Un neonato in una clinica a Bireuen, nella provincia di Aceh, in Indonesia, il 15 aprile 2020 (foto di Amanda Jufrian/Afp Getty Images)

Attualità

L’atto sovversivo di fare un figlio nel 2020

Chi non ne ha si lamenta della pressione sociale a farne, ma in un Paese a bassa natalità come l’Italia, soprattutto in certi ambienti, c’è uno stigma anche per chi decide di farli, specie nell’anno del Coronavirus.

di Arianna Giorgia Bonazzi

Fan della prima ora di Maternità di Sheila Heti, e molto attratta dal dibattito mondiale acceso dal 2017 dalla sociologa Orna Donath con Pentirsi di essere madri, mi sono incuriosita anche per Madri e no di Flavia Gasperetti, eppure in un momento storico come questo, non posso fare a meno di chiedermi se davvero – in un Paese che conta cinque anziani per ragazzino e in cui ogni anno si nasce meno – ci sia bisogno di rassicurare le persone che rinunciano a un figlio, o piuttosto di andare a interrogare i pazzi visionari che hanno deciso di metterne al mondo uno proprio durante il 2020. Io ho deciso di fare questa seconda cosa. Ma andiamo con calma. Sono partita dall’affermazione di Donath per cui oggi la scelta di non avere figli determinerebbe ancora una forte stigmatizzazione sociale, e mi sono detta che questa pressione esisterà, magari tra le giovani dell’entroterra siculo la cui nonna col fazzoletto nero prega Santa Rosalia per un nipote, ma non mi sembra riguardare le donne cittadine e laureate che leggono Donath e Heti. Nel mio ambiente, per quanto mi riguarda, lo stigma, se proprio si vuole cercare, è quasi al contrario.

Quante volte, con le mie amiche libere e pensanti, mi sono vergognata e ho dovuto dire: sai, ero giovane, e mi è capitato un figlio; e non so cosa mi sia venuto in mente quando ne ho avuto un altro. Con qualche coetanea attivista, devi giustificarti perfino per l’impatto ambientale della procreazione, mandandole le foto di quei pannolini biodegradabili che iniziano a biodegradarsi quando sono ancora addosso al povero figlio, e a volte mi sono sentita così minacciata dalle non-madri, che quando mia figlia giocava con le bambole gliele buttavo nello sgabuzzino dicendo che erano state cattive. Così, ho cominciato a vedere la scelta anche banale di avere figli come un atto sovversivo in un mondo iper-consapevole dove l’Erasmus dura fin ai trent’anni e Tinder fino ai cinquanta, e adesso si sono aggiunti anche la crisi economica e le relazioni ridotte al digitale. Così, negli ultimi mesi, ho parlato con quattro donne di età, provenienze e profili diversi, che sono rimaste incinte o stanno cercando un figlio in questo 2020, e ho pensato che potevano condividere la mia sensazione di mosche bianche in un mondo di savi controllori delle nascite.

In un mondo dove l’Erasmus dura fino ai trent’anni e Tinder fino ai cinquanta, e adesso si sono aggiunti anche la crisi economica e le relazioni ridotte al digitale, ho cominciato a vedere la scelta anche banale di avere figli come un atto sovversivo

La mia prima interlocutrice è una donna sopra i quaranta che sta avendo un terzo figlio inatteso dopo due ragazzini grandi. Mi racconta che la reazione del 90 per cento delle persone che hanno saputo della gravidanza è stata: “Che coraggio!”, come si trattasse letteralmente di partire per la guerra (una guerra che non ho capito se è la gravidanza stessa o la pandemia). Lei, che si stava ormai quasi abituando all’idea e sperava in un po’ di entusiasmo, è ripiombata nella sensazione iniziale di terrore, perché la gravidanza arrivava in un momento di grandi stanchezza e stress, proprio quando, uscita dal lockdown, sperava in più spazio per sé stessa.

La mamma giovane al secondo figlio è animata da ottimismo e incoscienza. Il giorno prima di chiacchierare avevo letto la storia di una trentenne incinta morta di Covid lasciando un bambino di un anno. Ma questa storia di cronaca non deve averla raggiunta: mi racconta di mandare serenamente il figlio all’asilo, ovviamente senza mascherina, mentre sia lei che il compagno preferiscono lavorare in studio in mezzo ai colleghi: tanto, dice, abbiamo rinunciato per quest’anno a frequentare i nonni, e quindi non corriamo rischi. Ah già, aggiunge noncurante, io sono incinta, ma abbiamo calcolato ogni cosa, quando arriverà il bambino, a maggio, dovrebbe essere tutto finito, saremo vaccinati e liberi di godercela.

La madre ultraquarantenne invece, che partorirà a febbraio, dice che il vaccino non le sembra affatto dietro l’angolo. Non riesce più a proiettarsi in un futuro senza paura del contagio, e ha la netta percezione di un cambiamento non temporaneo nel mondo di vivere di tutti, che farà parte anche della vita di questo nuovo figlio: incertezza, abitudini e relazioni sociali mutate, modi di lavorare e spostarsi differenti, e – forse questo se lo augura –  proprio un altro modo di abitare il pianeta. «Comunque», dice riprendendo grinta, «noi siamo contenti, tutto sommato, di camminare contro corrente in questo flusso di gente che se fai figli ti tratta come un malato di mente».


Una foto scattata attraverso una finestra di vetro in un reparto di maternità al Praram Hospital di Bangkok il 9 aprile 2020 (Foto di Lillian Suwanrumpha/Afp via Getty Images)

Controcorrente sono anche le persone che quest’anno cercano un figlio per forza, addirittura con la fecondazione assistita, forse con ancora più testardaggine perché hanno vissuto la chiusura di marzo e aprile come un tempo morto inaccettabile per l’invecchiamento dei propri ovuli e spermatozoi. A questo giro invece, mi racconta un’amica che sta facendo l’iter, i centri di procreazione assistita, da grandi macchine da soldi quali sono, sono tutti aperti, non c’è pandemia che tenga, lavorano senza sosta e senza rallentamenti. Tutta gente che non ha letto Donath, aggiungo io, ma se ne pentirà!

L’amica continua: «Mi dicono, ma chi te lo fa fare, specialmente adesso, di uscire e entrare dall’ospedale facendo il tampone ogni volta, di bombardarti di ormoni, fate una vita bellissima, andate a fare i viaggi in moto, la sera guardate le serie a tutto volume, e poi per cosa, per far venire un figlio in questo mondo dove la gente va in giro col naso fuori dalla mascherina?!». Ma l’amica è implacabile: «La situazione esterna non ha influito sulla nostra voglia di provare, perché si tratta di un’urgenza interiore. La pandemia può diventare una scusa se non ce la fai psicologicamente, ma il Covid non è tra i miei pensieri per la nascita di un figlio. Sai per cosa non c’è il vaccino? Per la sfiducia di quando razionalizzi che forse non diventerai mai genitore e rifletti sulle conseguenze di questa prospettiva: in momenti positivi, il desiderio di essere genitore può lasciare lo spazio ad altri desideri, ma in questa condizione non è facile. L’esasperazione dei tentativi falliti si sente più intensa quando i rapporti sociali sono ridotti o vietati; i tempi di smaltimento del dolore si allungano, e allora si aspetta più tempo tra la richiesta di un appuntamento e il successivo, e più si sta fermi meno si riesce a reagire, senza input esterni, senza vedere la famiglia o gli amici, senza viaggiare e poter coltivare le proprie passioni. E al contrario, se il tentativo andasse a buon fine, ci aspetta una gravidanza con un senso di solitudine ancora maggiore del normale: le donne stanno partorendo da sole, senza il sostegno del marito, della madre, di una sorella, e questo varrebbe anche per i primi mesi di vita del bambino. Così, la percezione dei momenti su cui hai sempre fantasticato cambia, e ti immagini più sola».

Nonostante questo, altre due donne all’ennesimo tentativo di fecondazione mi dicono che oggi, con la consapevolezza di dover convivere col virus, bisogna “fare e non aspettare”, e infatti con caparbietà vanno avanti, su e giù dall’ospedale, con o senza mascherina, estate o inverno, zona rossa gialla o arancione. Perché l’idea di una nuova vita, mi scrive un’intervistata che non conosco personalmente, «porta sempre speranza con sé, e il mondo farà sempre paura, ma è stato peggio di così».

Neysel, 2 settimane e mezzo, durante la sua prima videocall su Zoom con la mamma e il fratellino Junior, entrambi positivi al Covid-19, il 20 aprile 2020 a Stamford, nel Connecticut (foto di John Moore/Getty Images)

È tra le pagine di Seni e uova di Mieko Kawakami che trovo una descrizione letteraria del bisogno quasi ossessivo di riprodursi che sembrano avere alcune persone, e che mi sembra rispondere a una pulsione profonda, più che a un condizionamento sociale: la protagonista, scrittrice di romanzi, si ritrova sola in casa a pensare alla sua solitudine e alla voglia di un figlio, e navigando, trova un sito dove le donne con problemi d’infertilità si consigliano addirittura dei “ristoranti poco frequentati da mamme con bambini”. Ah, se solo queste donne capissero la fortuna che hanno, secondo certe altre, a non subire la lusinga riproduttiva!

Tornando a Sheila Heti, che nel suo strano saggio-romanzo combatte a colpi di dadi dell’i-ching contro il demone che la vorrebbe madre: superati i quarant’anni, dice che è fiera di aver resistito al “canto delle sirene” e anche – quello che mi è sembrato il concetto più interessante del libro – che aveva paura di diventare più “stupida” facendo un figlio. Capisco benissimo cosa intende, perché è oggettivamente difficile, in una società in cui dei figli si è anche social media manager, coach, mentori e chef, riuscire a perseguire delle ambizioni artistiche personali, mentre internet ha cambiato anche tutte le regole del gioco. Però, per quanto sia diventata “stupida”, non lo sono abbastanza da non mettere in discussione il presunto “stigma” di dover figliare in un paese con la natalità a picco.

Vorrei parlarne ogni giorno, con chi legge, scrive e sta coi figli, ma purtroppo dovrei conoscere l’arabo, per disquisirne fuori scuola, oppure cercare le madri mie coetanee dietro alle casse dei supermercati, perché sono loro, in Italia, le persone rimaste a far figli, mentre i miei simili si astengono per paura che non gli resti il tempo di leggere Louise Glück, che però un figlio lo ha fatto e non le ha impedito evidentemente di vincere un Nobel.