Cultura | Opinioni

Lezioni di nazismo tra pandemia e Trump

Alcuni collegamenti tra la storia del nazionalsocialismo e i movimenti di estrema destra di oggi, alla luce dell'invasione di Capitol Hill.

di Davide Coppo

Ho iniziato a leggere di nazismo durante il primo lockdown. Come molti, ho pensato che l’occasione di due mesi chiuso in casa fosse perfetta per buttarmi su mattoni librari che da mesi osservavo senza il coraggio di affrontarli, e nel mio caso la prima scelta era Le benevole di Jonathan Littell. Come pochi, ci sono davvero riuscito. Non si è trattato solo di libri, in realtà: anche film, documentari, tutto quello che sono riuscito a trovare a tema nazismo, a partire da Shoah di Claude Lanzmann, ma passando anche per la serie Heimat, nuove versioni colorate dei filmati della Guerra, lo splendido La caduta, e così via.

Con il senno di poi, posso dire che è anche grazie al nazismo che ho probabilmente superato così agilmente il lockdown. Detto così suona male, ma insomma. Non ne ho parlato con la mia analista, ma dopo tutti questi anni penso di essere abbastanza bravo in certe piccole autoanalisi, e quindi sì, è possibile che io abbia inconsciamente scelto di buttarmi su un tema gigantesco e orrorifico come il nazionalsocialismo – e la Seconda Guerra Mondiale e la Shoah – spinto dal bisogno di infilarmi, mentalmente, in una tragedia di dimensioni così abominevoli da farmi dimenticare o mettere in prospettiva la tragedia, sì diversa ma a suo modo angosciosa, in cui si trovava il mondo e la mia piccola vita nel marzo 2020.

Stare chiuso in casa, e per di più da solo, ha in un certo senso aiutato l’immersione nel micromondo nazista. È stato un esperimento? Non volontariamente, ma sempre con quel senno del poi, e cioè guardandomi indietro, è stato in un certo senso come guardare un film al cinema, anziché una serie tv sul divano. E cioè godendo di una situazione in cui le distrazioni erano ridotte al minimo, per l’impossibilità fisica di camminare per strada e assaporare il privilegio, minuto dopo minuto, e perlopiù inconscio, di vivere nel mondo che, il nazismo, lo aveva sconfitto.

Ho quindi iniziato dalle mille pagine di Le benevole (Jonathan Littell, Einaudi, 2007), audace e splendido proprio per il suo essere un libro di fiction ambientato in eventi reali, e cioè lo sterminio ebraico nei territori occupati dai nazisti in Est Europa, anziché una pur valida non-fiction. Mi sono spostato poi su In quelle tenebre di Gitta Sereny, l’intervista, lunga oltre 400 pagine e durata diversi giorni, con Franz Stangl, comandante del campo di sterminio di Treblinka. Stangl non diceva di aver eseguito gli ordini, ma accoglieva l’arrivo dei treni di prigionieri pronti per le camere a gas, già mezzi morti di stenti, sporchi di escrementi e altri liquidi, in un’uniforme bianca da cavallerizzo, e tuttavia sostenne di non essersi mai sporcato, lui, la coscienza con la Soluzione Finale: il suo compito, sosteneva, riguardava soltanto l’efficienza della macchina del campo, il lavoro dei detenuti, l’orto con cui riforniva la mensa degli altri Ss, i bei giardini fioriti che adornavano le baracche destinate ai nazisti: «È difficile farne oggi una descrizione adeguata», disse a Sereny con una tenerezza terrificante, parlando di Treblinka, «ma il posto diventò veramente bello».

Goebbels, Hitler, Miller

Mi sono poi spostato, seguendo la pista dei carnefici, su HHhH di Laurent Binet, questo sì una non-fiction su Reinhard Heydrich e l’Operazione Antropoide, cioè l’attentato ai suoi danni del 1942. Ma Heydrich è un nazista perfetto, forse il nazista più nazista che si possa immaginare, e nonostante il libro sia ottimo sotto diversi punti di vista, la figura umana che ne è al centro è meno interessante di Stangl o del finto Max Aue di Littell. In primavera, fortunatamente, usciva il saggio 1945. Otto giorni a maggio di Volker Ullrich, che ripercorre, come un diario in cui sono state incollate testimonianze, registrazioni, telefonate, lettere e dispacci, gli otto giorni dalla morte di Hitler alla resa totale della Germania, e qui si erge sì interessante e poco conosciuta la figura di Karl Dönitz, nuovo Fuhrer del Reich, che fa durare la guerra una folle settimana in più, rimpasta governi e gabinetti, conferisce ministeri, in una fuga disperata negli acquitrini bombardati della Germania settentrionale, come apparentemente soltanto un bambino o un pazzo potrebbe fare.

Nel frattempo, curiosamente, i paragoni di questo o quell’evento di politica ordinaria con il nazismo non diminuivano, nel mondo là fuori, ma anzi aumentavano, e nonostante il lockdown. Le reductio ad hitlerum mi sono sempre sembrate pretestuose quando non dannose, ma il paragonarsi, da parte dei no-mask e poi dei no-vax, agli ebrei perseguitati e costretti a portare una stella, riuscirebbero, con tutta probabilità, a fare impazzire qualsiasi strumentazione potesse essere adoperata per misurare la grandezza delle stronzate. Un altro tweet diventato virale, nei primi giorni di gennaio, mi ha fatto pensare a tutte quelle pagine lette: si riferiva all’invasione del Campidoglio da parte di un manipolo di squadristi americani del 6 gennaio, e diceva qualcosa del tipo: “se non è successo subito, non è detto che non succederà mai”. Poi mostrava due date: quella del primo tentativo di golpe di Hitler, nel 1923, e l’inizio della sua Cancelleria, nel gennaio di dieci anni dopo. Durante lo stesso tentativo di golpe, più o meno, su Twitter è circolata la fotografia di un uomo – un invasore – con indosso una felpa nera con scritto “Camp Auschwitz – Work brings freedom”, la traduzione dell’insegna Arbeit Macht Frei dell’ingresso del campo di Auschwitz I.

Nel frattempo, curiosamente, i paragoni di questo o quell’evento di politica ordinaria con il nazismo non diminuivano, nel mondo là fuori, ma anzi aumentavano, e nonostante il lockdown

Le similitudini, o meglio i paragoni, non sono finiti: gli ultimi giorni di un Donald Trump ferito e evidentemente non presente a se stesso sono stati paragonati a quelli di Hitler nel bunker di Berlino (ma il Führer era “pazzo” già da anni: già nel 1938, durante la crisi dei Sudeti, si dice che si rotolasse per terra in preda a isterismi nervosi, mangiando gli orli dei tappeti per sfogarsi). Stephen Miller, il consigliere considerato l’ideatore della politica di separazione dei bambini centroamericani dalle loro famiglie, questo davvero l’atto più puzzolente di quella lucidissima crudeltà nazista, è stato chiamato “the Joseph Goebbels of the Trump Administration”, anche se l’architetto della Soluzione Finale fu più che altro Heydrich, e Heydrich era “sospettato” (uso un termine volutamente “nazista”) di avere origini ebraiche, come d’altra parte succede anche al trumpiano Miller.

Volevo insomma scrivere di quanto il vero nazismo, quello degli anni Trenta e Quaranta, fosse poco conosciuto in alcuni suoi dettagli fondamentali e spaventosi, e anche contraddittori, e mentre scrivevo e cercavo paragoni con l’oggi, a poco a poco, trovavo però questi paragoni certo non perfetti, ma sempre più sensati. Quello che ho pensato, allora, è che il continuo richiamarsi al nazismo, anche quasi un secolo dopo la sua ascesa, lo renda una creatura storica complessa e ricchissima di risvolti così poco conosciuti, che potrebbe a suo modo generare un’interminabile archeologia di teorie come quella delle religioni monoteistiche, e cioè del cristianesimo o dell’ebraismo. Non sto paragonando Hitler a Gesù, ma la scarsità di informazioni precise che possediamo sul personaggio principale, e la natura profondamente religiosa dell’ideologia nazionalsocialista mi ha fatto pensare a lungo a quanto il tema del nazismo possa essere indagato ancora, per decenni e decenni. D’altra parte, per fare un esempio, non si è ancora stabilita una “vittoria” tra i “funzionalisti” e gli “intenzionalisti”, le due scuole filosofiche e storiche che discutono le genesi della Shoah: per i primi lo sterminio degli ebrei così come è avvenuto (e cioè, con un’organizzazione burocratica perfetta) non era premeditato, per i secondi era già nella testa del Führer nel 1924. Anche questo mi è tornato in mente guardando un meme. Portava la data del 2016, l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti, e diceva più o meno: “2016: Sono solo quattro anni, cosa può accadere di così disastroso?”. Nel 2021 conosciamo la risposta, forse ancora parziale.