle lo ero davvero: stavo andando a Londra per sostenere un esame molto difficile per la gestione dei capitali. Se venivi bocciato non potevi più ripresentarti, mai più. 

Su cosa sei concentrato ora?

Su Chora. Sto lavorando moltissimo con Mario Gianani e Mario Calabresi. Ho la fortuna di avere compagni di viaggio eccezionali. Stiamo dedicando tanto tempo a questa forma di racconto che è il podcast. I Diavoli sono dentro. Credo che i nuovi produttori di contenuti debbano avere una factory interna, ritengo che sia l’unica barriera contro l’arrembaggio dei competitor. Devi avere dentro di te quelli che producono il contenuto, non puoi sempre prenderlo da fuori altrimenti non hai anima. I creativi devi averli dentro, e ben incardinati. Questa è la forza di Chora.

Qual è il prossimo sogno da realizzare?

Voglio che Chora diventi la libreria con cui finisce Candido – un’autentica fabbrica della conoscenza, e credo che con Gianani e Calabresi ce la faremo.