Cultura | Dal numero

Il flâneur nell’era di Google Maps

Perché la flânerie è tornata di moda proprio in questo momento? Un percorso tra libri e geolocalizzazione.

di Fabrizio Spinelli

C’è un passaggio di Limonov che mi ritorna spesso in mente (pare che dei libri importanti, molti di noi, siano condannati a ricordare solo particolari insignificanti, scene laterali, dialoghi brutti. Qualche mese fa ero a cena con un documentarista che mi ha confessato con candore che l’unica immagine che conserva dalla lettura dell’Ulisse è il rognone che sfrigola nella padella durante la colazione di Bloom – e che ogni volta che vede su TikTok qualcuno che cucina della carne con dosi generose di burro, pensa a Joyce). Nel 1974 Limonov ha appena lasciato l’Unione sovietica per trasferirsi a New York. Con lui c’è Tanja, una donna reputata bellissima a Mosca ma che in Occidente non riuscirà mai a fare la modella – perché – come teme Eduard, troppo scialba rispetto alle concorrenti. Il libero mercato e le sue delusioni. La coppia passa le prime settimane negli Stati Uniti sostanzialmente a camminare, e comprensibilmente: le insegne luminose, lo skyline, Central Park, i vestiti dei passanti, è tutto così diverso rispetto al Paese di origine che a essere cambiata non sembra la realtà, ma la qualità dei loro bulbi oculari. Dice Carrère con quella pigrizia a cui deve parte del suo successo: «Passare da Mosca a New York è come passare da un film in bianco e nero a un film a colori». Ovviamente immagino sia vero. C’è una cosa in particolare che colpisce Limonov – e di traverso anche me, mi colpisce che lo colpisca – e cioè che la piantina della città che ha acquistato in libreria è precisa e affidabile: «Se indica che nella seconda strada a destra c’è Saint Mark’s Place, be’, lì c’è davvero Saint Mark’s Place». Questo è inimmaginabile in Unione sovietica, dove le cartine stradali o risalgono a prima della Seconda guerra mondiale o sono volutamente errate per disorientare le possibili spie straniere. Oppure, caso particolarmente interessante, altre cartine anticipano grandi opere pubbliche non ancora realizzate, rappresentando la città non per come è ma per come sarà tra quindici anni, e probabilmente per come non sarà mai. Anche le piantine stradali posso rivelarsi uno strumento di propaganda, sprigionando il loro carattere eerie e spettrale: mostrano qualcosa in luogo del niente, indicano x lì dove c’è z. La carta non registra uno stato di cose, ma un’onda di probabilità, si muove su due piani di realtà diversi.

Quattro anni prima di leggere Limonov – e, va detto, della diffusione a larga scala dei dati mobili – feci qualcosa di simile. Girai per Napoli, la città in cui sono nato e cresciuto, con una guida turistica appartenuta a mio nonno. Cercavo di smarrirmi nei luoghi che mi erano più familiari, di essere preda di uno spaesamento tanto temporale che spaziale. Fu molto noioso. Da questo ho appreso una grande verità: certe cose sono interessanti solo se scritte. Era la fine degli anni Zero e per l’età che avevo non era ancora un segno di intellettualismo poser leggere Guy Debord e provare a ripetere le dérive situazioniste camminando per intere giornate senza una meta e con scarpe inadatte. Personalmente, credo che il situazionismo sia morto con Google Maps. Al giorno d’oggi niente si avvicina di più al sovvertimento psicogeografico, alla trance perturbante, all’adrenalina della dérive di un guasto del sistema satellitare. Sei andato tre giorni a Budapest e dopo una cena in un quartiere limitrofo a quello in cui alloggi, apri il navigatore per cercare la via più breve per l’albergo. Ora idealmente sei un cerchio blu sullo schermo nero del cellulare e percorri dei sottili solchi grigi, ma il programma ricalcola continuamente il percorso, e anche se vai avanti è come se andassi indietro, o di lato, attraversando la superficie solida dei palazzi. Passano alcuni minuti e non sai dove sei, per colpa di un dispositivo elettronico che si comporta come il narratore di un romanzo di Nabokov. Non sai quando e come arriverai in stanza, sei anche un po’ ubriaco, ma tutto sommato sei felice e ti fermi a fumare sotto un palazzo moderno a forma di S. Lo stupore contemporaneo è un glitch.

Ammetto di essere stato un gran camminatore tra i diciannove e i ventisei anni. Uno di quelli a cui non piaceva la rapidità di trasmissione, e per cui ogni spostamento doveva essere guadagnato, sofferto. Mi interessava quello che c’era in mezzo. Il verbo intravedere ha un equivalente uditivo nell’inglese to overhear, solitamente tradotto come origliare, ma sarebbe più corretto dire “sentire di sfuggita”. Secondo un critico letterario di un paio di secoli fa, ogni poesia si rapporta al suo lettore/ascoltatore come qualcosa di intrasentito. Questo ha a che fare in modo palmare con le mie camminate ma direi quelle di tutti, soprattutto camminate notturne, in cui i contorni delle cose sono sbiaditi per l’oscurità e la velocità del passo, l’agitazione dell’andatura. Trascorrere ore intere a guardare le metamorfosi degli infissi passando da un quartiere all’altro, studiare i marciapiedi come una lingua estinta, interpretare le forme dei portoni e le facciate dei palazzi quasi fossero parte di un codice di cui solo la solitudine del momento ha la chiave. Intravedere, intrasentire, intrapensare. Camminare è anche un buon metodo per favorire le libere associazioni. Nel padiglione aurale del preconscio circola un bricolage di rumori, luoghi comuni, ricordi, jingle pubblicitari, onomatopee e altri eventi linguistici che si fissano su una tela anonima. Ci appartengono ma non ci appartengono, parlano di noi ma di un noi più generale. Solitamente, ciò che è insignificante balza in primo piano. Non c’è una faticosa emersione di materiale inconscio o rimosso, ma solo il brillare di dati inerti, che possono essere paragonati a panni che girano nella lavatrice.

A un certo punto questo continuo bisogno di camminare mi è sembrato una roba per depressi, per depressi narcisisti e manipolatori. Ho un pregiudizio per qualunque persona manifesti una vita interiore, e tento di combattere in me ogni tentazione di averne una. Probabilmente questo rifiuto è stato anche indotto dalla popolarità che ha ottenuto il camminare, passando da strumento – veicolo – per raggiungere una meta, a vero e proprio oggetto di culto. Con il proliferare dei corsi di yoga, i manuali di meditazione, le piante da interni e l’alimentazione sana, anche il lasciarsi andare a un’ondivaga flânerie è diventato improvvisamente glam, un segno di distinzione, una cambiale ipotecaria di spiritualità, di elevazione. In un mondo sempre più disincarnato, dominato da relazioni e sentimenti digitali – con gli studiosi che ci ricordano a piè sospinto che il nostro cervello sta cambiando – camminare, oltre a essere un’alternativa ecologica per gli spostamenti, è come un metodo di presentificazione, una forma igienica che ci protegge dall’assorbimento. Si trova nella cassetta degli attrezzi della foucaultiana cura del sé. È un equipaggiamento dell’uomo contemporaneo, i cui tentativi di riavvicinamento alla natura e agli altri (e alla loro stessa esperienza), sono aspirazioni parodiche, esercizi di stile, che ne aumentano la sua appetibilità. Il nuovo flâneur rimane essenzialmente un solitario, vede i suoi simili dietro uno schermo, come pesci in un acquario. E per quanto l’aria aperta, l’ossigenazione e il moto uniforme dei passi gli ricordi di avere un corpo, quello che vede (un vecchio bar di paese, una scritta sul muro, un’insegna retrò, le colonne di un porticato) è visto in funzione di essere fotografato, di finire su Instragam (vero e proprio deus ex machina di questa walking renaissance). È una storia che conosciamo: il capitalismo si appropria dei suoi stessi antidoti e li rende parte integrante del sistema.

Seguendo il destino toccato in età moderna a molte altre attività (penso al cibo e alla foodizzazione del reale a cui stiamo assistendo), camminare ha subìto una rifunzionalizzazione da mezzo a fine, dispiegando tutto il suo quantum estetico. Dalle app per monetizzare i passi ai corsi di nature writing, dalle persone che in America si ritrovano nei centri commerciali in tuta da jogging perché l’aria climatizzata è meglio di quella esterna, fino ai gruppi di esploratori suburbani, ai fulminati che attraversano il Molise in cerca di posti non toccati dall’uomo camminare è ormai un trend endemico e, cosa che ci interessa di più, un genere letterario.

Il punto di partenza per una panoramica sul tema è History of Walking della saggista americana Rebecca Solnit (portato in Italia prima da Mondadori e poi da Ponte alle Grazie), vera e propria storia sociale del camminare. Solnit ricorre in modo convincente a una metafora ossidata: quella dello spazio come testo: chi legge attraversa una città i cui palazzi sono fatti di lettere (mi viene in mente il verso di una poeta russa in cui si dice che appena dopo aver scritto bisogna pulirsi la bocca dall’inchiostro, come ci si toglie il sudore da faccia dopo una lunga camminata). Rispetto ad altri libri simili, History of Walking è forse l’unico a mettere in risalto molte ambiguità legate a chi cammina: il senso di superiorità morale irradiato da queste figure soprattutto maschili, ignare dei loro privilegi fisici (ci sono tante persone che semplicemente non posso camminare) di genere (fino a pochi anni fa una donna che cammina da sola era un assurdo sociale – adesso non lo è più ma sono sorte difficoltà riguardanti la sicurezza personale) e di razza. Ma la bibbia dei camminatori – nonché l’iniziatore della non-fiction a piedi post-chatawiniana è senza ombra di dubbio W. G. Sebald, non solo per Gli anelli di Saturno (storia di un pellegrinaggio nell’East Anglia che è diventato prima un documentario e poi una sorta di sottofondo per Roger Deakin, Diario d’acqua, libro in cui l’autore a sua volta ripete il percorso di Sebald – solo che lo fa a nuoto), ma anche per Austerlitz, biofiction in cui il tema del camminare rimane sullo sfondo ma raggiunge picchi notevolissimi in virtù soprattutto dell’acume architettonico e fotografico dello scrittore tedesco. Rimaniamo in Inghilterra con Iain Sinclair, London Orbital (il Saggiatore), in cui il narratore si impegna a percorrere a piedi la striscia di terreno intorno alla tangenziale di Londra. In Underland di Robert Macfarlane (Einaudi) si cammina invece sottoterra, da Parigi allo Yorkshire fino alla Finlandia. The Lonely City di Olivia Laing (il Saggiatore) è al contrario una riflessione sulla solitudine urbana, dove la vita di quattro artisti (Hopper, Warhol, Darger e Wojnarowicz) si specchia nell’isolamento dell’autrice e nelle sue passeggiate senza meta per Manhattan. Ma se cercate un libro che racconti davvero cosa significhi camminare per una metropoli (anche se la Dublino di inizio Novecento non è la New York di oggi), non dovrete far altro che imitare il mio amico documentarista e leggere l’Ulisse di Joyce (nell’edizione con testo a fronte curata da Enrico Terrinoni per Bompiani): in certi momenti vi annoierete, in altri vi divertirete, ma compirete insieme a Bloom la più grande passeggiata letteraria di tutti i tempi.

Per comprare una copia di questo numero vai qui.