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Sono della Generazione X, non chiamatemi boomer

Soppiantata da Millennial, Gen Z e pure dai boomer, alla Generazione invisibile resta almeno la soddisfazione di aver prodotto un grande romanzo: Generazione X di Douglas Coupland, tornato in libreria grazie ad Accento Edizioni.

di Cristiano de Majo

Negli ultimi anni la parola boomer è diventata un sinonimo di vecchio, ed essendo “vecchio” un concetto molto elastico, soprattutto per i più giovani, boomer è stata applicata indiscriminatamente a chiunque abbia più di quarant’anni. Oggi quando sento qualche ventenne sui social dare del boomer a un mio coetaneo, soffro e mi viene da rispondere: “Ehi, non siamo quelli che hanno rubato le vostre pensioni”, o anche: “Ehi, non siamo quelli che hanno vissuto un’esistenza privilegiata con il posto di lavoro sicuro e prospettive rosee sul futuro”. Perché spesso la sensazione che ricevo è proprio questa: una grande confusione all’ombra del discorso generazionale, che tra l’altro è diventato un esercizio diffuso e quotidiano, prima coi Millennial e ancora di più oggi con la Gen Z. Quello che percepisco è che la Generazione X, di cui faccio parte, sia finita completamente nel dimenticatoio, e non sia neanche considerata un termine di paragone. Per i Gen Z ci sono i Millennial e poi dopo i vecchi, cioè i boomer.

Tutto questo discorso, ironicamente, potrebbe essere rubricato nella “Manutenzione tribale”, ovvero: «La necessità di una determinata generazione di ritenere deficitaria quella successiva, allo scopo di rafforzare il proprio ego collettivo». Definizione che insieme a tantissime altre, bellissime, brillantissime, si trova in Generazione X, un libro del 1991, scritto da Douglas Coupland, appena ripubblicato da Accento con traduzione rivista di Marco Pensante e prefazione di Matteo B. Bianchi. Romanzo di culto, come si dice a volte anche un po’ a sproposito, ma in questo caso è perfetto, la cui uscita mi offre la possibilità di fare chiarezza su cosa sia stata la Generazione X.

 

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Partiamo da un dato potenzialmente sconvolgente e che forse non tutti sanno: il titolo di questo libro è non solo l’origine del nome di quella generazione, ma anche di tutte quelle che sono venute dopo: Y (ok, sono più conosciuti come Millennial), Z, e ora Alpha. Nati tra il 1965 e il 1980, i Gen X sono in sostanza i figli dei Baby Boomer. I Baby Boomer hanno vissuto il boom economico e demografico degli anni ’60, i Gen X no. I Gen X al contrario sono i primi ad aver visto annerirsi il futuro. Sullo sfondo di un quadro geopolitico piuttosto tranquillo e di un quadro economico di benessere generalizzato ma in declino (la dissolvenza della Guerra fredda, il crollo del Muro di Berlino, il disarmo nucleare, il liberismo di Reagan e Thatcher che avrebbe completamente trasformato il mercato del lavoro), sono i primi ad aver fatto i conti con la mancanza di prospettive, con l’assenza di un’idea di futuro. I Gen X si sposano molto più tardi dei loro genitori, e sono la prima generazione per cui non fare figli è un fatto socialmente accettabile. Gen X sono i Nirvana, ma anche l’house, la techno, la cultura rave e il rap, che emanano la loro influenza fino a qui. Gen X è Bret Easton Ellis, ma anche David Foster Wallace. Tre film che raccontano in modo diverso, ma sempre emblematico, la Generazione X sono Clerks di Kevin Smith (1994), My Own Private Idaho (1991) di Gus Van Sant e Fight Club di David Fincher (1999). Ci sarebbero altri mille titoli da citare, ovviamente, ma è abbastanza, credo, per poter formulare il dubbio che mi attanaglia: perché, così come noi Gen X siamo cresciuti nutrendoci del mito degli anni Settanta, il mito della contestazione, del ’68 e del Maggio parigino, della cultura hippie, del rock e del punk, trasmesso con enfatico storytelling dai nostri genitori, le generazioni che sono venute dopo di noi non hanno fatto altrettanto con la Generazione X? Eppure stiamo parlando di qualcosa che a livello culturale è stato altrettanto influente. Vedo continuamente girare sui social santini di Kurt Cobain, la musica elettronica e il rap sono ancora gli stessi, più o meno, che ascoltavamo nella metà degli anni ’90, la moda non ne parliamo, e potrei continuare così a lungo: perché allora lo stesso ragazzo che celebra i Nirvana su Instagram è quello che commenta: «Ok boomer, tu parli così perché sei un privilegiato, hai avuto il posto fisso e ci hai rubato il futuro?».

Una parte della risposta è che c’è sicuramente un conflitto generazionale naturale in cui quelli più giovani danno la colpa della loro condizione a quelli più vecchi e quelli più vecchi considerano i giovani dei buoni a nulla, analfabeti che non capiscono un cazzo (la “manutenzione tribale” appunto), e così nei secoli dei secoli. Ma un’altra parte della risposta, forse più spiazzante, è che è colpa nostra, colpa, tra virgolette, dell’attitudine di noi della Generazione X e me lo ha ricordato la lettura del libro di Coupland.

Generazione X (il libro): è un romanzo ma anche un formidabile trattato sociologico pop. Di base è la storia di tre circa trentenni (Andy, Claire e Dag) che rinunciano ai loro lavori “normali” e alle ambizioni di carriera per rifugiarsi in dei bungalow nel deserto californiano, e dedicarsi a quelli che Coupland chiama “McJob”, cioè lavori sottopagati senza prospettiva, e poi passare il resto del tempo a non fare praticamente nulla, se non raccontarsi storie personali, che sono altrettanti ritratti generazionali. Vita da ufficio, relazioni impantanate e fughe dalle responsabilità. A rileggerlo oggi, emerge la sorprendente attualità di un mondo che allora si andava appena delineando, ma che è arrivato pressoché intatto fino a qui: precarietà sentimentale e professionale, dominio delle merci e della tecnologia, gusti e persino dettagli microscopici, come il locale che fa le insalate che ogni giorno inventa un condimento nuovo («Oh! Guarda qui! Cardamomo! Proviamo a mettercene un cucchiaino»). Ma emerge anche un’altra cosa, che io stesso avevo quasi dimenticato con il passare degli anni, ma che mi è riapparsa in modo chiarissimo come qualcosa che ha condizionato le mie scelte e il mio modo di essere nel mondo e cioè: il rifiuto dell’ambizione come risposta pre-politica alla società che si andava costruendo sotto i nostri occhi. Il rifiuto di esserci, di apparire, di far sentire il proprio peso; del resto “Generazione invisibile” è stato un altro modo di chiamare la Generazione X. Qui c’è la chiave per capire diverse cose secondo me: l’attitudine dei successivi Millennial, che per opposizione è stata idealista e presenzialista, per esempio, ma anche il perché tutti sembrano essersi dimenticati di noi: è perché non ci volevamo essere.

Ciononostante, vi sarei molto grato se la smetteste di chiamarmi boomer.