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Perché questo è il governo degli avvocati

Come una delle più illustri professioni liberali è diventata uno strumento e un terreno fertile per il populismo.

02 Luglio 2018

La scena, definita «una farsa» dal Financial Times, risale a giovedì notte. Quando Marcon prova a zittire Conte al Consiglio europeo («Non sai come funziona! Ci sono delle regole, non ci si comporta in questo modo»), il premier italiano risponde: «Io sono un avvocato e so che se un documento ha un numero di protocollo quel documento si discute e si approva tutto, non a pezzi». A quel punto i leader di Svezia e Bulgaria si sentono in dovere di puntualizzare, con tono di beffa, che loro hanno fatto il pompiere e il saldatore. L’episodio farebbe ridere se non fosse tragico nella sua assurdità. Ricordiamo ancora quando, lo scorso 23 maggio, subito dopo aver ricevuto l’incarico di formare il governo, Conte si presentò così: «Mi propongo di essere l’avvocato difensore del popolo italiano, sono disponibile a farlo senza risparmiarmi». Allora sembrò poco più di uno slogan, ora abbiamo capito che si tratta di un metodo ben preciso: mostrarsi come il tribuno della plebe, dalla parte dei cittadini, con un contratto in mano, appellandosi ai codici, ai cavilli se necessario.

Con l’onda lunga di Tangentopoli, da Di Pietro a Grasso, abbiamo vissuto la lunga epoca dei magistrati. Erano 18 in Parlamento nella scorsa legislatura, politicamente trasversali. Senza contare lontano da Roma i vari Emiliano e de Magistris. Ora sembra essere l’avvocato l’asse portante del nuovo establishment giallo-verde, la nuova classe dirigente che fa coincidere il potere legale con il potere reale. Oltre al presidente del Consiglio sono tre gli avvocati al governo: Alfonso Bonafede (allievo di Conte) alla Giustizia, Giulia Bongiorno alla pubblica amministrazione ed Erika Stefani agli Affari Regionali. E poi Maria Elisabetta Alberti Casellati, esperta di diritto canonico ed ecclesiastico, alla presidenza del Senato. Curiosamente, poche ore dopo la scenetta di Conte a Bruxelles, è arrivata la notizia che Angelino Alfano – il ministro più longevo nella storia repubblicana con oltre tremila giorni consecutivi – torna a fare la sua antica professione, l’avvocato. Sarà infatti consulente per lo studio legale Bonelli Erede su questioni di diritto e diplomazia internazionale. Un percorso inverso per un politico che sembra appartenere a un mondo ormai superato nei modi e nelle idee – e fa una certa impressione scrivere di Alfano con un tono nostalgico.

Così una delle più illustri professioni liberali è diventata lo strumento utilizzato dai Cinque Stelle per sfruttare gli ingranaggi del potere, scardinare la nuova casta e insediarne una nuova. Emblematico il caso di Luca Lanzalone, l’avvocato catapultato a Roma dai vertici del Movimento per aiutare Virginia Raggi a gestire l’affare del nuovo stadio della Roma e non solo. «Mr. Wolf» lo chiamava il costruttore Luca Parnasi, finito nei guai e agli arresti proprio per la vicenda dello stadio.

Che l’Italia sia un Paese con troppi avvocati lo sapevamo da tempo. Ci siamo abituati alle statistiche che sottolineano come le toghe italiane siano quattro volte quelle della Francia e due volte quelle della Germania. A confermarlo è arrivata l’ultima indagine del Censis che fornisce i numeri precisi: oggi gli avvocati sono 243mila, il 192% in più rispetto al 1995, quando erano 83mila. L’età media è di 45 anni, c’è una sostanziale parità tra sessi, con una leggera prevalenza per gli uomini (52,2%) ma un netto squilibrio sui guadagni, visto che le donne prendono in media il 44% in meno rispetto ai colleghi. Per la cronaca, il guadagno medio di un avvocato italiano è di 38.437 euro l’anno, tendenzialmente stagnante rispetto agli ultimi dieci anni. E, sempre stando all’indagine Censis, il clima nella categoria non è positivo: il 70% dice che si sarebbe aspettato «qualcosa di più» dal suo lavoro. Insomma, un popolo di avvocati insoddisfatti, alcuni dei quali hanno deciso di prendersi una rivincita in politica. Una tendenza in realtà affatto nuova. Ogni volta che torna il tema avvocati-politica, la citazione immancabile è quella del trattato che scrisse nel 1921 Piero Calamandrei per protestare per quei legali che «riempiono le aule del Parlamento trasformandolo in Camera d’avvocati». Titolo eloquente del pamphlet: Troppi avvocati.

Volendo tornare indietro nel tempo, il primo avvocato del popolo che cercò di conquistare Roma fu Mario, nel 120 avanti Cristo. Da tribuno della plebe duro e puro, divenuto console Gaio Mario si lanciò in una guerra contro la casta di allora (che poi è la stessa di oggi): i senatori e l’aristocrazia. Non finì bene, l’aristocratico e conservatore Silla si dimostrò più abile nell’arte dell’epurazione. Ma forse il parallelo storico più appropriato rispetto all’avanzata togata dei Cinque stelle è quello con la Rivoluzione francese, che in fondo fu anche una rivoluzione di avvocati. C’è un che di eversivo nel voler prendere la difesa d’ufficio del popolo, come ha fatto Conte, che forse dovrebbe ricordare come Robespierre mozzasse teste in nome dell’avvocatura popolare.

Quando una crisi finisce in mano ai legali è segno che la politica è venuta meno al suo ruolo: è una vecchia regola non scritta che andrebbe sempre tenuta presente. D’altra parte la metafora della politica come scontro in tribunale, su cui il premier Conte sta mostrando di voler insistere, non è solo fuori luogo, è inaccettabile in un sistema democratico che funziona grazie a ruoli e regole ben definiti, senza spazio per sorrisetti o metafore.

Foto Getty
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