Attualità

La guida al Medio Oriente del 2014

Un vademecum per prepararsi a seguire le vicende mediorientali dell'anno appena iniziato, dalla polveriera egiziana alla difficile questione arabo-israeliana, passando per la guerra in Siria e la Turchia di Erdogan.

di Anna Momigliano

Il 2014 sarà un anno denso di eventi per il Medio Oriente. Da un lato tira un’aria di restaurazione, in netto contrasto con le primavere arabe del 2011. In Egitto, soprattutto, dove la nuova giunta militare sta riportando il paese ai tempi di Mubarak, ma anche in Siria, dove alcuni analisti ritengono Assad abbia buone possibilità di restare al potere. Ma il 2014 rischia anche di essere l’anno in cui la guerra civile siriana contagerà definitivamente i paesi vicini – e in effetti le violenze si sono già estese in Libano e in Iraq. Tra gli altri paesi da tenere d’occhio, Israele, dove Kerry sta tentando di resuscitare il processo di pace (good luck with that!), e Turchia, dove Erdogan, che è al potere da quasi 12 anni, pare in seria difficoltà, tanto che c’è chi parla di fine di un’era.
Per districarsi nei complessi meandri della geopolitica mediorientale e cercare di capire che cosa aspettarsi da questo anno appena iniziato, senza per questo pensare di avere la proverbiale sfera di cristallo, Studio ha messo a punto questa questa pratica guida.


 

Sta vincendo Assad? A quasi tre anni dall’inizio della guerra civile e contro le previsioni di molti osservatori, Bashar al-Assad si trova in una posizione di forza. Sul campo, le forze del regime e i loro alleati (come la milizia libanese Hezbollah) hanno retto il colpo, anche grazie al sostegno continuo da parte della Russia e dell’Iran, mentre i ribelli sono divisi tra loro e non possono contare su un ampio sostegno esterno: Stati Uniti e Gran Bretagna, che prima fornivano solamente “aiuto non letale”, hanno sospeso qualsiasi forma di supporto, mentre le altre nazioni pro-ribelli, come Turchia e Qatar, paiono molto più caute di prima. In pratica, gli unici a sostenere a spada tratta i ribelli sono i Sauditi.

La conferenza di pace. Una conferenza di pace per la Siria è prevista per il 22 gennaio in Svizzera: salvo colpi di scena, è assai probabile che Assad resti al potere. Alcuni elementi fanno pensare che l’obiettivo della conferenza, molto voluta dall’amministrazione Obama e cui parteciperà anche l’Italia, sia proprio trovare una formula che permetta ad Assad di rimanere – un’ipotesi che, in realtà, piace a molti paesi occidentali, che da un lato temono gli estremisti islamici e dall’altro desiderano trovare una soluzione quanto più rapida possibile al conflitto (questo il ragionamento: Assad è il più forte, quindi meglio che resti al potere lui. Anche se difficilmente i ribelli accetterebbero una cosa del genere). Il regime pare piuttosto ottimista, mentre i più importanti gruppi armati anti-Assad si sono rifiutati di partecipare.
L’Occidente vede Assad come un partner? Stando a fonti vicine ai ribelli, le cancellerie occidentali avrebbero già contattato i rappresentanti dell’opposizione con un messaggio chiaro: preparatevi a tenervi Assad. Secondo altre indiscrezioni, poi, i servizi d’intelligence di alcuni paesi europei avrebbero già ripreso i contatti con il regime siriano per collaborare contro gli estremisti islamici. In passato Damasco aveva lavorato sull’antiterrorismo non solo con nazioni europee, ma anche con l’America del dopo 11 Settembre: ora Assad vorrebbe riavviare questa collaborazione e ha mandato un’offerta a Obama, usando come mediatore il primo ministro iracheno Nuri al-Maliki, che è stato di recente in visita ufficiale a Washington.
Un pessimo precedente. La realtà è che, da quando ha utilizzato le armi chimiche lo scorso agosto, la posizione internazionale di Assad è migliorata (come abbiamo provato a spiegare qui più nel dettaglio). Il rischio adesso è che lo sdoganamento di Assad dopo l’attacco di Ghouta segni un precedente: «Assad sembra aver scoperto un nuovo principio delle relazioni internazionali: la legittimità perduta può essere ripristinata. bombardando civili con gas tossici», scrive l’analista Hussien Ibish. «I dittatori di tutto il mondo avranno certamente preso atto dei benefici sempre più evidenti del commettere un crimine di guerra»


 

L’effetto spillover della guerra in Siria. Da quando è scoppiata la guerra civile in Siria, c’è sempre stata la preoccupazione che il conflitto debordasse in Libano, nazione confinante che con la Siria vanta un rapporto molto stretto – Assad vede il paese come “il giardino di casa”, truppe siriane erano presenti in Libano fino al 2005 – e, peraltro, non nuova alle guerre civili e ai conflitti interni. Inoltre il Libano ospita circa 800 mila profughi siriani: le autorità fanno di tutto per evitare che mettano radici, finendo per aggiungersi al mezzo milione di rifugiati palestinesi (di questo vi parlavamo qui). Negli ultimi mesi, questi timori si sono rivelati sempre più fondati. Il mese di dicembre è stato segnato da una serie di scontri e il rischio è che la situazione peggiori ulteriormente nel 2014, anche in vista delle elezioni.
Scontri tra filo-siriani e anti-siriani. Il Libano è un paese piccolo, ma profondamente diviso, in base a criteri etnici, politici e religiosi. Correndo il rischio di semplificare un po’ troppo (ché in realtà la situazione è molto più complicata), si potrebbe dire che nell’ultimo decennio la principale divisione è stata quella tra il cosiddetto “fronte filo-siriano”, costituito da Hezbollah, una milizia-partito sciita assai vicina all’Iran, con i suoi alleati, e il “blocco anti-siriano”, una coalizione di partiti nata nel 2005 per chiedere il ritiro delle truppe siriane e mitigare le ingerenze di Damasco dopo l’assassinio del politico sunnita Rafiq Hariri (per questo viene anche chiamato “blocco Hariri”). Lo scorso 4 dicembre è stato ucciso a Beirut Hassan Hawlo al-Lakiss, uno dei capi del braccio armato di Hezbollah; il 27 dicembre un’autobomba ha ucciso Mohammed Shatah, ex ministro delle Finanze del governo di Saad Hariri, il figlio del politico assassinato; il 2 gennaio un’autobomba ha colpito nei pressi di una sede di Hezbollah a Beirut. Qualcuno teme che questo genere di violenze possano non solo continuare, ma anche intensificarsi nel 2014.
Il ruolo di Iran e Arabia Saudita. Dietro le violenze di dicembre e gennaio, c’è chi vede lo zampino di Iran e Arabia Saudita, che sostengono rispettivamente Hezbollah e il “blocco Hariri”. Ora, che si tratti di Libano o di Siria, leggere scontri interni a un paese come unicamente una “guerra per procura” rischia di essere riduttivo. Ma certamente queste due potenze regionali sono piuttosto coinvolte in Siria tanto quanto in Libano: e, proprio mentre la guerra in Siria sta prendendo una piega favorevole all’Iran, è possibile che i sauditi cerchino di spostare il terreno di scontro altrove. In quest’ottica, i sauditi hanno promesso 3 miliardi all’esercito libanese, che in buona parte dovrebbero essere utilizzati per acquistare armi francesi, che, presumibilmente, andranno a bilanciare la superiorità militare di Hezbollah rispetto alle forze armate regolari.

Elezioni in autunno. I libanesi dovrebbero andare alle urne in autunno per votare un nuovo Parlamento, che a sua volta dovrebbe formare un governo. Le elezioni generali avrebbero dovuto svolgersi nell’estate del 2013, ma sono state rimandate alla seconda metà del 2014 a causa delle violenze interne al paese e della guerra civile in Siria. Saranno elezioni molto delicate. Ma probabilmente la fase più delicata sarà quella immediatamente successiva, quando ci saranno i negoziati per la formazione di un esecutivo e i vari partiti e/o milizie potrebbero tentare di dare “prove di forza” anche al di fuori delle urne.
Guerra in vista con Israele? L’ultima guerra aperta tra Israele e Libano risale al 2006: tecnicamente si è trattato di un conflitto tra esercito israeliano e Hezbollah, visto che né l’esercito né il governo libanesi erano direttamente coinvolto. Le scaramucce erano proseguite anche dopo la guerra, ma negli ultimi anni il confine tra Israele e Libano era rimasto relativamente tranquillo. Alla fine di dicembre, però, un razzo è stato lanciato dal territorio libanese su una cittadina della Galilea, cosa che ha provocato una risposta israeliana. Hezbollah non ha rivendicato l’attacco ma in molti ritengono la milizia responsabile. Nei primi giorni di gennaio, poi, Hezbollah ha trasferito i suoi missili a lunga gittata dalla Siria al Libano. Proprio mentre i sauditi stanno cercando di rafforzare l’esercito regolare (a discapito di Hezbollah), cercare lo scontro con Israele offrirebbe alla milizia sciita un modo di consolidare i consensi e ribadire la posizione di secondo piano delle Forze Armate libanesi. Anche senza ricorrere a una “guerra aperta” come quella del 2006, per raggiungere l’obiettivo basterebbe intensificare sensibilmente gli scontri con Israele.


 

Una guerra da Beirut a Baghad? Un altro paese interessato dall’effetto spillover della guerra in Siria è l’Iraq. Dove l’Isis, o “Stato islamico in Iraq e nel Levante”, ha recentemente assunto il controllo delle città di Fallujah e Ramadi. Sommato agli scontri in Libano (anche lì è coinvolto l’Isis), questo conferma quella che era stata la preoccupazione di molti analisti fin dall’inizio della guerra civile in Siria: il conflitto si sta estendendo in Libano e in Iraq.
Cos’è l’Isis e cosa vuole. Si tratta di un gruppo islamista che si richiama ad al-Qaeda e che, a partire del 2013, ha svolto un ruolo determinante nella guerra civile siriana: da un lato si oppone alla dittatura di Assad, dall’altro si scontra con altre fazioni ribelli, ostacolando l’Esercito Siriano Libero. Più recentemente l’Isis si è anche scontrato con un altro gruppo di ispirazione qaedista in Siria, al-Nusra, e ha rivendicato un attentato a Beirut contro il gruppo sciita Hezbollah. Perché allora, già impegnato com’è sul fronte siriano, ha lanciato un’offensiva in Iraq? Il fatto è che, come altri gruppi qaedisti, l’Isis non riconosce i confini nazionali: la loro non è soltanto una battaglia “per la Siria” o “contro Assad”: si tratta di una battaglia per l’Islam (o, meglio, per la loro versione dell’Islam), dove al momento il nemico principale è il cosiddetto “blocco sciita” composto dai governi di Siria, Iran e Iraq.

Nel frattempo, cos’era successo in Iraq? Dalla caduta di Saddam Hussein, il paese è di fatto entrato nell’orbita dell’Iran e, di conseguenza, è in buoni rapporti col regime siriano: ai tempi di Saddam, infatti, comandava la minoranza sunnita, mentre con l’introduzione del voto democratico il potere è passato alla maggioranza sciita, che è legata a Teheran per ragioni storiche, politiche e religiose. L’attuale premier Nuri al Maliki ha vissuto per anni in Iran e in Siria. Nonostante i tentativi di fare convivere sunniti e sciiti in un sistema democratico, ci sono state molte violenze settarie con un picco nel 2006, cui è seguito un periodo di calma relativa tra il 2007 (anno della “surge”, il dispiegamento massiccio di militari Usa) e il 2012.
Una nuova ondata di violenze. Nella seconda metà del 2013 però le violenze settarie sono tornate, con diverse esplosioni di autobomba a Baghdad e Samarra. Alcuni analisti vedono in questa nuova ondata di violenze una controffensiva dei gruppi estremisti sunniti ispirati ad al-Qaeda (come l’Isis, appunto) che prima erano stati tenuti relativamente a bada dal governo di al-Maliki, che era in parte riuscito a fare lavorare sunniti e sciiti insieme convincendoli a spostare i loro conflitti dagli scontri tra milizie al piano politico. In questo, probabilmente, c’entra molto la guerra in Siria, che ha dato nuove energie ai gruppi qaedisti.


 

Riprendono i negoziati, dopo tre anni. I colloqui tra israeliani e palestinesi (che, tra alti e bassi, sono in ballo dal 1992) si erano completamente arenati per ben tre anni. I palestinesi rimproveravano agli israeliani di continuare a costruire colonie in Cisgiordania, dall’altro gli israeliani rinfacciavano ai palestinesi il lancio di razzi sul Sud di Israele e la dichiarazione unilaterale d’indipendenza alle Nazioni Unite, da cui lo stallo. Il segretario di Stato americano John Kerry era riuscito però a riavviare le trattative nel dicembre del 2013 e pare abbia intenzione di intensificare i negoziati nel 2014.
Cosa stanno facendo gli israeliani. In vista dei negoziati le autorità israeliane hanno liberato, in segno di distensione, un centinaio di prigionieri palestinesi, inclusi i responsabili di attentati terroristici contro civili israeliani. Contemporaneamente, però, il governo israeliano si rifiuta di interrompere l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania, che i palestinesi vedono come ostacolo principali al processo di pace. Le colonie ampliate sono soprattutto quelle vicine a Gerusalemme, che Israele spera di mantenere dopo un eventuale riconoscimento di uno Stato palestinese.

Cosa stanno facendo i palestinesi. Il presidente dell’autorità palestinese Mahmoud Abbas, detto Abu Mazen, ha criticato il boicottaggio dei prodotti israeliani, chiedendo agli attivisti filo-palestinesi di boicottare “solamente i prodotti provenienti dai Territori occupati”. Una mossa che alcuni hanno interpretato come un segnale di distensione in vista dei negoziati, e che è costata ad Abbas accuse di tradimento. Al momento l’Autorità Nazionale Palestinese è il solo interlocutore nei negoziati diretti con Israele. Il problema è che l’Anp controlla soltanto una parte dei Territori palestinesi, visto che Hamas governa la Striscia di Gaza. Da lì continua il lancio di razzi contro Israele, che a sua volta risponde bombardando Gaza: un ciclo di violenza che complica i negoziati ma su cui l’Anp non ha alcun controllo.
Un accordo entro aprile? In occasione di una visita di Kerry in Medio Oriente, un rappresentante del Dipartimento di Stato ha detto che l’obiettivo è raggiungere entro aprile un accordo in base al quale “israeliani e palestinesi possano convivere in due Stati”. L’obiettivo però sembra quanto meno ottimista. Troppi i nodi difficili da sciogliere in tempo breve: i confini di due eventuali Stati o il ritorno dei profughi palestinesi, per dirne due. Poi c’è il rischio, non così remoto, di una guerra tra Libano e Israele (vedi sopra). Che, ovviamente, rischierebbe di fare saltare tutto.


 

Come si è arrivati a questo punto. Al momento l’Egitto è una dittatura militare, con un primo ministro civile nominato dall’esercito. Le Forze Armate hanno preso il potere la scorsa estate con un colpo di Stato contro il presidente islamista Mohammed Morsi, che era stato eletto democraticamente ma che dopo si era comportato da vero autocrate (su di lui gravava anche il sospetto di complicità nei massacri dei cristiani). A sua volta Morsi era stato eletto, nelle prime elezioni libere del paese, a seguito di un interregno delle Forze Armate dopo la rivoluzione di piazza Tahrir, che aveva portato alle dimissioni di Mubarak nel febbraio del 2011.
Transizione verso una democrazia? L’esercito, che sostiene di avere agito su mandato del popolo, si è impegnato a traghettare il paese verso la democrazia. Ma nel contempo ha fatto di tutto per consolidare il potere nelle sue mani. Per esempio costruendo intorno al generale al-Sisi, artefice del coup, un vero e proprio culto della personalità. Oppure promulgano leggi che di fatto vietano le manifestazioni pubbliche e che permettono ai tribunali militari di processare i civili. Il sistema attuale, scrive Steven Cook sul sito della Cnn, «ricorda da vicino l’ordine politico dei precedenti governi autoritari»
Referendum ed elezioni. Gli egiziani saranno chiamati a votare la bozza di una nuova costituzione il 14 gennaio, e poco dopo dovrebbero seguire delle nuove elezioni generali. Tuttavia, quanto queste elezioni possano davvero svolgersi in un clima di libertà resta tutto da vedere: la libertà di espressione è severamente limitata e il principale partito d’opposizione, la Fratellanza Musulmana, è dichiarato fuorilegge. Soprattutto a ridosso delle due tornate elettorali, c’è da aspettarsi nuovi scontri di piazza.

La repressione dei Fratelli Musulmani. Come ai tempi di Mubarak, e probabilmente con una mano più pesante di Mubarak, l’esercito sta reprimendo con ogni mezzo la Fratellanza Musulmana, la formazione islamista che avrebbe buone possibilità di vincere delle elezioni libere e democratiche (anche se, per paradosso, di “democratico” nell’ideologia della Fratellanza c’è ben poco). «I generali sono impegnati in una lotta per la sopravvivenza: sono convinti che devono distruggere i Fratelli Musulmani, oppure saranno i Fratelli Musulmani a distruggere loro», spiega Eric Trager su The Atlantic. Tra le altre cose, le autorità hanno anche arrestato sette ragazze adolescenti per avere manifestato a favore della fratellanza e sparato contro gli studenti pro-Morsi.
I jihadisti nel Sinai. In tutto questo, i gruppi estremisti già attivi nella penisola del Sinai hanno usato il clima di tensione per lanciare nuovi attentati: lo scorso novembre il ministro dell’Interno è sfuggito per poco a un attacco bombarolo, mentre altri attacchi sono stati effettuati contro esercito e polizia. Conclusione? Tra dittatura militare, lotta tra esercito e Fratelli Musulmani, e un nuovo attivismo delle cellule terroriste… l’Egitto è una polveriera che rischia di esplodere.


 

Erdogan comincia a vacillare? In Turchia l’Akp, partito spesso definito come “islamico moderato”, è al potere dal 2002, quando l’attuale premier Recep Tayyip Erdogan, ora al terzo mandato, ha vinto le elezioni. Gli storici avversari dell’Akp sono i cosiddetti “kemalisti”, cioè i nazionalisti laici che ispirano a Kemal Ataturk e molto vicini all’esercito, ma anche i partiti e i movimenti di sinistra. A scatenare le celebri proteste di Gezi Park, lo scorso maggio, era stato soprattutto il tentativo da parte di Erdogan di islamizzare Istanbul (per esempio limitando il consumo di alcol) e le sue politiche neo-liberiste, cose che avevano fatto infuriare i laici e la sinistra. Più recentemente, però, il governo dell’Akp è stato messo in difficoltà per questioni di corruzione… e da avversari islamici.
La Tangentopoli e il Movimento Gülen. Alla fine del 2013 l’Akp è stato colpito da una serie di arresti per corruzione, che hanno interessato una cinquantina di esponenti del partito. La serie di scandali ha portato alle dimissioni di tre ministri, titolari di Interni, Economia e Ambiente, i cui figli figuravano tra gli arrestati. Erdogan ha gridato al complotto, incolpando una non meglio identificata “organizzazione internazionale interna allo stato” con “legami internazionali.” È probabile che si riferisse al Movimento Gülen, gruppo d’ispirazione islamica che in precedenza era stato alleato dell’Akp e che, come scrive l’analista turco Mustafa Akyol, riscuote successi tra la magistratura e la polizia: «C’è chi crede che i responsabili dell’indagine fossero legati al movimento».

Uno scontro interno all’Islam. Erdogan ha risposto con una serie di “purghe” all’interno della polizia, presumibilmente mirate a indebolire la presenza del Movimento Gülen. Inoltre ha espresso posizioni anti-magistratura a proposito di alcuni processi contro alcuni politici kemalisti, suo nemici storici (che, potrebbero aggiungere i maligni, lo stesso Erdogan aveva contribuito ad arrestare). Lo scontro tra Gülen e Akp pare ormai frontale. Anche se in realtà si tratta di due movimenti per certi versi simili, visto che entrambi si rifanno a un Islam moderato (in contrapposizione agli estremisti salafiti, ma anche ai Fratelli Musulmani egiziani) e, almeno originariamente, filo-europeo. Col tempo però l’Akp, che all’inizio perseguiva l’ingresso nella Ue, si è allontanato dall’Europa avvicinandosi ai paesi arabi e flirtando con i Fratelli Musulmani. Secondo Akyol sarebbero state proprio le divergenze in politica estera a fare saltare l’alleanza.
Con le elezioni, la fine di un’era? A marzo si svolgeranno le prossime elezioni municipali, che saranno un banco di prova per la tenuta dell’Akp. Ancora più importanti però saranno le presidenziali, che dovrebbero tenersi a giugno. Probabilmente Erdogan si candiderà: volendo restare fedele al suo impegno di superare i tre mandati da primo ministro, mira a diventare presidente. Alcuni credono che il suo obiettivo sia l’elezione a primo ministro dell’attuale presidente Abdullah Gul, suo compagno di partito (l’idea, insomma, sarebbe scambiarsi i ruoli, come in Russia Putin fece con Medvedev). Il problema è che, stavolta, Erdogan potrebbe perdere. Specie se i suoi oppositori così diversi tra loro (kemalisti, movimento Gülen, sinistra) dovessero coalizzarsi al secondo turno. Potrebbe essere la fine dell’era Erdogan.