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Michel Faber e la scoperta di Battiato

Lo scrittore de Il petalo cremisi e il bianco racconta il suo personalissimo rapporto con il musicista italiano in un'anticipazione dal nuovo numero della rivista Pantagruel.

di Michel Faber

Quella che segue è un’anticipazione del secondo numero della rivista Pantagruel (La Nave di Teseo) dedicata tutto a Battiato e curata da Eugenio Lio ed Elisabetta Sgarbi, in edicola dal 12 dicembre. 

Forse è la vendetta degli anglosassoni nei confronti dell’impero romano. O forse è solo il modo in cui funziona la storia, che punta i riflettori su poche fgure e consegna le altre all’oscurità. Ma quando sono cresciuto io, in un Paese anglofono, il nome Franco Battiato non significava nulla. Non per me, né per qualcuno che conoscessi. L’Australia era (e rimane) parte dell’angloimpero, i cui centri dominanti sono gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Noi anglosassoni scriviamo la storia del mondo e decidiamo quali sono le canzoni “universali”. Se vuoi che ci accorgiamo di te, abbandona la tua lingua e parla la nostra! I nostri media non hanno né tempo né spazio per canzoni che non siano tradotte in inglese.

E così quand’ero bambino, in Australia, la radio non trasmetteva mai canzoni cantate in una lingua straniera. Quante parole italiane c’erano in “That’s Amore” di Dean Martin? Più o meno sette, secondo me, se contiamo anche “pizza”. C’erano dieci parole francesi in “Michelle” dei Beatles e tre spagnole in “Una paloma blanca” dei George Baker Selection (il cui cantante Johannes Bouwens si era cambiato il nome in George Baker perché un nome olandese non ce l’avrebbe mai fatta nel mercato “internazionale”). “Guantanamera” e “La Bamba” erano invece riuscite, chissà come, a intrufolarsi.

I miei genitori guardavano Nana Mouskouri in tivù e si divertivano quando a volte lei cantava qualcosa in greco, spalleggiata dagli Athenians che indossavano abiti tradizionali. La Mouskouri era per un pubblico di mezz’età, però. E in ogni caso la tivù le era concessa solo perché parlava un buon inglese. Una volta all’anno c’era l’Eurovision Song Contest. Gli americani non lo consideravano minimamente, perché gli americani hanno un’idea vaghissima di cos’è l’Europa, ma ai britannici piaceva parecchio, perché gli dava la possibilità di prendere in giro gli europei per il fatto di non essere anglosassoni. Come sono kitsch i tedeschi! Come sono… tedeschi! E gli italiani! Che narcisisti! Quanto sono assurdi! Quel disprezzo nascondeva la convinzione che le cose importanti, nella musica moderna, le avessero inventate gli anglosassoni. Il blues, il jazz, il rock’n’roll, il soul, il rap, Elvis Presley, Bob Dylan, i Beatles, David Bowie: avevamo tutto. L’Italia cos’aveva? “Gloria” e “Ti amo” di Umberto Tozzi, tradotte in inglese e cantate da Laura Branigan, una ragazza di New York.

Cominciai a mettere in discussione questa concezione anglocentrica verso i sedici anni. Avevo scoperto il Krautrock e mi ero reso conto che la Germania era una fucina di grande musica. Ma il Krautrock era soprattutto strumentale, oppure cantato in inglese. Persino i Kraftwerk di solito facevano uscire i loro album in due lingue: la loro e quella che li avrebbe fatti entrare nei libri di storia del rock. Alla fne degli anni Settanta sviluppai un gusto per il rock progressivo italiano. Era uscito Deep Red, film horror con l’attore inglese David Hemmings, una versione doppiata di Profondo rosso di Dario Argento con colonna sonora dei Goblin, in realtà. Comprai l’LP, prodotto dalla Cinevox. “Colonna sonora” suonava molto più esotico di soundtrack. Peter Hammill, il leader dei Van der Graaf Generator, gli dei del prog britannico, aveva inoltre tradotto in inglese l’album delle Orme Felona e Sorona, e la PFM aveva firmato con l’etichetta Manticore degli Emerson, Lake & Palmer, facendo il possibile per “sfondare” in Inghilterra e negli Usa.

Ovviamente “sfondare” voleva dire mollare l’italiano. Notai quasi subito che gli italiani erano impacciati quando cantavano in inglese. Qualcosa non funzionava quando quelle voci e quei testi venivano costretti in un’altra struttura. Se volevo ascoltare quella musica nella sua forma migliore, era ovvio che dovevo andare a cercarmi i dischi in edizione originale. Ciò mi condusse a un mondo al di là del portale anglosassone, dove un migliaio di band italiane di rock progressivo erano ascese e cadute, spesso producendo un solo eccentrico album prima di scomparire. La scoperta più significativa fu quella degli Area, un gruppo meno forito e più all’avanguardia degli altri, che si sposava col modo in cui i miei gusti si stavano evolvendo alle soglie degli anni Ottanta. Ma Battiato continuava a sfuggirmi. Non faceva veramente prog, e nemmeno era punk o post punk. E gli album che aveva fatto nella seconda metà degli anni Settanta, come Clic, M.elle le “Gladiator”, e L’Egitto prima delle sabbie erano così rigorosamente d’avanguardia che anche se li avessi scoperti, cosa che non avvenne, sarei probabilmente andato oltre.

Negli anni Ottanta, quando ero immerso negli Psychic TV, nei Coil e negli Einstürzende Neubauten, Battiato era tornato a fare musica pop, componendo brani che avrei potuto considerare New Age se li avessi ascoltati: cosa che, di nuovo, non avvenne. Nessuno nel mio entourage – compresi critici musicali che si vantavano di avere gusti onnivori e una conoscenza enciclopedica – lo aveva individuato. Il 1984 fu l’anno in cui Battiato ebbe il suo momento di grande visibilità internazionale: cantò con Alice “I treni di Tozeur” all’Eurovision Song Contest. Mi persi anche questo. Nel 1984 lavoravo come infermiere a Sydney. Non avevo la tivù e avevo perso ogni interesse per la musica pop. Le rare volte in cui andavo a un concerto, era il tipo di cosa in cui eroinomani rovinati percuotevano i violini con le bacchette e lanciavano carne cruda al pubblico. Cos’avrei fatto dei “Treni di Tozeur”, se l’avessi incontrata allora?

Forse l’arrancare meccanizzato delle percussioni anni Ottanta e il tintinnio cupo delle tastiere mi avrebbero infastidito. Ma mi auguro che la qualità della composizione mi avrebbe comunque intrigato. “I treni di Tozeur”, come molte altre canzoni “pop” di Battiato, non è costruita come si costruisce di solito una canzone pop, con un verso semplice che si ripete, un ritornello e magari una mezza ottava. Sembra più un brano di musica classica. Imbocca una via imprevedibile e, se sei pronto per l’avventura, ti dà il benvenuto. Oggi “I treni di Tozeur” mi riempie di gioia ogni volta che la ascolto. La sua profondità lirica e l’elegante composizione sono tipiche di Battiato, ma sono rare nella musica pop e rasentano il miracolo nel mondo dell’Eurovision. In Italia fu un successo e se l’avessero mandata in onda in una radio anglofona avrebbe magari sedotto milioni di australiani, britannici, canadesi, neozelandesi e americani. Ma ovviamente non la mandarono in onda. Era in italiano, e c’era anche un po’ di tedesco. Doppiamente squalifcata! Non scoprii Battiato fino a quando non andai in Italia verso la metà degli anni Duemila, sull’onda del successo del Petalo cremisi e il bianco. La sua carriera, ben lungi dall’essere finita, era ormai conclamata come quella di ogni grande figura della musica moderna. I critici rock anglofoni continuavano a fare liste dei cento migliori di qua e dei cinquanta migliori di là e consideravano un dovere la scoperta di oscuri brani di artisti emergenti, a patto che non fossero pezzi di stranieri che non avevano nemmeno l’accortezza di cantare in inglese.

Franco aveva provato a cantare in inglese qualche volta, ma non gli riusciva molto bene. Non si sarebbe mai reinventato come Frank Batt e non avrebbe mai messo piede al David Letterman Show. Mentre la mia carriera letteraria decollava, Battiato continuava a produrre opere significative e durature in vari stili, opera, elettronica e heavy rock compresi. I suoi vecchi album erano usciti in Cd e in una delle mie spedizioni a Mantova o a Milano ne comprai una pila e me li portai in valigia in Scozia. Fu così che cominciò un amore che dura ancora oggi. Condividevo quell’amore con mia moglie Eva. Eva era un’artista, e mentre dipingeva o disegnava si affidava a una selezione abbastanza limitata di Cd che le tenessero compagnia o la ispirassero. Avevo migliaia di album da proporle, ma lei si accontentava di dieci titoli o poco più. Uno di questi era 1880-1990 – One Hundred Years of Music, un album live di Steven Brown e Blaine L. Reininger: in pratica il concerto a cui avevamo assistito al Teatro Politeama di Cascina nel 1990, la prima volta che eravamo andati in Italia. Un altro era una compilation di pezzi strumentali di David Bowie. E un altro ancora Sulle corde di Aries di Battiato.

Col passare degli anni sentivo spesso filtrare dalla porta del suo studio-camera da letto il finale di “Sequenze e frequenze”, quella fantasmagoria in stile Terry Riley. Più avanti Eva aggiunse un altro Cd alla sua elitaria schiera di compagni musicali: Shadow, Light. Si trattava, in realtà, di una compilation tratta da tre album diversi: Messa Arcaica nella sua totalità e alcune canzoni da Cafè de la Paix e Come un cammello in una grondaia. Eva adorava l’intero Cd, ma la canzone per cui mi chiamava, per ascoltarla insieme – una canzone troppo bella e arrabbiata per poterla usare come semplice sfondo per un’altra attività – era Povera patria, il disperato grido di rabbia di Battiato contro la corruzione dei politici italiani. Nel 2008 l’intero organismo di Eva si rivelò corrotto. Le avevano diagnosticato un mieloma multiplo, un tumore incurabile del midollo spinale. Finì per sopravvivere per altri sei anni, ma quando all’inizio ci diedero la notizia e andammo a documentarci su internet, e parlammo con il medico ignorante e provinciale dell’ospedale di Inverness, la sensazione che ne ricevemmo fu che Eva potesse morire nel giro di qualche mese.

Sembrava assolutamente ragionevole temere che le rimanesse un solo compleanno da festeggiare. Che regalo si fa a una moglie per il suo ultimo compleanno? Questa era una delle tante domande che mi frullavano per la testa all’inizio del 2009. Decisi di contattare tutti i musicisti di cui Eva amava la musica e di chiedere loro di comporre un pezzo per lei. Non specificai che tipo di pezzo speravo facessero. Li rassicurai dicendo che non dovevano sentirsi obbligati a venirsene fuori con un inno alla vita, all’universo e compagnia bella. Dovevano semplicemente fare della musica di cui andavano feri e dedicarla a Eva. Tutti quelli a cui mi ero rivolto mi risposero promettendo un pezzo, anche se tre di quei brani non arrivarono mai. Sentivo i musicisti di nascosto, e il disco prese forma lentamente a mano a mano che ricevevo le tracce via posta o come file digitali.

Quando avevo concepito il progetto, avevo pensato di restringere il contributo agli artisti che l’avevano conosciuta di persona o che sapevano (come minimo) chi fosse. Non avevo voglia di mandare mail dal nulla a personaggi famosi per chiedergli di fare un favore a una malata terminale di cancro che non conoscevano nemmeno. Avrebbero potuto benissimo pensare che si trattasse di spam. E poi la lista di musicisti che conoscevano Eva era abbastanza consistente. Ottenni il contributo di Tom Ellard dei Severed Heads, di Peter Hammill, dei Faust (due pezzi incredibili, fra i miei preferiti di tutti i tempi), di Robyn Hitchcock, Baby Dee, Brian Eno e molti altri meno noti, tutti amici di Eva. Alla fne feci due eccezioni alla  regola “niente sconosciuti”: Tim Finn e Franco Battiato. Tim Finn (degli Split Enz e dei Crowded House) perché “Six Months in a Leaky Boat” era la canzone pop preferita di Eva del passato. E Franco Battiato perché Eva amava moltissimo la sua musica nella vita di tutti i giorni nel presente.

Tim Finn mi mandò una versione a cappella appena registrata di “Six Months in a Leaky Boat”, completa di introduzione nel suo accento biascicato neozelandese: «Ciao Eva, sono Tim da Auckland, sono qui con Eddie Rayner, il mio vecchio compagno degli Split Enz, e… ah, non ci conosciamo ma questa è per te…». Mi fu chiaro, non appena la ricevetti, che quella canzone doveva aprire l’album. Contattai Franco Battiato tramite la sua amica Elisabetta Sgarbi. Non ci sentimmo mai direttamente (anche se un paio di anni dopo, quando mi trovavo con Eva a Milano durante una tregua fin troppo breve dal cancro, lui le parlò al cellulare mentre camminavamo al sole). Il titolo della canzone di Battiato era “Ho un messaggio per te”. Era una canzone e non lo era. Era cantata, ma né in inglese né in italiano: in una lingua che non era conosciuta. Enigmatici melismi nei toni più teneri, solenni e devozionali di Franco, accompagnati da tastiere sognanti. Era, ed è, uno dei brani più belli che Battiato abbia mai scritto. Non c’era posto più adatto per quel pezzo dell’ultima traccia dell’album.

Nel pieghevole confezionato a mano che diedi a Eva per il compleanno c’erano commenti dei musicisti e qualche nota aggiunta da me. Nelle note spiegavo anche perché avevo fatto un’eccezione per Tim Finn e Franco Battiato, autori che non la conoscevano personalmente. «Franco Battiato», scrivevo, «perché la sua musica è, per me, l’equivalente auditivo delle tue fotografe e dei tuoi quadri. Ci sono alcuni stati di grazia, nel mondo naturale e in quello umano, da cui sei sempre stata attratta e che hai un talento nell’individuare e far emergere. Franco Battiato fa musica che parla di questi stati ed è per questo che si trova nell’album».

Cinque anni dopo Eva morì. Il funerale si tenne in un crematorio di Edimburgo, che rivelò una luce inaspettatamente bella e un’acustica inaspettatamente buona. Scelsi la musica da intervallare ai discorsi delle persone a lei care. Alcune canzoni del Cd del compleanno ebbero una seconda chance. “Six Months in a Leaky Boat” risuonò nella cappella poco dopo che tutti si furono seduti. E proprio alla fine, mentre la bara di Eva oltrepassava una tenda per raggiungere le fiamme che la aspettavano, Franco Battiato cantò “Ho un messaggio per te”. È sicuramente giusto che nessuno al di fuori della cerchia dei famigliari e degli amici di Eva abbia mai sentito quel pezzo. Ma non è giusto che così poche persone nel mondo anglofono abbiano sentito l’altra musica che Battiato ha fatto: quella profusione di creatività che è un nutrimento sufficiente all’ascolto di una vita.

Ora che Battiato ha lasciato questo mondo, gli hipster anglofoni alla fine magari lo scopriranno. Chi può dirlo? Una famosa rockstar potrebbe “curare” un cd delle sue composizioni più affascinanti con note di copertina in inglese, e a poco a poco, con poca grazia e una certa rigidità, il nostro mercato potrebbe fargli un po’ di spazio. Giornalisti londinesi e newyorkesi potrebbero persino scrivere articoli su come, “all’epoca”, Battiato sia stato vergognosamente trascurato. Non da loro, naturalmente. Da qualcun altro. Ma anche così, spero che succeda. Spero che il viaggio di Battiato nei nostri territori sia appena cominciato. La sua opera è universale. Aveva un messaggio per tutti.