Cultura | Fotografia

Grandi fotografie senza fotografo

Dopo molto tempo dedicato a dare importanza all’autorialità, anche il mondo della fotografia ha scoperto la bellezza delle immagini anonime.

di Enrico Ratto

The Anonymous Project, Lee Shulman

Collezionare opere senza firma, catalogare il fascino dell’anonimato. Sono anni che materie come il design si appassionano a objets trouvés e a tutti gli strumenti anonimi che ogni giorno ci passano tra le mani. Ma anche il digitale, dove le cose più affascinanti avvenute negli ultimi vent’anni hanno alle spalle un anonimo o uno pseudonimo, lo raccontano bene le inchieste di Andrew OHagan raccolte in La vita segreta (Adelphi). Un tema che ha prodotto libri, mostre ma soprattutto conversazioni con quel tono stupito di chi scopre qualcosa di inaspettato. Anche la fotografia, dopo molto tempo dedicato alla ricerca dell’autorialità, di una reputazione a supporto del contenuto, di recente ha scoperto che la firma può valere parecchio, soprattutto quando non c’è. 

Durante l’ultimo Paris Photo – la fiera della fotografia più importante al mondo che si è svolta a Parigi la seconda settimana di novembre – la fotografia vernacolare, quella priva di intenzione artistica, ha avuto un ruolo di primo piano nell’interesse delle gallerie e dei collezionisti. Durante la manifestazione, Le Monde ha dedicato un lungo articolo alle gallerie che hanno portato in fiera lavori nati da immagini di cui non si conosce l’autore: stampe ritrovate nei mercati delle pulci o negli scatoloni passati di mano in mano attraverso traslochi e eredità, fotografie acquistate per poco denaro e poi, una volta lavorate e organizzate in un progetto organico, riproposte in fiera come oggetti da collezione. 

«La fotografia vernacolare è la stragrande maggioranza, in termini di produzione fotografica» spiega Clément Chéroux, curatore del settore fotografia del MoMA e autore del libro Vernaculaires. Essais d’histoire de la photographie (Poin du jour, 2013). Insomma, è come se per tutto questo tempo ci fossimo interessati all’ 1 per cento della produzione – quella dei fotografi di professione – e improvvisamente ci fossimo accorti dell’altro 99 per cento nascosto, un atteggiamento diffuso, che non riguarda solo la fotografia. Il baricentro dell’operazione si sposta così dall’autore al curatore, è lui a selezionare le immagini e rintracciare nuove concettualità. E chi acquista queste stampe, da amatore diventa collezionista. 

L’esempio più noto degli ultimi anni è The Anonymous Project, il progetto di Lee Shulman nato nel 2017, cresciuto a dismisura, presentato durante il prestigioso festival Rencontres de la Photographie d’Arles nel 2019, pluripremiato, scelto come immagine copertina delle più importanti manifestazioni fotografiche degli ultimi anni. Tutto è partito da una scatola di diapositive acquistata da Lee Shulman – non un fotografo, ma un collezionista e regista cinematografico – con materiale in Kodachrome da 35 mm, estetica Mid-Century, collocabili tra gli anni Cinquanta e gli Ottanta, fotografie private provenienti prevalentemente da Gran Bretagna e Stati Uniti.
Shulman inizia a costruire un archivio digitale, selezionando le immagini da scansionare e poi stampare in medio e grande formato. L’obiettivo è ridare nuova vita e nuovo significato a queste fotografie, le organizza in temi, per esempio: il viaggio, la vacanze, le feste di famiglia. Editori come Taschen e gallerie come Polka si appassionano al progetto e il mondo della fotografia inizia a parlarne. Lee Shulman inizia a ricevere nuove scatole contenenti migliaia di nuove immagini, ad oggi sembra siano ottocentomila, di cui dodicimila digitalizzate. The Anonymous Project diventa il luogo di conservazione di una certa memoria collettiva e, per quanto riguarda il tema dei diritti di riproduzione, l’ambito è quello del ready made, del far rivivere – legittimamente – lopera sotto unaltra forma. Martin Parr, fotografo Magnum e gran collezionista di libri fotografici, celebre per aver a lungo documentato gli stili di vita delle persone comuni, entra in contatto con Lee Shulman e insieme producono il libro Déjà View (Éditions Textuel, 2021), nel quale una parte delle immagini selezionate da Lee Shulman viene affiancata ai ritratti del fotografo britannico. Gli anonimi e le opere firmate entrano in dialogo.

«Dietro la fotografia anonima si ritrovano le classi sociali e le vite personali» scrive Francois Cheval, collezionista di album fotografici dei periodi tra le due guerre mondiali «vediamo le loro ossessioni, la recita che le persone mettono in scena quando vivono le loro vite». Ad un certo punto ci si chiede che senso abbia calare dall’alto un fotografo per documentare la società, quando possiamo raccogliere e organizzare le immagini prodotte da quella stessa società, senza condizionamenti da esigenze autoriali. In questo senso, nel 2009, i fotografi italiani Arianna Arcara e Luca Santese, del collettivo Cesura, per uno dei loro progetti più riusciti avevano fatto ricorso proprio alle immagini ritrovate. Erano partiti per documentare, come fotografi, la Detroit della crisi dei subprime e del crollo dell’industria automobilistica. Entrando nelle centrali di polizia e nelle case abbandonate hanno rintracciato fotografie dei documenti, foto di famiglia, foto segnaletiche, insomma un immenso archivio storico della città. Quel che è successo dopo è diventato un caso di studio: i due fotografi hanno cambiato in corsa il progetto, abbandonando la macchina fotografica e il loro ruolo di autori per fare riemergere quelle foto ritrovate, in grado di documentare il decadimento della città in modo molto più efficace, il lavoro è raccolto nel libro Found Photos in Detroit.

Sempre in Italia, durante un Mia Fair di qualche anno fa – la fiera della fotografia che ogni anno si svolge a Milano – un collezionista privato ha affittato uno stand per esporre una selezione del suo archivio di immagini acquistate nei mercatini e online. Ogni immagine era accompagnata da una didascalia che ne raccontava la storia, solo che questa storia era stata inventata dal collezionista stesso. Le immagini e le loro storie verosimili vennero tutte vendute durante i primi due giorni della manifestazione. Qualcuno si domanda: ma perché proprio adesso? C’è un dettaglio che inserisce questo fenomeno nel momento storico. Parte di quelle immagini esposte al Mia di Milano, così come parte delle immagini anonime in circolazione, arrivano dagli immensi archivi delle agenzie di stampa chiuse o fallite a causa della crisi dell’editoria: non tutti i loro archivi hanno trovato spazio nei musei, nelle fondazioni o sono stati acquisiti da agenzie più grandi (Getty, su tutte). Molte stampe, diapositive e negativi sono stati abbandonati, sono finiti su ebay e nei mercatini, senza l’indicazione di un autore né la didascalia originale. 

Quello che si è messo in moto, così, è un doppio fenomeno. Se da una parte si intravvede un certo snobismo, in tempi di riciclo, di riscoperta, di disvalore del marchio – che promette e non mantiene, immerso come è nelle contraddizioni del mondo contemporaneo – e quindi di fascino verso l’autenticità dell’unbranded, dall’altra sembra esserci una motivazione meno collettiva e più personale. L’assenza di una firma libera la fantasia. Utile sarebbe capire se vale anche l’opposto, se la firma mette un freno alla creatività. Di sicuro, ognuno di noi, di fronte ad una sequenza di immagini anonime, è finalmente libero di inventare una storia senza i vincoli imposti dall’autore. L’opera anonima permette di decontestualizzare, di muoversi nel tempo e nello spazio, di andare a riempire un vuoto altrimenti già riempito dalla firma, dalla biografia, dall’intenzione dell’autore. Per questo non c’è atteggiamento nostalgico in questo genere di progetti, il vintage è un’altra cosa. Queste sono immagini che tornano in vita, che sono reinserite in un contesto tutto nuovo, sono storie passate ricollocate – da un collezionista o da un curatore – nel tempo presente. Con un risultato così potente, qualcuno ha bisogno di scattare – e firmare – nuove foto?