Cultura | Musica

Franco Battiato, vita di un alieno

Se n’è andato a 76 anni dopo una lunga malattia uno degli artisti più complessi, multiformi e sperimentali della musica italiana.

di Germano D'Acquisto

Sembra quasi di sentire l’odore di zagara che avvolge il giardino. E di vedere le palme mosse dal vento, oltre le grandi vetrate dell’ex castello Moncada. Mentre tutt’attorno è silenzio. Ce la immaginiamo così l’atmosfera di queste ore a Villa Grazia a Milo, in provincia di Catania, il giorno in cui il padrone di casa ha deciso di togliere il disturbo. Franco Battiato se n’è andato a 76 anni, dopo una lunga malattia che lo stesso maestro ha trasformato in ascesi. Un percorso spirituale finalizzato a ottenere il distacco dal mondo e la perfezione interiore. Quasi un contrappasso per chi, come lui, ha scelto di raccontare l’uomo, il mondo, il cosmo e lo spirito attraverso i suoni di scale armoniche. Questo viaggio non poteva che finire qui in Sicilia, “l’isola benedetta” di “Amata solitudine”. «Abito in una casa di collina e userò la macchina tre volte al mese», canta Battiato nel suo “Giubbe Rosse”. «Con 2000 lire di benzina scendo giù in paese. Quante lucertole attraversano la strada, vanno veloci ed io più piano ad evitarle. Quanti giardini di aranci e limoni, balconi traboccanti di gerani».

In un’epoca in cui tutti ostentano, instagrammano, postano e taggano, da queste parti sembra di essere congelati nel tempo. Si vive (e si muore) in un’altra epoca. Battiato è stato uno degli artisti più complessi, multiformi e sperimentali della storia della nostra musica. Coraggioso, innovatore, è passato con estrema nonchalance dal rock progressivo all’avanguardia, dal pop all’etnica, dall’elettronica alla lirica. È stato poeta, scrittore, pittore e anche regista (ha diretto un bellissimo documentario su Gesualdo Bufalino e film come Musikanten e Perdutoamor, entrambi presentati al festival del cinema di Venezia). Impossibile catalogarlo, incasellarlo, inserirlo in un qualsiasi genere. Lui sfugge, si confonde e scivola via proprio come le lucertole cantate in “Giubbe rosse”.

Nasce a Ionia, in provincia di Catania, nel 1945, una città invisibile, che oggi non esiste più. Studia allo scientifico e si trasferisce a Milano dopo la morte del padre, che faceva lo scaricatore di porto a New York. Frequenta il cabaret club 64, incontra Paolo Poli, Enzo Jannacci, Bruno Lauzi e Giorgio Gaber. Ama la musica e la poesia d’avanguardia. Un bel giorno decide di scoprire l’Oriente. Raggiunge il monte Athos e visita Konya, la città dei dervisci rotanti, studia Gurdjieff, il misticismo sufi e il buddismo tibetano. La sua vita non sarà più la stessa.

Ha il naso aquilino, i capelli arruffati e spesso si presenta ai concerti truccato come Renato Zero. «Per avere più carisma e sintomatico mistero», spiegherà lui più avanti. È un tipo bizzarro, originale. Sembra un alieno arrivato da Plutone. Il suo primo album, Fetus, è del 1972. Ed è subito scandalo perché il musicista decide di piazzare sulla cover del 33 giri l’immagine di un feto umano. Il disco viene subito sequestrato. Si tratta di un concept album ispirato al libro Il mondo nuovo di Aldous Huxley, che descrive una società distopica dove ogni essere umano è costruito in laboratorio. Battiato è qualcosa di mai visto prima. In vetta alle classifiche ci sono Mina, Battisti e i Dik Dik? E lui sfoggia note talmente estreme e sperimentali da spiazzare perfino il suo pubblico.

Il primo vero successo arriva nel 1978 con L’era del cinghiale bianco, album new wave che contiene, oltre al brano che dà il titolo al disco, anche la dolcissima “Stranizza d’amuri”. Omaggio alla sua terra. Poi è il turno di Patriots (che contiene “Up Patriots to Arms” e “Prospettiva Nevski”), dove cita Proust e Wagner. Il leggendario La voce del padrone, pietra miliare della musica italiana, esce nel 1981. Raccoglie canzoni come “Bandiera bianca”, “Cuccurucucù” e “Centro di gravità permanente”, che nel corso del tempo diventerà quasi un modo di dire. Il trionfo è immediato e arriva quasi per scommessa: alcuni critici lo accusano di non saper scrivere canzoni per un pubblico più vasto. E lui li accontenta. «Mr. Tamburino non ho voglia di scherzare. Rimettiamoci la maglia i tempi stanno per cambiare. Siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro». Matematica musicale e capacità inventiva allo stato puro. Provocazione e divertissement. Il successivo L’Arca di Noè vende mezzo milione di copie e resta in cima alla hit parade per mesi e mesi. In Orizzonti perduti, del 1984, questo ex avanguardista siciliano convertito alla comunicazione popolare fa ancora centro puntando il dito contro la decadenza culturale dell’Occidente.

Battiato è un eroe pop, ma la sua vera natura è un’altra. È irrequieto. Cerca nuove sfide, terreni a lui più congeniali. Cerca un centro di gravità permanente, si potrebbe dire con parole sue. Ambisce a toni più riflessivi, a fascinazioni mistiche, a esoterismi e a citazioni colte. Cambia ancora una volta perché, come insegna il suo conterraneo Pirandello, è Uno, nessuno e centomila. «L’evoluzione interiore non ha partito», dice. «Chi mi vuole da una parte o dall’altra non apprezza la mia musica, e se crede di farlo è per equivoco».

Nel 1991 è la volta di “Povera patria”, una delle sue canzoni più incazzate. E’ un j’accuse rabbioso e dolente contro l’Italia della Prima Repubblica che lentamente si sta berlusconizzando. Ma il cantautore non si definisce né di destra né di sinistra. «Sono un proletario dello spirito», afferma, «non mi piace comandare e non mi piace essere comandato». Col passare degli anni i suoi brani si fanno ancora più spirituali e sembrano avere un doppio approdo: il primo terreno, il secondo decisamente astratto.

Incastonato in quello scrigno che è l’album L’Imboscata, si trova “La Cura”, uno dei testi più intensi mai scritti nel nostro Paese. Realizzato a quattro mani col filosofo Manlio Scalambro nel ‘96 è un sublime inno all’amore dove l’artista si rivolge alla persona amata e la esorta alla guarigione. Una guarigione che non deve avvenire attraverso la somministrazione di vaccini ma grazie al potere terapeutico delle note e delle parole. Per farlo Battiato usa suggestioni filosofiche («Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza») e incanti onirici («Più veloci di aquile i miei sogni, attraversano il mare»). È uno dei momenti più alti di tutta la sua poetica, ed è forse è uno dei momenti più alti della musica italiana del dopoguerra.

Colto, profondo, ma anche assai spigoloso, soprattutto quando messo a tu per tu con la stupidità contemporanea («Non voglio sentirmi intelligente guardando dei cretini, voglio sentirmi cretino guardando persone intelligenti», risponde a chi gli chiede cosa pensa dell’Isola dei famosi), negli ultimi anni non si è mostrato in pubblico a causa della malattia. Un male misterioso a cui si è cercato inutilmente (e stupidamente) di dare un nome. Ma che importanza ha? Battiato è stato una sorta di alchimista, che per tre quarti di secolo ha cercato di trovare la formula magica che gli permettesse di raggiungere l’assoluto. Ha usato sonorità diametralmente opposte fra loro, mescolandole e rendendocele familiari. Una nota qua e una là, alla ricerca di frammenti di mistero. E quando l’obbiettivo è stato raggiunto lui stesso lo ammetteva quasi commuovendosi: «Sì, è proprio così, quel pezzo è arrivato da altrove». Lo stesso “altrove” in cui da oggi si trova oggi anche lui.