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Il senso di Geolier a Sanremo

La prima polemica del Festival 2024 riguarda lui, la sua canzone e il dialetto napoletano.

di Marco Bianchessi

Le polemiche sui rapper non finiscono mai. Prima ci sono stati i dubbi etici con relative critiche ai testi, poi i problemi giudiziari, che hanno coinvolto e coinvolgono membri della nuova generazione (vedi alla voce Baby Gang), ma era difficile pronosticare polemiche linguistiche.  Ma, come spiega il Dr. Strange, «il multiverso è un concetto di cui sappiamo spaventosamente poco». E infatti a pochi giorni dall’apertura della nuova edizione del Festival di Sanremo, il rapper Geolier è stato trascinato in una surreale discussione che ha coinvolto i linguisti della lingua napoletana (non sono mancate le osservazioni dei neoborbonici), che hanno fortemente criticato il testo di “I p’ me, tu p’ te”, la canzone che il giovane rapper porterà a Sanremo, per questioni appunto di natura linguistica. Affermazioni che vanno da “Il napoletano non merita questo strazio” (dello scrittore Maurizio De Giovanni) passando per “Geolier, se vuoi davvero che il napoletano sia considerato impara a scriverlo” (della linguista Roberta D’Alessandro), fino a “mi è improvvisamente calata la vista e poi mi è apparso Salvatore Di Giacomo sanguinante in croce” (dallo scrittore e divulgatore scientifico Angelo Forgione).

Se la polemica può avere una base di verità, alla grandissima maggioranza delle persone tutto questo appare come un teatro isterico in cui una parte di establishment culturale si occupa di questioni delle quali non sembra avere piena consapevolezza. La cosa che fa abbastanza impressione, in questo caso, è come siano alcuni esponenti della stessa scena culturale napoletana a esporsi contro il rapper, in un meccanismo quasi di autosabotaggio: un approccio alle cose che, citando Stanis La Rochelle, si potrebbe definire “molto italiano”, in cui si cerca per forza il marcio, la stortura. Ciò detto, da quando nel 2009 è possibile, da regolamento, portare una canzone in dialetto, scegliere di cantare sul palco dell’Ariston non italiano è un fattore di grande rischio. Chiunque l’abbia fatto è sempre stato investito da polemiche e ha avuto risultati alterni, per esempio si ricorda Nino D’Angelo nel 2010 con “Jammo Ja” che arrivò alla dodicesima posizione, o Davide Van Des Froos nel 2011 con “Yanez” cantata in dialetto lombardo che stato accusato di “cantare l’Italia federale”– la canzone fu una delle più apprezzate della kermesse e si classificò quarta tra lo stupore generale.

Riportando il focus sulla questione, per Emanuele Palumbo, in arte Geolier, la presenza al Festival era legata a doppio filo alla questione linguistica: aveva infatti affermato di essere interessato a partecipare solo con una canzone in dialetto e adesso che lo sta per fare dice: «Cantare in napoletano su quel palco per me è già una vittoria. Se vinco o perdo, quello che volevo fare l’ho fatto. Quando dico che sono il primo napoletano ad andare con il napoletano a Sanremo, vuol dire che io sul quel palco ci sono arrivato cantando solo in napoletano» – e a giudicare dalla reazione del suo quartiere, ha ragione. “I p’ me, tu p’ te” è infatti il brano che presenterà all’edizione del 2024 del Festival. La presenza di Geolier a Sanremo è interessante perché, diversamente da diversi suoi colleghi, lui non è in una fase interlocutoria della carriera ma è, anzi, in piena esplosione. In tal senso, la vetrina sanremese non è necessaria per lui, che avrebbe potuto continuare nel suo percorso, consolidando lo status di rapper quasi generazionale e lavorando sotto traccia per realizzare un nuovo e ambizioso progetto. Questo ci racconta da un lato quanto Sanremo sia ringiovanito negli ultimi anni. Dall’altro ci dice anche quali siano le ambizioni di Geolier, consapevole di essere un rapper dal valore riconosciuto e desideroso di arrivare adesso a un pubblico più vasto.

Come si è giunti a questo punto è un altro discorso, che riguarda sia il valore che ha assunto la scena napoletana negli ultimi anni sia le peculiarità artistiche che Geolier ha messo sul piatto. Partendo dal contesto: è banale da dire (ma non per questo meno vero) che nel corso degli ultimi anni la scena napoletana ha vissuto una rinascita artistica, con tanti e validi artisti che hanno raccolto l’eredità di Luchè e Clementino. Inizialmente fu Capo Plaza, con la benedizione di Ghali e Sfera Ebbasta, a cui seguirono i vari Vale Lambo, Lele Blade, MV Killa, Nicola Siciliano e Yung Snapp, fino ad arrivare a Geolier, appunto. Tutto questo fervore artistico ha dato a Napoli una rilevanza nuova, le ha conferito un’identità artistica più varia rispetto agli anni del dualismo tra il rap dalle sfumature street di Luchè e quello dai tratti più colorati di Clementino.

Questa nuova generazione di artisti, come tutti i loro coetanei, ha puntato molto sull’utilizzo delle melodie come strumento di espressione, seguendo l’onda sia della trap d’oltreoceano (Future), ma anche guardando a quello che accadeva in Francia (Pnl, Booba). Questa scelta, abbinata all’uso del dialetto come lingua principale, ha completamente trasformato l’immagine della scena urban napoletana. Anche se, come dice lo stesso Geolier, i passi da fare sono ancora molti: «Serve una struttura, un’impalcatura dietro. Ora c’è lo status, ma bisogna prendere i talenti. Non è facile, soprattutto perché appunto manca la spinta. Guarda a Milano: ci sono i rapper, ci sono i produttori, ci sono i grafici, ci sono i videomaker. Qui a Napoli dobbiamo creare tutto». La decisione di sfruttare il dialetto come principale veicolo linguistico ha ripagato: da una parte perché ha dato un codice linguistico unico a questi artisti, una sorta di “vantaggio competitivo”, trasformando quello che per anni è sembrato un limite in un punto di forza; dall’altra è stata una scelta quasi politica nel non voler scendere a compromessi di ogni sorta e di arrivare al pubblico con le proprie peculiarità.

In questo contesto culturale si inserisce Geolier, che è riuscito più e meglio degli altri a coniugare questi aspetti. La sua lenta ma costante ascesa è iniziata con il singolo “P Secondigliano” feat. Nicola Siciliano, il classico street anthem che racconta il quartiere e le sue dinamiche (come poco più di un anno dopo avrebbe fatto Paky con “Rozzi”, tanto per intenderci), e che spiega benissimo che cosa sia capace di fare il rapper campano. La canzone si compone infatti di un ritornello appiccicoso a cui bastano pochi secondi per entrare nella testa di chi ascolta, semplice, dritto, comprensibile e con una melodia molto catchy, che è accompagnato da due strofe rap drittissime. In entrambi questi aspetti, il talento e la capacità di Geolier sono evidenti: è il rapper che più di tutti è riuscito a coniugare in maniera efficace le melodie della scuola 2016 con il rap più tradizionale. Luchè dice di lui: «In lui vedo la voce della strada». Anche Guè gli ha dato il suo endorsement: «È un rapper molto prolifico, ha una voce bellissima, spacca perché non ha solo la parte street ma anche una amorosa. Molto figo, unico».

Il passaparola social ha fatto il resto e nel 2019, a strettissimo giro, è arrivato il primo album: Emanuele, un successo commerciale anche se musicalmente non così efficace, neanche lontanamente paragonabile al suo secondo lavoro, Il coraggio dei bambini, progetto curatissimo. Nel mezzo molti featuring e una hit da quasi 150 milioni di streaming con Shablo e Sfera Ebbasta, “M Manc”. E il suo treno non sembra rallentare, perché è già annunciato da tempo un suo prossimo joint album con Luchè – che proprio in lui ha indicato il suo erede – e ora la partecipazione al Festival, in attesa del tour estivo che lo porterà a essere il primo rapper a riempire lo Stadio Maradona il 22 giugno.

Insomma, la porta del successo è spalancata davanti a un artista che ormai non è più un giovane di belle speranze ma un big della scena italiana . Che cosa aspettarsi nel prossimo futuro è invece un bel dilemma, avendo raggiunto in pochi anni quello che molti impiegano un’intera carriera a ottenere. Ma questo è il bello di seguire la traiettoria artistica di talenti come Geolier: scoprire cosa riusciranno a produrre nei prossimi anni. Magari un disco in italiano? Forse, ma come ha detto lui stesso: «lo farei solo per dimostrare agli altri di essere fortissimo a fare il rap anche in italiano».