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20:40 martedì 15 luglio 2025
Il figlio di Liam Gallagher si sta facendo bello ai concerti degli Oasis indossando le giacche del padre Gene Gallagher è stato pizzicato a indossare una giacca Burberry di papà al concerto di Manchester: l’ha definita un «cimelio di famiglia».
In una piccola città spagnola, una notizia che non si sa se vera o falsa ha portato a una caccia all’immigrato lunga tre giorni Tutto è partito da una denuncia che ancora non è stata confermata, poi sono venute le fake news e i partiti di estrema destra, infine le violenze in strada e gli arresti.
Una ricerca ha scoperto che quando sono stressate le piante ne “parlano” con gli animali Soprattutto con gli insetti, attraverso dei suoni specifici. Gli insetti però non sono gentilissimi: se una pianta sta male, loro la evitano.
Hbo ha pubblicato la prima foto dal set della serie di Harry Potter e ovviamente ritrae il nuovo Harry Potter L'attore Dominic McLaughlin per la prima volta volta in costume, con occhiali e cicatrice, sul set londinese della serie.
Nel nuovo disco di Travis Scott c’è un sampling di Massimo Ranieri In uno dei più improbabili crossover di sempre, nella canzone "2000 Excursion" di Scott si trova anche "Adagio Veneziano" di Ranieri.
L’annuncio dell’arrivo a Venezia di Emily in Paris lo ha dato Luca Zaia Il Presidente della Regione Veneto ha bruciato Netflix sul tempo con un post su Instagram, confermando che “Emily in Venice” verrà girato ad agosto in Laguna.
Ancora una volta, l’attore Stellan Skarsgård ha voluto ricordare il fatto che Ingmar Bergman era un ammiratore di Hitler «È l’unica persona che conosco ad aver pianto quando è morto Hitler», ha detto. Non è la prima volta che Skarsgård racconta questo lato del regista.
Superman non ha salvato solo la Terra ma anche Warner Bros. La performance al botteghino dell'Uomo d'acciaio è stata migliore delle aspettative, salvando lo studio dalla crisi nera del 2024. 

Trump ha vinto gli Emmy

È andato tutto come previsto: l'affermazione di Hulu e la vittoria di Big Little Lies, ma i premi hanno soprattutto confermato l'esistenza di un'ossessione politica.

18 Settembre 2017

È andato tutto come previsto: Trump ha vinto gli Emmy. Stephen Colbert, che ha condotto la serata di consegna dei maggiori premi televisivi americani, l’ha fatto intuire fin dal monologo d’apertura: è tutta colpa nostra; se gli avessimo dato un Emmy anni fa per The Apprentice, probabilmente Donald non si sarebbe mai candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Poi è arrivato Sean Spicer (quello vero), ex portavoce della Casa Bianca già parodiato da Melissa McCarthy al Saturday Night Live: il pubblico in sala non sembrava granché divertito, e nemmeno quello su Twitter. Poi Alec Baldwin ha vinto per la sua monumentale imitazione di Trump, sempre al Saturday Night Live: «Presidente, ecco il suo Emmy». Poi Jane Fonda, Dolly Parton e Lily Tomlin hanno ricordato il loro Dalle 9 alle 5: «Nel 1980, in quel film, ci rifiutavamo di venire comandate da un bigotto sessista, egomane, bugiardo e ipocrita. Nel 2017, ci rifiutiamo ancora». Poi Donald Glover ha vinto per Atlanta (come attore e come regista, primo afroamericano nella storia dei premi), e ha ringraziato Trump per aver riportato i neri al numero uno nella lista dei più oppressi tra gli oppressi. Poi Julia Louis-Dreyfus, la vicepresidente di Veep, ha ricevuto il sesto Emmy di fila dicendo: «Avevamo una storyline su un impeachment ma l’abbiamo abbandonata, perché temevamo che a qualcuno potesse succedere prima». Poi ci sono stati i contrappunti, qua e là nei discorsi, sull’America di oggi, uno stato paragonabile a quello di The Handmaid’s Tale (Miglior serie drammatica), dove sono saltati i diritti e tiene banco la paura.

L’unica impresa in cui, fino ad ora, è davvero riuscito il “presidente cialtrone” sembra proprio questa: rendere i suoi amici-nemici di Hollywood un gruppo di persone che, parlando ossessivamente di lui, parlano solo a se stesse. E creare nell’immaginario del pubblico (pardon: degli elettori) una frattura sempre più profonda tra l’industria culturale e il Paese reale. Di là c’è una minoranza di miliardari che si autocelebra: noi che ci impegniamo, noi che siamo dalla parte giusta, noi che abbiamo appena aiutato i poveri alluvionati, eccetera. Di qua un Paese lontano anni luce, che guarda alle stelle del cinema e della tv come a un gruppetto di privilegiati sempre più scollato dai problemi quotidiani di cui si professa difensore. È un po’ quello che ha fatto Silvio Berlusconi da noi, ma all’ennesima potenza: gli showrunner americani hanno un peso (anche politico) più considerevole dei centoautori del Pigneto. Lo denunciava pure il Guardian nel liveblogging di questa lunga notte, davanti all’apparizione del vero Spicer: «Siamo in imbarazzo. Una pessima ospitata». A rimarcare che, di fronte a certe battute, ormai si divertono in pochi. E l’unico a giovarne è proprio The Donald.

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Tutto questo avviene quando, per paradosso, la produzione televisiva statunitense sta davvero vivendo un momento glorioso, nonché cambiando sensibilmente il suo scenario narrativo e produttivo. Fino a qualche anno fa sarebbe stato impensabile vedere Margaret Atwood (autrice del Racconto dell’ancella originale, da cui è tratta la serie trionfatrice) sul palco di un premio televisivo. La “sua” The Handmaid’s Tale è la prima vittoria nella categoria “Best Drama” per una piattaforma di streaming come Hulu, un player sempre più rilevante sul mercato, ma anche un successo femminile non scontato, traghettato dalla sua protagonista e produttrice Elisabeth Moss (Miglior attrice di serie drammatica). Lo stesso vale per Big Little Lies (Miglior miniserie drammatica), risultato di un vincente team capeggiato da Reese Witherspoon e Nicole Kidman (miglior attrice di miniserie drammatica), due interpreti e produttrici che hanno saputo usare direttamente il mezzo televisivo come occasione per attuare un discorso profondamente politico, senza passare da inutili comizi. Kidman dedica il suo trofeo alle vittime di violenza domestica (lo è la sua Celeste nella serie Hbo), Witherspoon si augura un futuro prossimo di «storie in cui gli eroi sono donne». Nell’anno di Donald, vincono le Hillary di Hollywood. È un caso?

La tv è cambiata, anzi: è ancora giusto parlare semplicemente di tv? Si possono mettere sotto la categoria “televisione” prodotti che passano da piattaforme come Hulu, appunto, o Netflix e Amazon? Siamo sicuri che il linguaggio delle serie di oggi sia solo un’evoluzione diretta di quello dei telefilm di una volta? E il coinvolgimento sempre più massiccio di registi, produttori e sceneggiatori nati al cinema non sarà un elemento sempre più significativo, nelle produzioni di domani? È un mutuo soccorso: Hollywood è salita sul carro del vincitore (le serie che continueremo a chiamare televisive, fossero anche destinate solo ai nostri telefonini), la produzione seriale ha rubato il meglio della Hollywood del cinema, entrata negli ultimi due decenni in una crisi profondissima.

In tutto ciò entra in gioco la politica. Quando là fuori c’era Barack Obama, le coscienze di Hollywood erano al sicuro: non c’era necessariamente bisogno di storie col messaggio edificante. Come ha detto Stephen Colbert stanotte: avete premiato per anni un cattivo ragazzo come il Walter White di Breaking Bad, ora alla Casa Bianca abbiamo per davvero un Walter “Whiter”. Il rischio che corre l’industria americana dell’intrattenimento, adesso, è incartarsi in questa lotta delle anime belle contro il nemico. In una berlusconite al quadrato. Il destino infausto è diventare un infinito numero di MicroMega, anche perché poi sappiamo come va a finire. Da noi si è messa a firmare gli editoriali Veronica Lario; da loro una riabilitazione di Ivanka non è impossibile, forse, tra qualche anno, chissà.

Foto Getty
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