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Vita e libri di Eve Babitz, la ragazza che giocò a scacchi con Duchamp nuda

Da it-girl a scrittrice prolifica: i libri dell'icona losangelina degli anni '70 stanno conoscendo una rinascita, l'ultimo uscito in Italia è L.A. Woman.

di Francesca Faccani

È il 1963 e in un museo di Los Angeles una ventenne sta giocando a scacchi, nuda, con Marcel Duchamp. Appena avanzano le prime pedine, la ragazza pensa a due cose: la prima, a quanto detesti il suo ex per non averla invitata al vernissage che ha organizzato per l’artista surrealista la settimana prima. La seconda, a tirare dentro la pancia perché ha appena iniziato con la pillola anticoncezionale e non vuole fare una pessima figura. Questa è Eve Babitz e, con queste immagini frivole ma allo stesso tempo fortemente consapevoli, racconta così nel suo memoir I Used To Be Charming (2019) la fotografia che l’ha resa celebre.

Babitz era, negli anni settanta, una it-girl ante litteram. Figlia d’arte e figlioccia di Stravinskij, è stata groupie e amante, tra gli altri, di Jim Morrison e Harrison Ford. È l’artista dietro alle copertine di alcuni importanti album rock come Buffalo Springfield Again e la protagonista di tutte le feste sulla Sunset Strip. In quegli anni tutti nella costa dorata la conoscevano per qualcosa. Babitz era, infatti, una stella locale: come scrive Esquire, «il segreto meglio custodito di Los Angeles,» ridotta alla somma di frammenti scandalistici delle sue avventure bohemién e conquiste. Fino a quando, stanca di questa retorica, dieci anni dopo quella fotografia Babitz si riappropria della sua storia e inizia a scrivere. Pubblica il memoir Eve’s Hollywood (1974) dove raccoglie, in un sottile equilibrio tra realtà e fiction, le sue avventure di ventenne bionda e bellissima a Los Angeles. Non solo una it-girl, Eve Babitz è anche una validissima autrice, passata inosservata troppo a lungo.

Puntualmente ogni due anni Bompiani pubblica un volume di quella che potrebbe essere definita l’epopea losangelina di Eve. Questa si snoda in autobiografie, memoir e romanzi che continua a scrivere dagli anni settanta. Dopo Slow Days and Fast Company (2017) e Sex & Rage (2019), a gennaio è uscito L.A. Woman, un “coming of age” che gioca sul double entendre della perdita della verginità come presa di coscienza della protagonista Sophie. Inizialmente una groupie innamorata di un musicista dai capelli neri ondulati di nome Jim, la seguiamo farsi strada nella Los Angeles degli eccessi guidata da un solo timore, espresso dalla domanda «Mamma, devo proprio fare qualcosa nella vita?». Specialmente quando le uniche cose che le interessano sono «divertirmi, gli uomini e i guai». C’è questa paura che paralizza Sophie ogni volta che teme di dover iniziare a prendersi sul serio che è condivisa da tutte le protagoniste dei libri di Babitz. E da Babitz stessa.

Eve Babitz courtesy Mirandi Babitz

Nei suoi scritti l’autrice non si allontana mai dalla sua esperienza: parte sempre dalla sua storia, la rivisita senza mai riscriverla. Le protagoniste sono sempre ragazze bionde abbronzatissime di inspiegabile origine ebraica con un padre troskista che fa il musicista. Si muovono nell’area di Hollywood tra una festa di Stravinskij (che puntualmente da quando Babitz aveva 13 anni le passa un bicchiere di scotch sotto al tavolo) e una di Rudolph Valentino, accompagnate da amanti improbabili che abbandoneranno alla prima occasione. Cercano disperatamente l’amore, lo vivono appena e rifuggono subito: «Scegliere un uomo è come scegliere un aggettivo, mi fanno tutti sentire modificata; anche una parola come girl-friend mi fa sentire come tagliata in due. Preferirei essere una macchina, una normale, non una macchina blu e nemmeno una macchina grossa, che passare il resto della mia vita prigioniera di un aggettivo».

Le sue protagoniste fanno proprio quell’ascendente di Marilyn Monroe che in Rabbia (1963) Pasolini evocava così: «continuavi ad essere bambina, sciocca come l’antichità, crudele come il futuro». Sono ragazze brillanti, ma frivole e infantili. Perché è esattamente così che vogliono apparire. Non c’è un momento nel quale non siano consapevoli di sé e incredibilmente serie. Anche quando pronunciano frasi del tipo: «Come potevano aspettarsi che una votasse se era bella e aveva tanti vestiti diversi da mettersi? E tutti quei fidanzati».

L’appannaggio narrativo della California è rimasto per troppo tempo nelle mani di Joan Didion. Il confronto tra le due autrici sorge naturale, perché si muovono nella stessa città negli stessi anni. Nel suo memoir d’esordio Babitz ringrazia la scrittrice di Sacramento per essere stata quello che lei non dovrà essere. Così, liberata dai vincoli narrativi che l’avrebbero obbligata a parlare della Storia più che della sua storia, si sente legittimata a scrivere di quelle cose che parrebbero superflue, banali, ma che racchiudono la realtà di Hollywood e della sua vita. Le feste, i flirt, il valium, lo scotch, le crisi nervose: la quintessenza della bellezza di avere vent’anni e della bellezza punto. Se le protagoniste di Didion sono spesso donne di mezza età che osservano critiche, a bordo vasca, lo stile di vita immorale della California, quelle di Babitz si tuffano nella piscina e si compiacciono di quello stesso stile di vita. Poi rientrano nella villa per asciugarsi e scrivono su un pezzo di carta chi hanno incontrato mentre facevano il bagno, di cosa hanno parlato e quante sigarette hanno fumato.

Spesso Eve Babitz inizia riflessioni sulla posizione che l’autore dovrebbe occupare all’interno della propria storia. Della giornalista Jacaranda di Sex & Rage scrive che «alle feste le donne la prendono da parte e le dicono “Non scrivere, tesoro. Non è carino”». È piacevole leggere Babitz proprio per l’assenza di distanza tra il narratore e il narrato. Il suo coinvolgimento la mette nella posizione di criticare e deridere sé stessa. Quando le cose si fanno serie, infatti, se ne esce con frasi come «era il momento per lei di andare in overdose, non in stampa».

Eve Babitz a Los Angeles, 4 aprile 1997, foto di Paul Harris/Getty Images

Per quanto i suoi libri sembrino cogliere lo zeitgeist del suo tempo, dando forma al desiderio femminile e all’imprudenza del piacere, non sono stati capiti dai suoi contemporanei. Criticata per lo stile non lineare che procede per associazioni e salti temporali, è stata liquidata come incompetente e frivola. Lei si giustifica dicendo che non si può scrivere una storia su L.A. che arrivata a metà non faccia inversione o si perda. Dopotutto, la città è sempre stata la musa dei suoi libri, e lei la sua amante, che si perde in righe d’adorazione per i suoi cieli violetti: «in me si accende la brama di distese sconfinate, smog e notti tiepide: L.A. è dove lavoro meglio, dove riesco a vivere, senza pensare alla realtà fisica».

Eve Babitz, figlia di L.A., è senza dubbio anche figlia del suo tempo. Eppure, incredibilmente, è arrivata dritta a noi. Rispolverati e rimessi in catalogo, negli ultimi anni in America i suoi libri stanno conoscendo una rinascita. Si parlerebbe addirittura di una serie tv di Hulu sulla sua vita. Ora l’autrice non è più una it-girl. Si è, infatti, ritirata dalle scene dopo un incidente causato da una sigaretta che l’avrebbe sfigurata. Oggi la apprezziamo perché riconosciamo che la sua oggettificazione ed esasperazione sono follemente consapevoli. Babitz è un’autrice serissima nel non volersi prendere sul serio, e le sue righe tanto spregiudicate quanto brillanti risuonano ancora a distanza di cinquant’anni. Forse perché non è cambiato niente da allora: alle ragazze piace ancora abbronzarsi, andare alle feste e crogiolarsi nelle loro crisi di nervi.