Attualità

Perché nessuno legge gli articoli che parlano di Siria

La guerra dura da sette anni e c’è chi accusa i media di non darle spazio. Ma forse è il pubblico a non volerne sapere, un'ignoranza volontaria.

di Anna Momigliano

A picture taken on February 7, 2018 shows smoke plumes rising following a reported regime air strike in the rebel-held town of Arbin, in the besieged Eastern Ghouta region on the outskirts of the capital Damascus. / AFP PHOTO / Amer ALMOHIBANY (Photo credit should read AMER ALMOHIBANY/AFP/Getty Images)

In Siria c’è una guerra che si trascina da sette anni: i primi disordini, le proteste a Daraa e Damasco, cui è seguita la durissima repressione del regime, risalgono al marzo del 2011. I massacri del 2012, le armi chimiche usate da Assad nel 2013, l’ascesa dell’Isis, poi la sua cacciata e la guerra tra Assad e ribelli che continua: è nato tutto da lì. Uno dei conflitti più odiosi e letali della storia recente del Medio Oriente, che ha ucciso centinaia di migliaia di persone e creato milioni di profughi. Mentre scriviamo, le truppe di Assad continuano a bombardare massicciamente Ghouta, il sobborgo di Damasco in mano ai ribelli, che si trova sotto assedio dal 2013, con la popolazione ridotta alla fame. La guerra in Siria, insomma, è una questione seria, anzi importante e tragica: tragica per le vite che sta distruggendo, e importante perché ci riguarda tutti da vicino, a partire dalla questione dei profughi. C’è chi critica giornali e telegiornali di non dare abbastanza spazio al conflitto. Vero.

Eppure. Eppure c’è un dato di fatto, una verità che spesso noi giornalisti mormoriamo nelle redazioni e che i più coraggiosi, ogni tanto, raccontano in pubblico: i pezzi sulla Siria non li legge quasi nessuno. Prendiamo il Washington Post: dal 2017 ha lanciato una popolare newsletter di affari e politica estera, e qualche giorno fa l’editor ha twittato che è «profondamente triste vedere il numero dei lettori che scende drasticamente ogni volta che pubblichiamo una storia sulla Siria. Succede puntualmente».

Sarà l’effetto logoramento? Fino a un certo punto. Qualcuno ricorderà il caso di Francesca Borri, la freelance italiana che nel luglio del 2013, quando il conflitto era ancora relativamente giovane, pubblicò un articolo sulla Columbia Journalism Review in cui parlava del suo lavoro, di quanto fosse difficile piazzare un pezzo e di come fosse sottopagata e presa poco sul serio in quanto donna. Quell’articolo diventò virale, ma provocò anche molte critiche: se nessuno vuole pubblicare un tuo articolo e pagarlo bene, forse è perché non sei abbastanza brava. Il dato interessante qui è però un altro, e cioè che l’articolo della Cjr sollevò un’altra questione rispetto a quella che voleva sollevare: «Ci sono più di 100 mila morti e l’unico pezzo sulla Siria che diventa virale è quello che parla di giornalisti», come ha scritto la stessa Borri sul Guardian.

Perché è così difficile suscitare interesse sulla guerra in Siria? Ne abbiamo parlato con Idrees Ahmad, docente di Comunicazione, Media e Cultura all’università di Stirling, in Scozia, contributing editor della Los Angeles Review of Books e acuto osservatore della politica mediorientale. Tutte le guerre, dice Ahmad, provocano logoramento e assuefazione, e in questo ovviamente la Siria non fa eccezione. Inoltre, prosegue, c’è una tendenza costante, a realizzare la portata di una catastrofe umanitaria a posteriori: «Lo abbiamo visto in Bosnia, lo abbiamo visto in Ruanda». Però, nel caso specifico della Siria, si sono sovrapposti una serie di fattori che ne hanno fatto un conflitto davanti al quale è particolarmente facile non sentirsi coinvolti. Primo, spiega il docente, il racconto della Siria «soffre dall’affaticamento da Iraq»: da un lato, quando la guerra in Siria è iniziata, il pubblico era già assuefatto da quasi dieci anni di guerra in Iraq; dall’altro lato, il fatto che l’intervento americano in Iraq fosse andato così male ha diffuso un’attitudine anti-interventista, per cui è meglio non immischiarsi troppo delle guerre degli altri. Questo «affaticamento da Iraq», prosegue Ahmad, rimanda a un’altra dinamica che spinge le persone a non interessarsi di Siria: «Le reazioni umane davanti a una guerra, solitamente, sono queste: se so, provo empatia; se provo empatia, sento il desiderio di fare qualcosa. Però, a causa dell’Iraq, ci siamo convinti che intervenire porta solo guai, allora si è creata una dinamica inversa: non voglio sapere, così non provo empatia, così non mi viene voglia di fare qualcosa. È, per citare Primo Levi, un’ignoranza volontaria».

Poi, dice, c’è una terza questione che contribuisce a rendere il pubblico più cinico: l’impressione che non ci siano buoni o cattivi. Il conflitto viene visto come una guerra tra Assad (cattivo) e l’Isis (se possibile, ancora peggio), che in realtà è sbagliato, perché in Siria si stanno combattendo tante guerre contemporaneamente, e non è con l’Isis che Assad si sta scontrando in questi giorni. Però resta l’idea che, visto che sono tutti cattivi, meglio non immischiarsi, meglio non starci a pensare su. «Fin dall’inizio c’è stato un tentativo di creare una falsa equivalenza tra il regime e i suoi oppositori, per esempio quando si tentò di incolpare i ribelli degli attacchi chimici di Assad», dice Ahmad. «Poi con l’ascesa dell’Isis nel 2014 è diventato ancora più facile metterla in questi termini».

 

Bombardamenti su Arbin, febbraio 2018 (foto Getty)