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Geoff Dyer e la bellezza della noia

Perché un assurdo riassunto scena per scena di un film di Andrej Tarkovskij è una delle opere letterarie più importanti degli ultimi anni.

di Fabrizio Spinelli

«Ci sono poche cose al mondo che odio di più di quando qualcuno, nel tentativo di convincermi a vedere un film, si mette a riassumerlo, a spiegare la trama, distruggendo in tal modo qualunque possibilità che io vada a vederlo», scrive Geoff Dyer nel bel mezzo di Zona (un libro del 2012 portato adesso in Italia dal Saggiatore nella traduzione di Katia Bagnoli), apparentemente proprio un assurdo riassunto scena per scena di uno dei film più famosi (e meno riassumibili) della storia del cinema, e cioè Stalker di Andrej Tarkovskij. «Un bar deserto, probabilmente chiuso, con un solo tavolino, di quelli alti e rotondi a cui ti appoggi – sgabelli non ce ne sono – mentre bevi stando in piedi. Se le assi del pavimento potessero parlare, queste avrebbero parecchie storie da raccontare», recita lo straniante inizio del libro, descrivendo fedelmente la prima scena del film. La sensazione che ho avuto, come lettore, andando avanti nelle pagine, è stata quella di un esploratore spedito su un territorio letterario ancora non cartografato, di un mineralista alle prese con un monolite alieno.

Non che non mi sia mai imbattuto in un’ekphrasis (fondamentalmente, l’espressione verbale di un oggetto visivo), ma perché quella di Dyer è un’ekphrasis paradossale e dinamica, una sorta di live reaction a due ore e mezza di movimenti di macchina impalpabili, dialoghi filosofici, allusioni bibliche e immagini bellissime. Tuttavia, per quanto possa apparire controintuitivo, in molte pagine del libro la descrizione vera e propria del film sembra essere solo uno sfondo, un pretesto a partire dal quale lo scrittore inglese parla del più e del meno, snocciolando aneddoti inquietanti su Tarkovskij, raccontandoci tasselli della sua infanzia e della sua giovinezza (la taccagneria del padre, l’Lsd, una festa a cui è andato con un’ex fidanzata serba), almanaccando citazioni di Heidegger, Nietzsche e Merleau-Ponty, lanciandosi in ardite speculazioni estetiche, il tutto senza mai rinunciare ad esprimere giudizi idiosincratici sulla storia del cinema: «Il fascino discreto della borghesia e Bella di giorno di Bunuel facevano schifo. Fino all’ultimo respiro di Godard era inguardabile. Paragonato a La doppia vita di Veronica di Kieślowski, qualsiasi porno sembrava un prodotto raffinato».

I tre protagonisti di Stalker (1979) di Andrej Tarkovskij

È come se nelle quasi duecento pagine del libro tentassimo in tutte le maniere di vedere Stalker ma fossimo continuamente distratti dal chiacchericcio svagato di un amico ipercolto, al punto di dimenticarci totalmente del film, o di arrivare a mettere in dubbio la sua stessa esistenza. Questo rende perciò Zona idealmente più vicino a opere come Fuoco Pallido di Nabokov o al Nuovo commento di Manganelli, che a capolavori ecfrastici come Self-Portrait in a Convex Mirror di Ashbery, Antichi Maestri di Bernhard o Il museo di Reims di Del Giudice. Se non avessi visto Stalker almeno una mezza dozzina di volte, forse avrei sul serio pensato per qualche minuto (prima di cercarlo su Google) che il film fosse solo un’invenzione di Dyer – un’oscura pellicola allegorica girata in Estonia da un regista russo invasato che è anche il figlio di uno dei più grandi poeti del Novecento – una possibilità che avrebbe reso Zona un libro ancora più bello di quello che realmente è.

Tuttavia, al di là di quello che l’autore dice ironicamente a un certo punto e cioè che avrebbe fatto meglio «a riassumere un film diverso, Dove osano le aquile, per esempio» (cosa che poi alla fine ha fatto in un libro che uscirà nel 2019 per Penguin), la scelta di Tarkovskij è tutt’altro che casuale. Dyer sembra ossessionato da Stalker, e riconosce nella singolare concezione del tempo e nella dialettica noia-concentrazione due degli aspetti più caratteristici della poetica del regista russo. Se «Antonioni amava le sequenze lunghe, Tarkovskij è andato oltre. Se la lunghezza normale di una ripresa viene aumentata, lo spettatore si annoia, ma se la allunghi di più cattura il suo interesse, e se la allunghi ancora di più viene fuori una qualità nuova, una particolare intensità di attenzione», e ancora poco oltre: «Appena l’uomo attraversa i binari una voce fuori campo ci dice che tutto è “disperatamente noioso” – un’osservazione che ci induce a chiederci quanto possa metterci un film a diventare noioso. Qual è il film che detiene il record di questa particolare categoria? E quel film non dovrebbe essere automaticamente definito entusiasmante e dinamico, visto che è in grado di avvolgere lo spettatore così velocemente nel pruriginoso lenzuolo della noia?».

Una scena di Stalker (1979)

Qualche pagina avanti stiamo affrontando una sequenza paesaggistica molto bella (lo Scrittore, il Professore e lo Stalker, i tre protagonisti del film, viaggiano su un «vagoncino scoppiettante» lungo dei binari abbandonati verso la misteriosa Zona) e Dyer coglie perfettamente quel collassare di interno-esterno, concreto-astratto, reale-irreale (quel trasformarsi della noia, improvvisamente, nel suo opposto) così tipico di Tarkovskij: «Non abbiamo alcuna fretta di veder finire questa scena, in parte perché è difficile rendersi conto della sua durata. Il fatto che lo Scrittore sembri essersi appisolato suggerisce l’idea che in questo viaggio, così lineare, stiamo andando alla deriva in un tempo non lineare, dentro un tempo onirico, ma un tempo onirico dove ogni cosa, ogni prezioso particolare, resta ancorato saldamente al qui e ora […].  Ed ecco che avviene un miracolo […]. Non è un taglio nel montaggio o una dissolvenza, ma il trovarsi, con subitanea delicatezza […] nella Zona. Si può rivedere la sequenza del vagoncino all’infinito, rifiutarsi di soccombere alla sua ipnotica monotonia, però non si riuscirà mai a prevedere quando arriverà questo momento di transizione così sottile e assoluto».

Questo concetto di un’opera che «tremola continuamente sull’orlo della noia», e così facendo crea nel fruitore una paradossale attenzione immersiva, ritorna spesso nella produzione saggistica di Dyer. Parlando dei romanzi di Sebald o paragonando Aether e Drive By dei The Necks ai rāga indiani, lo scrittore impiega espressioni molto simili a quelle utilizzate per Tarkovskij. Cito due brevi passaggi da Otherwise Known as the Human Condition. Selected Essays and Reviews 1989-2010 (tradotto in italiano da Giovanna Granato per Einaudi con il titolo di Il sesso nelle camere d’albergo): «La prosa ipnotica di Sebald culla il lettore inducendolo a un torpore di attenzione amplificata. Dopo un po’ di tempo (molto più di quello che saresti normalmente disposto ad aspettare) senti che l’aver voluto evitare qualunque cosa somigli a uno slancio ha generato davvero uno scopo e una direzione tutti suoi […]. È quel tremolio, quella perenne incertezza, quell’aleggiare a un soffio dall’involuzione in un tedio senza fine (un baratro sbadigliante, per così dire), a generare la suspense tutta particolare – il senso, per l’esattezza, di narrazione sospesa – che rende la scrittura di Sebald così avvincente». Passando ai The Necks, Dyer afferma che «si è indotti a trovarli monotoni, poi ci si accorge che la musica è cambiata, completamente, anche se non ci capisce quando. È immutabile e cambia di continuo. Temi e motivi si avvicinano dall’orizzonte e si allontanano come se un impulso dietro l’album [Drive By] fosse cartografare le possibilità musicali dell’effetto Doppler».

Se da un lato, quindi, Zona prova a rispecchiare questo senso di dilatazione, di impalpabilità trasognata e regressiva («se riassumere significa ridurre a una sintesi, allora il mio è l’opposto: è un’amplificazione, un’espansione»); dall’altro frustra continuamente questa tensione con digressioni ironiche e note eccentriche che spostano l’attenzione del lettore dal film alla voce che lo sta descrivendo. A metà fra saggio, ekphrasis, autobiografia e reportage (gran parte dell’operazione inscenata da Dyer potrebbe infatti essere riassunta nelle seguenti domande: “Cosa succede se uno scrittore famoso si chiude in una stanza a guardare e riguardare lo stesso film per settimane? Che tipo di libro scriverà poi per raccontare la sua esperienza?”) Zona è una delle opere pubblicate negli ultimi anni che forzano con più violenza i confini dello spazio letterario contemporaneo, mescolando generi e registri, critica e narrativa, ironia e cupe meditazioni metafisiche, prosa e poesia.