Cultura | Media
La Repubblica di Scalfari è stato e sarà l’ultimo giornale ad aver definito una comunità di lettori
Quello del fondatore è stato un modello che ancora oggi molti cercano di replicare senza riuscirci.
Immagine tratta dal documentario Scalfari. A sentimental Journey
Non c’è quotidiano o rivista che non consideri prioritario, per arginare la crisi del settore di questi anni, coltivare la propria comunità di lettori, farla crescere e vezzeggiarla. Lo consigliano gli esperti di media, lo vediamo nei tentativi, spesso addirittura asfissianti, di fidelizzare i lettori. Sì, sei un nostro lettore, ma perché non diventi qualcosa in più? Un nostro sostenitore? Hai letto già cinque nostri articoli questo mese, perché non ti abboni? Il giornalismo di qualità costa. Aiutaci a sostenerlo. Con gli abbonamenti che diventano sottoscrizioni, i contenuti top per chi ha pagato la copia cartacea, le raccolte punti come nei supermercati, le feste dei giornali – non di rado, purtroppo, con gli stessi ospiti che girano di festa in festa – e poi i viaggi con le firme del giornale, gli sconti, le newsletter col nome proprio di chi la riceve messo lì in grassetto in alto, come se qualcuno si illudesse davvero di essere il destinatario precipuo dell’editoriale. Caro Arnaldo, ecco la parola del direttore, o della firma prestigiosa, nella tua casella. Tutto per fare in modo che il lettore si riconosca nel giornale, lo difenda, lo rilanci sui social e se ne senta parte integrante e attiva.
Tutto sacrosanto. A volte efficace e, in rari casi, persino veritiero. (Ho diversi abbonamenti, a un paio di essi sono proprio felice di contribuire, ma mi fa sempre un po’ l’effetto di prenotare in un ristorante per poi scoprire che, per riempire gli altri tavoli, ha i buttadentro). In ogni caso, a pensarci bene, questa cosa era riuscita con Eugenio Scalfari e a Repubblica ben prima dei social, in buona parte ancora prima di internet, senza appoggiarsi a un partito o a un movimento, prima delle Repubblica delle Idee, quando le raccolte firme erano ancora impossibili, di tornei letterari di Robinson non si sentiva ancora il bisogno, ai lettori non venivano richieste le foto col foliage in autunno per riempire il sito, anzi i lettori non avevano praticamente mezzi per conoscersi tra loro e, con buona probabilità, non ne avevano neanche voglia.
E a nessuno veniva in mente di dedicare loro contenuti esclusivi che non fossero contenuti sul giornale stesso. Repubblica era già una comunità, fortissima, incredibilmente coesa, capace di incidere realmente. E i suoi lettori si riconoscevano in Repubblica senza che gli venisse richiesto esplicitamente di farlo. La appoggiavano, erano davvero sostenitori oltre che lettori, modellavano il proprio pensiero in base a ciò che vi leggevano, si riconoscevano nel gesto di acquistarla come, una volta, gli audaci con in tasca l’Unità di Guccini. E accadeva quasi senza sforzo (non che non ci fosse, ma la grazia sta proprio lì, quando sei così centrato che appari andare di inerzia), rappresentava un modo di pensare prima che diventasse un frusto modo di dire.
In questi giorni non mancheranno le analisi approfondite del successo editoriale del quotidiano, ma ciò che i numeri o il superamento di primati che apparivano inscalfibili non possono spiegare è come Repubblica sia stato l’ultimo quotidiano ad aver definito una generazione e una classe socio-culturale.
Pochi giorni prima di Eugenio Scalfari, ci ha lasciati una delle firme storiche del suo giornale, Gianni Clerici. Ci ripenso perché, per celebrare la sua bravura, mi è parso che si eccedesse nella nostalgia. Come se non fossero davvero Scalfari o Clerici o Bocca o Beniamino Placido a mancare e a essere insostituibili, ma sia la nostalgia delle mattine in cui eravamo più giovani, non c’era internet e la lettura del quotidiano era davvero la cosa più stimolante che potesse capitarci. Mi pare, invece, che l’irripetibilità di quella stagione non stia solo nelle contingenze del momento, ma nella qualità che, tuttora, tiene in piedi quel marchio.
Tuttora i migliori o i più benintenzionati giornalisti che sognano di scrivere per quel giornale, lo fanno in virtù di ciò che è stato e ha rappresentato. (Specularmente e freudianamente anche chi passa le giornate a fare le storie di Instagram per spernacchiarlo). E – molto più importante – tuttora i lettori e gli abbonati, anche quelli della Repubblica delle Idee (forse soprattutto quelli), o quelli che credono ancora nel giornale come comunità di persone, lo acquistano per il ricordo di quelle Repubbliche lì del passato. E cercano quella continuità lì. A volte perfino contro l’evidenza.