Cultura | Dal numero

Il tempo delle ragazze è appena iniziato

Nel 2023 le varie estetiche girl hanno riempito i social di un’infinita quantità di trend e micro trend che avevano a che fare con una spasmodica ricerca di identità, ma cosa significa quella discussione sfaccettata e come si interseca con l’eterno dibattito sui femminismi?

di Caterina De Biasio

Nel 1995 Gwen Stefani, ancora parte del gruppo No Doubt, capelli biondo platino e rossetto rosso, cantava «I’m just a girl in the world/That’s all that you let me be». Nell’ultimo anno questa canzone ha conosciuto nuova vita come trend di TikTok per accompagnare video di ragazze che fanno cose da ragazze, solitamente ridicole, goffe o associate a ciò che consideriamo cliché femminili. “I’m just a girl” fa parte del filone di trend legati alla cosiddetta “girlhood”, l’essere ragazze, appunto: c’è il girl dinner, pasto composto da quello che si trova in frigo, la girl math, la matematica senza senso che entra in campo quando una ragazza fa shopping approfittando degli sconti, la hot girl walk ma anche la hot girl summer, la feral girl fall e infine il lazy girl job, un lavoro sicuro per cui non è richiesto sacrificarsi e dare tutte sé stesse. E poi ci sono le infinite denominazioni che descrivono le varie estetiche (e identità) di una ragazza: clean girl, vanilla girl, that girl, pick me girl, cherry girl. Tutte catalogano e danno un nome a estetiche e stili di vita, e confermano un altro trend, e cioè che «girlhood is a spectrum», in cui vari elementi opposti tra loro vengono associati insieme, concorrendo a formare l’identità di una ragazza.

Questo ribollire caotico di trend ha ovviamente avuto un riscontro nella moda: nello stile coquette, di fiocchi e pizzi che si rifanno all’idea canonica di femminilità, ma anche nell’utilizzo del rosa, soprattutto dopo l’uscita del film Barbie di Greta Gerwig. Lo scorso ottobre, Miu Miu era il primo nella lista dei brand più desiderati del Lyst Index 2023: tra fiocchi, colori pastello e mini skirt, il marchio da sempre rappresenta la parte più spontanea di Miuccia Prada, come lei stessa aveva spiegato a System Magazine nel numero a lei dedicato. Ma anche Simone Rocha e Sandy Liang con tulle, trasparenze, pizzi romantici e fiocchi enormi hanno conosciuto una grande crescita. Il 2023 è stato anche l’anno di Taylor Swift che, con l’Eras Tour, ha causato pianti collettivi, mosso autobus e aerei pieni di fan, e mandato in visibilio ragazze che ai concerti si scambiavano i braccialetti dell’amicizia.

Questo tripudio di femminilità e di ragazze ha però ricevuto molte critiche. La principale vede la girlhood come un’operazione di marketing che utilizza femminile e femminismo per vendere prodotti, fagocitando l’autocoscienza femminile nel sistema capitalistico all’interno del quale tutto è vendibile. Questa critica è stata anche sostenuta dalla discrepanza tra la girlhood, il mondo desiderato delle ragazze, e l’effettiva realtà in cui i diritti delle donne gradualmente vengono meno (un esempio negli Stati Uniti è l’abrogazione della legge Roe v. Wade, che ha reso illegale l’aborto in molti Stati, ma per restare in Italia basta ricordare la discussione sull’accesso all’aborto e l’obiezione di coscienza). Contro il sorgere della girlhood e dell’interesse che tutte le donne, indipendentemente dalla propria età, stanno riscoprendo per questo universo rosa e spensierato, si è esposta anche Susan Madsen, professoressa della Utah State University, in un articolo sul Guardian in cui sottolinea come la definizione di “ragazza” venga utilizzata per sminuire la donna e non metterla sullo stesso piano della sua controparte maschile. Ma è proprio attorno a questo aspetto che si sviluppa tutto il concetto di girlhood, questa lotta rosa, leggera e un po’ scema: se davvero sono solo una ragazza e that’s all that you let me be, allora io ragazza, in quel piccolo tutto che mi è stato lasciato, decido di crearmi la mia identità, tra mille contraddizioni e storpiature.

Potremmo definire girlhood una sorta di termine cappello sotto al quale vorticano vite e scelte diverse, che viene osservato con attenzione e con attenzione ne vengono evidenziate le lacune dal punto di vista teorico, pratico e femminista. Ne viene giudicata l’apparente assenza di direzione, l’impossibilità di definirla secondo un’ideologia precisa, la sua associazione con il consumismo sfrenato, l’assenza di attivismo impegnato fuori dai social. La girlhood è fumosa, non comprensibile, opaca, nonostante le mille definizioni di girl a disposizione.

Edouard Glissant in Poetica della relazione presenta il diritto all’opacità riferito, nel suo caso, alla dimensione razziale. Con “opacità”, Glissant intende la non-comprensibilità all’altro, ovvero l’irriducibilità della propria identità in una definizione, il diritto di avere in sé elementi diversi, forse anche contraddittori, che non rimandano all’Altro un’immagine lucida e chiara di sé. Questo concetto può essere traslato sul discorso di genere: se alla donna, o ragazza in questo caso, viene chiesto di definire sé stessa e diventare trasparente allo sguardo di chi guarda, lo stesso non viene chiesto all’uomo che, per esempio, non è mai stato accusato di essere vittima del mercato quando acquista sciarpe, tazze, e magliette della squadra del cuore, o proteine per avvicinarsi a tentoni all’ideale di corpo maschile. Se l’uomo può essere opaco nelle sue contraddizioni e sbavature, la ragazza deve essere limpida e rendere conto della propria superficialità e incoerenza.

Oggi l’opacità del femminile si è formata nella girlhood proprio perché territorio combattuto e in un certo senso dimenticato, in cui c’è ancora libertà di sperimentare nuovi immaginari e modi di essere. La girlhood, il tempo indefinito dell’essere ragazza, è da sempre stato visto come terra di confine che precede il diventare donna, con le responsabilità e la presa di coscienza di essere l’Altro in un mondo maschile. Come scrive Simone de Beauvoir nel Secondo sesso, per la ragazza il presente è transizione, e non ha valore come tempo a sé stante. Questa recente attenzione per un’età considerata transitoria sembra imporsi come una fase che non porta da nessuna parte, non come fase preparatoria a qualcosa. Non è un semplice fossilizzarsi nostalgico su un tempo immaginario, ma è riconoscere alla girlhood dei diritti e una solidità che non ha mai avuto. È un modo per affermare che la ragazza può essere, e non necessariamente divenire.

Divenire donna non è più un obiettivo: alla donna viene richiesto un grado di perfezione e resistenza, ma anche di accettazione della realtà maschile, che la ragazza rigetta. La donna è stata catalogata, smussata e studiata, ed è ormai diventata decifrabile, trasparente. Un esempio classico di donna “trasparente” è la girlboss, la donna che fa della carriera il proprio fine ultimo e che si piega ai dettami del mondo del lavoro pensato al maschile, in cui l’acquisizione del potere al suo interno avviene solo se si abbraccia la cultura neoliberista (e maschilista) di sopraffazione del più debole e di cancellazione della propria vita privata. Le reazioni delle ragazze alla hustle culture sono molteplici, ma si basano tutte sul concetto di femminismo della differenza, già impostato negli anni Settanta da Carla Lonzi. In Sputiamo su Hegel la teorica femminista spiega come il fine ultimo del femminismo non è l’ottenimento dell’uguaglianza all’uomo, ma il riconoscimento della differenza della donna: è da lì che bisogna partire per creare un sistema altro, differente dalle regole e dalla vita pensata da e per gli uomini. Ottenere potere e successo in ambito lavorativo, senza cambiare la stessa cultura lavorativa, per il femminismo della differenza non porta alcun beneficio alle donne e alla causa femminista.

Come reazione alla cultura girlboss, molte ragazze hanno cercato di inserire la questione della donna in un spazio più ampio, tenendo conto del discorso razziale, di classe e socio-culturale, sul solco di femministe intersezionali come bell hooks: il femminismo deve aprirsi alle donne non bianche e non abbienti, e non può essere ridotto a puro riformismo e all’ottenimento dell’uguaglianza nella legge, una legge che spesso si è dimostrata incapace di tutelare le donne non bianche. Dall’altra parte dello spettro, poi, ci sono quelle ragazze che hanno invece scelto di rigettare completamente le conquiste del femminismo, per abbracciare ideali conservatori. Esacerbata dal pensiero binario dei social media, questa visione radicale è stata una reazione al fallimento degli ideali di uguaglianza e di felicità per le donne a cui le generazioni precedenti hanno provato a credere. Le cosiddette “trad wives” (mogli tradizionali) sono un trend che negli ultimi anni ha preso sempre più piede, come dimostra il caso recente di Nara Smith, bellissima ragazza di appena ventidue anni che condivide su TikTok la sua vita casalinga, filmandosi mentre cucina una insolita quantità di cibo per i suoi due figli (è in attesa del terzo) e mentre aspetta che il marito, il modello Lucky Blue Smith, torni a casa. Si è discusso molto, negli ultimi mesi, di Nara, del modo in cui parla, cucina e del suo stile di vita (nonostante sia sempre dietro ai fornelli, è sempre vestita come se andasse a un cocktail party ma in maniera elegante e “modesta”), soprattutto perché Lucky Blue Smith è notoriamente mormone: sarà tutta propaganda della Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni? Come sottolineato da Alice Cappelle, autrice di Collapse Feminism: The Online Battle For Feminism’s Future, il femminismo sembra crollare su sé stesso in una spirale disordinata, eppure nel suo disfarsi ci ricorda che non è un’etichetta, o una parola da aggiungere alla bio di Instagram. È una scelta quotidiana che coinvolge tutti i gruppi sociali, e non solo le donne. Coinvolge persone diverse con storie e difetti diversi e può essere fallace e sempre migliorabile.

L’opacità del movimento femminista viene riflessa allora nella girlhood e ha, nei suoi ossimori e devianze, lo scopo di evidenziare la diversificazione del femminile e delle molteplici prese di coscienza che ogni donna può intraprendere. La leggerezza e apparente superficialità della girlhood rendono il discorso femminile più democratico e fruibile da donne diverse e permettono lo sviluppo se non di un’autocoscienza, almeno di una denominazione in cui identificarsi: I’m a girl. Anche le trad wives, nel loro essere opache, contribuiscono a rendere visibili le storture di ciò che reputiamo neutro, immutabile e invisibile. Le incoerenze della girlhood sono le incoerenze della società tutta, e chiamano tutti, non solo le donne, a rivalutare il sistema di valori in cui viviamo. Sottolineano come il discorso di genere sia pieno di sfumature, riflesso del mondo in cui viviamo, e come sia necessario intrecciarlo alla realtà, coinvolgendo più persone possibili. Perché cambiando il discorso sul femminile, tutto quello che sta attorno muta con noi, e potremo dirci, senza ironia questa volta: oh I’m just a girl, lucky me.

Questo articolo è tratto dal numero 58 di Rivista Studio “Dove stiamo andando”, una guida con 10 tendenze che caratterizzano il presente e influenzeranno l’immediato futuro: lo trovate nel nostro store online.