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Il mestiere dell’inviato nell’America di Trump

Intervista a Giovanna Pancheri, corrispondente di Sky TG24 dagli Stati Uniti e autrice di Rinascita Americana, da oggi in libreria.

di Ferdinando Cotugno

Giovanna Pancheri è diventata corrispondente di Sky TG24 dagli Stati Unti a settembre 2016, nel prologo dei quattro anni che si sono chiusi con l’invasione dello sciamano di QAnon al Senato. La sua è stata una corrispondenza ad alto chilometraggio, i suoi tanti viaggi hanno nutrito i reportage per Sky e sono ora raccolti nel suo nuovo libro, Rinascita Americana (Sem), racconto dell’America di Trump attraverso le sue storie: la crisi industriale, l’emergenza oppiacei, le proteste antirazziste dopo l’omicidio di George Floyd, la pandemia, passando ovviamente per la polarizzazione ideologica e la radicalizzazione della destra. In questi anni Pancheri ha incontrato e intervistato un buon numero dei personaggi il cui profilo umano e politico coincide con gli invasori di Capitol Hill. Non si può che partire da lì, dalla fine.

Come sono quelli lì, visti da vicino?
«Una cosa sono i leader ideologici, che si nascondono dietro una maschera di cultura, che si vendono come intellighenzia sovversiva. Un’altra i bracci armati, personalità borderline, gente con seri problemi di equilibrio mentale. Eppure spesso, se li incontri nella normalità delle loro vite, sembrano pure persone tranquille, quelli che dicono madame alla fine delle frasi. Poi inizi a parlare di certi argomenti e scatta l’ignoranza mista ad arroganza di chi è cresciuto nutrendosi di cospirazioni».

Quali immagini ti hanno colpito di più?
«La felpa Camp Auschwitz. È lo shock dell’intoccabilità della libertà di espressione. In Europa se anche intervisti in tv il più fondamentalista di Casa Pound, mai ti parlerebbe di Olocausto con i livelli che raggiunge un cospirazionista americano. Se lasci tutta questa libertà alla cloaca e non censuri mai, è ovvio che continueranno. È come un bambino che piange perché sta testando i tuoi limiti. Ci deve essere un momento in cui dici: «Questo è un confine e non lo puoi superare».

Su un muro di Capitol Hill hanno scritto: murder the media. Com’è stato lavorare sul campo in questi anni?
«Esperienza complicata. La gente ti fischia, ti urla fake news, provano a non farti registrare. Le posizioni estreme percepiscono sempre i media come un nemico, ma tutto è esasperato quando l’autorità massima del paese corrobora questo atteggiamento. Dopo gli attentati di Parigi sentivo un amore nei confronti dei giornalisti, e non capita spesso. Lì la gente ci fermava per ringraziarci».

E in America?
«In America quello che ti cambia la prospettiva è che devi sempre pensare che siano armati. A un certo livello, raccontare l’America è come coprire un terreno di guerra. Ogni singolo matto che urla alla telecamera potrebbe avere una pistola automatica in tasca, il retropensiero c’è sempre».

L’hai letto il libro di Obama?
«Mi ha colpito molto. Bellissimo, ma cosa capisci? Ha una perfetta conoscenza dei disagi delle minoranze. Sa parlare a nome delle élite bianche. Ma capisci anche da dove veniva il distacco da quel proletariato bianco, che non sarà maggioranza ma ha quei voti che spostano le elezioni. Biden lo ha colto perché viene da quell’America, col suo modo di fare white middle class è un tipo di presidente di cui quell’elettorato si fida di default. Ma questi quattro anni non sono stati una piccola macchia nella meravigliosa storia della democrazia americana e non si cancellano dal 21 gennaio».

I tuoi quattro anni da corrispondente coincidono con i quattro anni di Trump. Ne esci con uno stress post-traumatico?
«Macché. Da corrispondente estera è stato il tipo di presidenza più interessante che si potesse coprire. Sai, non è il tuo paese, questo ti spinge all’ammirazione per l’eccellenza che sono ma anche al distacco, per determinate situazioni che a casa tua ti preoccuperebbero. Per un giornalista questa presidenza è stata meravigliosa, era sempre nei titoli di testa dei telegiornali e sui giornali, c’era un interesse quotidiano, quasi una riscoperta».

Nel libro citi spesso Calvino e Olivetti.
«I racconti di Calvino sull’America sono attuali anche a leggerli oggi, aveva le capacità del giornalista e del narratore, la curiosità mista alla poesia, coglieva aspetti acuti e veri. Olivetti l’ho amato in modo particolare, mio padre è ingegnere, mia madre ha portato l’università a distanza in Italia, col consorzio Nettuno. Quindi in casa si parlava sempre di Olivetti. Gli italiani che hanno successo in America sono come lui, hanno due qualità che mancano agli americani. Una è il senso di comunità, l’idea dell’impresa che è anche famiglia. Alla fabbrica della Chrysler mi colpì una cosa che mi disse il direttore dell’impianto: Marchionne ci ha fatto mettere la divisa col logo. Da noi è la norma, per loro è sconvolgente. L’altra è il senso pratico, gli americani se gli tracci la strada fanno le cose meglio di tutti, ma se devi uscire dal tracciato vanno in crisi. Un italiano il modo lo trova sempre».

Durante l’ultimo anno di università, stage alla World Trade Centers Organization. In Italia se fai uno stage ti mettono a fare il caffè, lì dovetti cercare un produttore di caffè in Vietnam per conto di un imprenditore

Tu che studi hai fatto prima di diventare giornalista?
«Liceo classico a Roma, Scienze politiche alla Sapienza, master a Bruges. Fino a sei anni volevo fare la scrittrice, poi sempre la giornalista. Durante l’ultimo anno di università, stage alla World Trade Centers Organization. In Italia se fai uno stage ti mettono a fare il caffè, lì dovetti cercare un produttore di caffè in Vietnam per conto di un imprenditore».

Corrispondente da Bruxelles a 29 anni, da New York a 36. Sei l’opposto dei luoghi comuni su giovani e giornalismo in Italia.
«È la forza di Sky, innanzitutto. A Maria Latella serviva una persona che si occupasse di esteri per il suo programma, l’ho incontrata una sera a Roma, per caso. Avevo già in tasca un altro stage alla Commissione Europea. A Sky il Tg era nato da poco, offrivano ancora i praticantati e ho avuto un direttore come Emilio Carelli che credeva nei giovani. Io non scoraggio mai quelli che mi dicono che vogliono fare i giornalisti, ma serve una chiave di volta. La mia fu un curriculum pieno di esperienze all’estero. Poi in Italia si mandano a fare i corrispondenti i giornalisti a fine carriera e non è la cosa più intelligente. Un giovane ha più fame, più voglia, a Bruxelles ho iniziato a spulciare i documenti, un lavoro che facevano solo quelli dei quotidiani, si poteva fare e l’ho fatto, gli scoop sono venuti così». 

Ho la sensazione che gli ultimi anni abbiano svecchiato molto il racconto giornalistico dell’America, ci sono gerarchie nuove, nomi nuovi.
«Prima il corrispondente classico dall’America era quello che si svegliava presto, si leggeva i giornali e raccontava quello che aveva letto. Fino all’arrivo dei social andava bene così, bastava avere una voce e dare una lettura. Poi è cambiato tutto, quello che bastava prima, non bastava più, il cambiamento tecnologico cambia i tipi di giornalisti che emergono. E un presidente che saltava ogni possibile mediazione ha fatto il resto. Servono chiavi diverse, devi andarti a cercare il pubblico, trovare una voce. Per me è stato il viaggio, per altri un’enorme conoscenza della storia e dei meccanismi. I social hanno dato opportunità anche a chi aveva in partenza un pubblico minore, penso a Francesco Costa, che causa Covid non è potuto venire negli Stati Uniti ma è un tale conoscitore che avevi un’informazione più accurata da lui che da tante altre testate».

E quella tua foto sulla copertina di Time?
«È la prova di quanto conta essere nel posto giusto, al momento giusto, con la luce giusta e il cappotto giusto. Ovviamente ho già la gigantografia a casa».