Cultura | Letteratura

Franz Kafka, disegnatore

Dopo la trafila legale terminata un paio d’anni fa, possiamo finalmente vedere quello che è rimasto dei disegni dello scrittore, a colori e nelle dimensioni pressoché originali, nel volume appena uscito per Adelphi.

di Giulio Silvano

Esistono pochi autori per i quali l’epicità della loro storia editoriale è al livello della grandezza letteraria delle loro opere. Franz Kafka ne è sicuramente il prototipo. È di dominio comune, oltre che fonte di speranza per chi si sente artista incompreso in vita, l’epopea di come l’umanità ha potuto poggiare gli occhi sui portentosi capolavori narrativi come Il processo o Il castello solamente dopo la morte dell’autore. Si pensa che Kafka, in vita, bruciò quasi il novanta percento di ciò che aveva scritto; quando morì nel 1924 venne trovato un testamento per l’amico Max Brod. Gli diceva di distruggere tutto quello che era rimasto, manoscritti, appunti, taccuini e fogli sparsi. Andando contro il volere dell’amico, Brod negli anni Venti fece pubblicare alcuni romanzi per l’editore berlinese Verlag die Schmiede. Nel 1939, infilati tutti i testi in una valigia, Brod, fervente sionista, lasciò l’Europa passando per Costantinopoli e si stabilì a Tel Aviv. La proprietà di gran parte dei manoscritti venne poi lasciata alla fedele assistente di Brod, Ilse Hoffe, che a sua volta lo lasciò alla figlia Eva, che viveva con lei. C’è un dettagliato racconto fatto da Elif Batuman per il New York Times Magazine della casa di Eva Hoffe, a Tel Aviv dove, insieme alle preziosissime carte, vivevano dai quaranta ai cento gatti. Una battaglia giudiziaria tra Eva e la Biblioteca Nazionale d’Israele, iniziata nel 2007 e finita un paio d’anni fa, ha permesso allo stato di andare a ritirare i documenti nella casa infestata di felini e di farli diventare di dominio pubblico.

Nelle scatole non c’erano solo scritti, ma anche dei disegni. Kafka infatti per tutta la vita a bordo dei taccuini o nei diari di viaggio fece schizzi e disegnini. Ma non si trattava solo di un’attività collaterale data dalla noia, come uno può disegnare una caricatura del proprio professore durante la lezione. Kafka prendeva seriamente il disegno, aveva un quaderno dedicato ai suoi lavori grafici e, negli anni universitari a giurisprudenza, seguì corsi d storia dell’arte e lesse diversi libri specialistici, su Rembrandt e sulla stampa giapponese. Brod, che aveva già capito la grandezza dell’amico, ritagliava gli schizzi che lui faceva, o recuperava dal cestino i fogli che buttava via su cui aveva disegnato, quando erano entrambi studenti. Brod provò anche a convincere il suo editore, intorno al 1907, a prendere Kafka come illustratore, scegliendo un suo disegno per la copertina del suo secondo libro Experimente, scrivendogli: «È di un disegnatore ancora sconosciuto che ho scoperto io: si chiama Franz Kafka». I due, per l’intraprendenza da socialite di Brod, conobbero anche alcuni artisti a loro contemporanei, come Alfred Kubin, con cui rimasero in buoni rapporti.

Il riconoscimento di Kafka per i propri disegni come opere è consolidato anche dal fatto che nel testamento lasciato a Brod, insieme a romanzi, questi vengano menzionati espressamente. In una delle lettere a Felice scrive: «Una volta ero un grande disegnatore … a quel tempo, ormai anni fa, quei disegni mi hanno appagato più di qualsiasi altra cosa». Noto per aver cercato di controllare tutta la vita l’immagine di Kafka, Brod rese pubblici solo alcuni di questi disegni che vennero usati in certi casi per le copertine dei libri, come quei Fischer Bücherel degli anni cinquanta che sembrano Penguin tascabili tedeschi. Dopo la trafila legale terminata un paio d’anni fa, oggi possiamo vedere tutto quello che è rimasto del lavoro di disegnatore di Kafka, a colori e nelle dimensioni pressoché originali, nel volume I disegni di Kafka, appena uscito per Adelphi, che segue l’edizione tedesca del 2021 a cura dello studioso Andreas Kilcher (tradotto in italiano da Ada Vigliani). Per anni i diversi interpreti di Kafka hanno cercato di vedere nei suoi disegni “tentativi di magia primitiva” o “geroglifici” privati, ma, scrive Kilcher, questi disegni «devono essere innanzi tutto presi sul serio nella loro ambizione figurativa e nella loro espressione artistica».

Le figure, spesso sull’orlo del grottesco, a volte di dubbia natura umana, lineari e curvilinee, come silhouette agitate e contrite, appartengono pienamente all’universo kafkiano, a quella Praga mai citata, a quella mitteleuropea sull’orlo della catastrofe, tanto quanto i personaggi inquietanti de Il processo. Sembrano sempre in movimento questi omini fluidi o angolosi, che saltano o ballano o fuggono, trafelati, convulsi, spiritati. Gli omini neri, senza volto, solissimi, sembrano incastrati nell’abisso dell’esistenza e si portano le mani agli occhi, o poggiano la testa sulla scrivania, disperati. Le figure in gruppo invece, che camminano come sulla strada di una città europea, sembrano i soggetti di quella che Musil chiama una «massa consenziente, capace di qualunque eccesso nel bene come nel male, e incapace di ragionare». Ci sono poi, nei fogli sciolti, anche alcuni dettagliati ritratti e autoritratti a matita, spaventosi e realistici, e una caricatura abbozzata di Gabriele D’Annunzio. Come afferma Roberto Calasso, in un testo che chiude il volume: «Canetti ha scritto che Kafka è l’unico scrittore che non si sia mai “gonfiato”. Lo si vede per l’ostilità all’accrescimento della linea. Non deve accrescersi, non deve diminuire. La linea non ha aggettivi. È l’unica forma sicura che si offra. Il resto è caos».