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First Man è bello, ma

Il film di Chazelle che racconta la missione Apollo dalla prospettiva degli astronauti ha un punto debole.

di Matteo Codignola

Da First Man si esce con uno strano capogiro. Potrebbe sembrare una sindrome da contagio, dopo 140 minuti passati dentro prototipi di ipersonici, simulatori di moduli lunari e navicelle non propriamente stabili, specie in fase di decollo. Invece, è qualcosa di più sottile e profondo – enfatizzando, ma neanche tanto, lo scambio di posto fra presente e futuro, o meglio, fra le nostre rappresentazioni di entrambi.

Del film si possono pensare cose molto diverse, ma non c’è dubbio che Chazelle sia riuscito in un’impresa di fronte alla quale avevano arretrato quasi tutti i suoi colleghi, a cominciare da Ridley Scott e Chistopher Nolan: girare un film sullo spazio come se nel 1968, un anno prima che Neil Armstrong posasse il suo Moon Boot sul Mare della Tranquillità, Stanley Kubrick non avesse fatto uscire 2001, di cui lo stesso programma Apollo avrebbe finito per apparire come un prevedibile effetto collaterale.

Con l’unica eccezione di una fugace, inevitabile scappellata – quando Gemini 8 si congiunge alla navetta sperimentale accenna a un passo di danza, mentre in sottofondo parte un valzerino – Chazelle si tiene talmente alla larga dall’iconografia che per cinquant’anni ha colonizzato il nostro immaginario spaziale da sconfinare nel suo isolato controcanto, le navicelle claustrofobiche e a scarsissima tenuta stagna di Solaris. A cominciare dalla prima, straordinaria sequenza d’apertura – da fuori, circondati dalla spiatta desertica del Nevada e con accanto pilota in tuta d’argento e casco sottobraccio, l’X15 risultava uno dei veicoli più fotogenici della storia, ma dall’interno dell’abitacolo i novanta secondi di volo ipersonico che lo facevano uscire dall’atmosfera, e che qui abbiamo il dubbio privilegio di rivivere in soggettiva, sono la migliore rettifica possibile dell’idea corrente di inferno – la protagonista assoluta del film diventa la tecnologia. Ma non quella immacolata, insonorizzata, danzante, e integralmente digitale che Kubrick si era inventato: quella sporca, rumorosa, tutta vibrazioni e in gran parte analogica con cui gli uomini dell’Apollo raggiunsero un risultato che, rivisto oggi, risulta del tutto inverosimile.

È un piccolo – neanche tanto – shock cognitivo. Il futuro, che dal 1968 a oggi avevamo immaginato come un’appendice del set di 2001, si presenta all’improvviso come un passato arcaico e remoto, un’Età del Ferro – quasi alla lettera – che non solo è finita, ma non tornerà più. E dentro questo capovolgimento, a pensarci bene piuttosto inquietante, si nasconde un dato beffardo: come Kubrick, Chazelle ha lavorato a stretto contatto (non stretto quanto Kubrick, questo è certo) con gli uomini della Nasa, in modo da arrivare a una ricostruzione quanto più possibile fedele: solo che un conto era farsi guidare in un laboratorio, un altro è rovistare in un trovarobe.

Cosa possiamo farci, il tempo passa, e non solo per la ferraglia. Negli anni del programma Apollo (ma anche Mercury, e Gemini) piloti e astronauti si presentavano come i superuomini che in parte erano, e come quanto di più sexy il genere potesse mettere a disposizione del grande pubblico. Le pose di Armstrong, Aldrin, Collins e di tutti gli altri in tenuta di volo passavano direttamente dai tavoli dell’ufficio stampa Nasa a quelli della case di moda, che le vampirizzavano per benino. Ma a supportare il mero dato estetico ce n’era almeno un altro, che il medesimo ufficio stampa lasciava, con prudenza, trapelare. Per tutti questi assi, aria e terra erano solo due teatri diversi delle stesse bravate: tutti quanti guidavano (e sfasciavano) allo stesso modo X15 e Mustang, conducevano la vita galante di cui lassù chiacchieravano fuori onda, e bevevano quanto avevano promesso di fare appena entrati nella stratosfera, in quella specie di cazzeggio permanente che erano le conversazioni radio con Houston. Non a caso in uno dei film leggendari su quegli anni, Uomini veri, la parte di Chuck Yaeger – il padre nobile di tutta la banda – era toccata a quella specie di divinità maschile che era, allora, Sam Shepard.

Il casting di Chazelle ha seguito un criterio radicalmente diverso, cercando uno a uno i corpi meno attraenti di Hollywood, e imbruttendoli ulteriormente al trucco. Gli astronauti di First Man sono grossi, larghi, sudati, e piuttosto vecchi per la parte. L’obiettivo non li ama, o forse ama solo i loro pori, che riprende spesso da vicino, e non per dare una visione anticipata della superficie lunare: per studiare, si direbbe, lo stano fenomeno collettivo di una sudorazione continua, che il clima della Florida, notoriamente poco secco, non basta a giustificare. Ma non è tutto. Il problema vero dei non eroi di Chazelle è la motivazione: ruotano intorno alla Terra o al suo satellite perché questo prevede il contratto, ma il loro vero sogno è orbitare, in camiciola a maniche corte, intorno al barbecue: con i colleghi. E questo del resto fanno per una buona metà del film, in attesa di istruzioni da parte delle loro temibilissime mogliere cotonate. O del regista.

Di indicazioni sul set Chazelle deve essere stato piuttosto parco, o avrebbe spiegato a Claire Foy che le palpebre servono a tutti noi per umettare il cristallino, quindi abbassarle una volta in due ore e fischia avrebbe reso il suo personaggio più umano, senza impedirle di esprimere quello che voleva esprimere – un misto di stupore e disapprovazione, si direbbe. Già che c’era Chazelle, sempre lui, avrebbe potuto dire una cosa anche al suo venerato protagonista, e ancora sulle palpebre, e cioè che sollevandole almeno una volta nelle stesse due ore e fischia avrebbe acquistato qualcosa di simile a quello che un tempo era l’elemento base del cinema – lo sguardo.

Sono dettagli, però. Quello che lascia davvero perplessi, nel film, è l’angolo narrativo, cioè l’idea di riportare l’ultima scheggia di epica disponibile (lo sbarco sulla Luna tenne col naso all’insù un terzo del pianeta per la prima volta, che potrebbe anche essere stata l’ultima) a una scala irrimediabilmente domestica. Ora, nessuno pretendeva un documentario sulle lacerazioni personali e politiche, sulle difficoltà tecniche, sulla vertigine scientifica che la corsa allo spazio ha significato, ma sostenere – più o meno – che il celebre grande passo per l’umanità fosse sotto sotto più piccolo dei tanti richiesti tutti i giorni fra tinello e angolo cottura, be’, è un po’ troppo. L’ossessione per la famiglia è una fantasticheria retrò che irridiamo nei legislatori sotto casa, ma accettiamo senza condizione nei narratori di ogni ordine e grado. Per il bene di tutti, a cominciare  dagli spettatori superstiti, sarebbe invece il caso di abbassare la soglia di tolleranza, e proporre un baratto a chi scrive e a chi gira: noi mettiamo da parte un certo sogno di futuro, e anche l’idea, sempre meno fondata, che ce ne spetti uno. Voi però – vi prego – mettete da parte una volta per tutte la sacra famiglia. Come diceva Hitch, quella ce l’abbiamo già a casa, e sarebbe anche per occuparsi d’altro che uno va al cinema. Sempre che ci vada, però: nella sala del grande cinema di Milano centro in cui ho visto First Man, l’unico spettatore ero io.