Cultura | Letteratura
Cosa significa essere scrittori (e lettori) europei
E come ritrovare l'europeismo perduto attraverso i romanzi.
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«Andiamo incontro al tempo come esso ci cerca», così un’epigrafe da Shakespeare apriva quella meravigliosa autobiografia sull’Europa e il suo tempo che Zweig scrisse e pubblicò postuma: Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo. In questi giorni di grande affanno per l’Unione, mangiata al suo interno dal cancro del populismo, in cui veramente siamo ricercati dai tempi bui, mi è venuto in mente spesso Zweig: il suo sguardo tragico su quel Novecento che avrebbe cancellato un mondo apparentemente libero a suon di guerre, stermini e deportazioni.
Ma come si fa oggi a essere europeisti e ottimisti a un tempo? Dichiarandosi soddisfatti di quello a cui siamo arrivati, e anche, diciamolo se volete a voce bassa, orgogliosi di un modello che ha saputo garantire libertà e benessere ad una fascia molto estesa della popolazione, in un modo inedito nella storia umana? Dovrebbero, gli scrittori della mia generazione, cioè i nati attorno agli anni ‘80 del Novecento, difendere questo modello di pace, che ha anche coinciso con il loro coming of age, oppure no? E se sì: perché questo silenzio? A mio avviso, abbiamo di fronte a noi un bene da difendere, da criticare, certo, ma anche da sostenere, al di là delle nostre distinte appartenenze politiche, liberali, di sinistra, di centro, di destra, che siano.
Ho colto ad esempio con grande entusiasmo la notizia che nel programma di quest’anno del festival letterario a Londra organizzato da scrittori italiani (il FILL, acronimo di “Festival della Letteratura Italiana a Londra”, e nato proprio a reazione delle temperie post-Brexit) l’italiano Nicola Lagioia e il francese Mathias Énard abbiano dialogato sulle sorti del romanzo europeo, e non solo. Ce ne sarebbe da farne di più di cose così: parlare apertamente dello stato di salute della narrazione del nostro popolo europeo (pieno di differenze e contrasti), dei nostri confini fisici ma anche linguistici, dei sentimenti inespressi e di quelli oramai saturati. Ma il tempo, per riprendere ancora lo Shakespeare di Zweig, corre verso di noi di gran lena; ed è un tempo imbruttito, difficile da raccontare, se non in modo sospeso, ritmato e poetico, come Ali Smith nel suo Autumn, sempre reagendo al gorgo post-referendario.
Le prossime elezioni europee a maggio 2019, potrebbero essere la pietra tombale di molte certezze, la finale. E chi se ne frega di Juncker e dei grigi burocrati attempati, che saranno sempre e comunque incomprensibili ai più, con le loro slide e i loro report mensili? Sto parlando di libertà (anche editoriali), di diritti che sono anche servizi garantiti al cittadino, di politiche d’inclusione (magari da rivedere), di tutti quei valori (la lista è lunga) che mi ha consegnato l’essere (e il dover essere) europeo, anche solo in forma minimale. Cosa possiamo fare per evitare il crollo di questo modello? Prima di tutto, raccontarci la nostra storia di oggi quasi quarantenni europei.
La mia prima esperienza “da europeo” la potrei far coincidere coi vent’anni appena compiuti, nei primi 2000, grazie alla oggi vituperata esperienza Erasmus. La mia ragazza allora era di vicino Granada, e quella mia avventura fu formativa e amorosa assieme; come dovrebbero esserlo tutte, se si potesse, le esperienze formative. Partendo dall’arroccata Granada, ci fu un momento in cui mi misi alla ricerca dello spettro di William Burroughs fino a Tangeri, passando per Gibilterra e le inquiete città di Ceuta e Melilla, simboli di quella “Fortress Europe” fallace e brutale sulla quale ho scritto un romanzo – e su cui molti autori hanno parlato con più accuratezza di me, vedi Alessandro Leogrande. Ma i migranti aggrappati alle muraglie costellate di filo spinato, o peggio i cadaveri che ho davvero avvistato sulle spiagge spagnole, non furono però una visione solipsistica: vi presero parte anche gli studenti tedeschi, francesi, inglesi e spagnoli con cui ho passato le notti nell’Albaicín, il conturbante quartiere arabo tutto in salita e dominato dall’Alhambra; erano le loro voci impastate assieme, insidiate dall’arabo stesso ma anche dall’andaluso, che avrei ritrovato nei cubani in America Latina dieci anni più tardi, costretto a trovare fortuna altrove.
L’America Latina, tra l’altro: la mia prima idea d’Unione ebbe anche tremendamente a che fare con una copia dei Detectives Salvajes di Roberto Bolaño comprata casualmente sempre a Granada, e con la sua morte in quello stesso anno, nel 2003, in un ospedale di Barcellona. Lui, solo uno degli ultimi grandi latinoamericani che hanno vissuto, prosperato, amato, sofferto la lontananza da casa, in Europa, liberi da caudillos, censure, persecuzioni (penso ad esempio ad un grande cantore di Parigi, l’argentino Juan José Saer, che fa dell’ubiquità dei suoi personaggi uno dei suoi segni distintivi). Per questo, quando viaggi per l’America Latina e dici che sei europeo, alla gente s’illuminano gli occhi. Ho vissuto in quegli anni insomma la mia prima Europa come un apprendistato garantito da un programma burocratizzato, una possibilità di crescita, e se vogliamo una possibilità a basso costo, un’Europa di voli a 0 euro tasse escluse, di paghette dei genitori spese in birre norvegesi o tapas spagnole, notturni al Trocadero e ostellacci ad Amburgo. Un viaggio consentito da un foglio grigio firmato da Bruxelles, e caricato poi di sentimento.
Avendo parlato di ostellacci tedeschi, la mia idea d’identità europea si stava formando in quegli anni anche grazie al romanzo, non solo latino-americano: si direbbe più su W. G. Sebald che su Montaigne. Essere europei significava in Sebald camminare sulle rovine di un olocausto sempre recente, nel tentativo di ricucire una comunità o almeno di pensarla. Non a caso i suoi romanzi sono indagini sulle tracce di personaggi più o meno famosi e di incontri improvvisi, come in Austerlitz, ma anche autobiografie di europei smemorati, dalle gambe tremanti, scombussolati nel proprio Io come nello splendido Vertigini. Forse è per questo che i grandi scrittori “camminanti” sono e sono stati europei. La costruzione di una memoria perduta e l’autocritica vertiginosa, il voler sempre andare avanti ma anche ritornare sui propri passi, hanno sempre fatto parte dello spirito europeo, almeno nella mia idea. Lo dico da frequentatore di genti americane, per le quali ahi loro le cicatrici della memoria sono una traccia fastidiosa da censurare o ghettizzare – capita persino oggi che sia uno scrittore messicano, e non americano, Álvaro Enrigue, ad aver scritto il romanzo definitivo su Geronimo e gli Apache, l’appena uscito per Anagrama Ahora me rindo y eso es todo (“Ora mi arrendo, e festa finita”). Il fatto che gli americani difficilmente amino camminare, se non in forma agonistica o per vocazione thoreauana, ecco, anche questo forse significa qualcosa per definirci.
L’Europa camminante di rovine di Sebald ha anche però il sapore un po’ retro delle stazioni, è un’Europa di stazioni sontuose: il suo più grande allievo è quel già citato Énard, che ha scritto il flusso di coscienza più bello degli ultimi 20 anni, Zona. Non l’ha fatto su di un volo Ryanair, ma seguendo il viaggio in treno di una spia pronta a consegnare una valigetta piena di segreti al Vaticano. Anche lì, l’Europa (e il suo rapporto con quello che le sta attorno, specie nel suo cuore mediterraneo) ritorna come orrore e come autocritica assieme, ferita e ricucitura allo stesso tempo. Ed è Énard che mi permette di ritornare a Granada: non si può leggere Zona senza passare per il suo recente Bussola, un altro lungo monologo, stavolta d’amore e follia diretti a Oriente – un dialogo che fa parte del nostro essere europei. Andate e ritorni sui binari, dunque, per capire e difendere la nostra identità, E pluribus unum, come ha detto Javier Cercas quest’anno al Salone del Libro di Torino. L’Europa appare come una costante, ossessiva riscrittura dei propri passi, delle proprie fermate: si pensi anche a I figli dei morti della Jelinek o a HHhH di Binet. Mentre, più ad est, in zona Visegrad, incalzano l’ungherese Krasznahorkai e il romeno Cartarescu. Entrambi, dalle rovine del comunismo, hanno saputo far esplodere i rigidi limiti immaginari dei propri lettori, il primo raccontandone le ansie messianiche post-sovietiche come in Melancolia della resistenza (libro utilissimo per capire oggi l’ascesa di Orban), il secondo ancora una volta scrivendo una sorta di autobiografia iper-sensoriale assieme di Sé e della propria nazione, nella trilogia Orbitor.
A differenza di alcuni di questi scrittori europei, la mia generazione, che questi stessi autori legge, o ha letto, è stata lambita dal fuoco solo di un’unica subdola guerra (quella degli attacchi terroristici), ma tutto sommato è ancora una generazione che, come teorizzò Daniele Giglioli, vive e scrive «senza trauma». Questo non significa che sia sprovvista degli strumenti per evitarne di nuovi. Che fine hanno fatto queste letture, se non le mettiamo in pratica e difendiamo un’idea d’Europa?
Per questo bisognerebbe, nel corso di questi mesi che ci si separano dalla primavera del 2019, difendere anima e corpo il nostro europeismo: farne la nostra Primavera, sebbene si sia tutti stanchi e doloranti. Prendete in mano il corposo Diario europeo di un fanatico costruttore di Europe come lo fu Altiero Spinelli. Apritelo agli anni 1970-1976, leggetene le prime pagine, che raccontano di quando finalmente diviene membro della Commissione europea. Vi troverete un uomo fin dai primi giorni perso nella burocrazia, nella politica sporca e brutta di ogni giorno. Ma Spinelli vi parla anche del suo stato di salute, della sua relazione con la moglie Ursula, dei sentimenti, dei tremori di non farcela a sostenere, fisicamente, il peso affannoso di una responsabilità così grande. “Certo, è un diario”, direte. Credo che dovrebbe essere così, “diaristica”, la nostra idea d’Europa da difendere: affannosa, ma anche impegnata e innamorata, dura da portare avanti nel quotidiano, a tratti grigia, ma anche la migliore e la più ottimistica possibile.