Attualità

Golpe, rivoluzioni e meritocrazia

Come piazza Tahrir, un governo islamista e un coup militare hanno portato al boom delle startup egiziane. Un sistema clientelare crollato sotto l'incertezza.

di Matteo Colombo

In Egitto sono tempi difficili anche per gli opportunisti. Prima della rivoluzione il potere era spietato ma facile da identificare, i suoi simboli e i suoi riti erano semplici da riconoscere, ciascuno sapeva a chi rivolgersi per chiedere qualcosa: c’era il poliziotto corrotto che voleva i soldi per chiudere un occhio su un mancato adempimento di legge, l’uomo del partito che controllava i voti in un quartiere, l’imprenditore di regime che si faceva strada grazie alle sue conoscenze.

Ora questo sistema non esiste più, ma non è ancora stato sostituito da un altro blocco di potere. Non c’è da stupirsene, visto che in soli 30 mesi l’Egitto è passato attraverso una rivoluzione, un fallimentare governo islamista e un golpe militare. Nessuno ha avuto quindi la possibilità di creare una struttura di potere ed economica in grado di distribuire favori in cambio di consensi, come succedeva ai tempi di Mubarak. Il risultato, forse paradossale, è che in questa fase di “vuoto di potere” (o, meglio, in cui non c’è un gruppo in grado di esercitare uno strapotere) si è aperto uno spazio per i giovani. Insomma, nuovi imprenditori che non sono legati né agli islamisti né ai militari, ma che vogliono rimboccarsi le maniche. Soprattutto nell’hi-tech: infatti l’export egiziano di prodotti ad alto valore tecnologico è quasi raddoppiato in soli tre anni, passando da 1,1 milioni di dollari nel 2010 a 2 milioni nel 2013.

Il potere assomigliava ad una piramide a gradoni. Ognuno conosceva il suo posto nella struttura sociale e imparava a calibrare le sue ambizioni in base alla posizione di partenza, senza illudersi di poter salire troppo in alto.

Prima della rivoluzione contro Mubarak del gennaio 2011 questa crescita non sarebbe stata possibile. Il potere, infatti, assomigliava ad una piramide a gradoni. Ognuno conosceva il suo posto nella struttura sociale e imparava a calibrare le sue ambizioni in base alla posizione di partenza, senza illudersi di poter salire troppo in alto. Il sistema si reggeva su quattro pilastri: l’esercito, il Presidente, il partito e l’establishment economico. Chi non faceva parte di almeno uno di questi gruppi non aveva molte possibilità di diventare ricco. Mettersi in proprio era impossibile per tanti ragazzi che avevano un’idea brillante, o anche solo qualcosa da vendere. Il prerequisito era conoscere 1) la complicatissima burocrazia egiziana e 2) qualcuno disposto a chiudere un occhio sulla sua violazione. Tanti finivano così per rassegnarsi e mandare il loro curriculum a qualche compagnia straniera.

Poi è arrivata la rivoluzione e la piramide è caduta. Molti egiziani che prima volevano andarsene si sono innamorati di nuovo del loro Paese. I taxisti, ad esempio, lasciavano sbiadire colori di Italia, Francia o Qatar, dipinti sulle targhe delle loro automobili, ed esponevano con orgoglio la bandiera egiziana sul cofano. C’era addirittura chi diceva che ci fossero meno bottiglie e sacchetti di plastica a galla sul Nilo, perché i cittadini del Cairo avevano imparato a prendersi cura della loro città. Che questo fosse vero o meno è difficile dirlo, ma che alla gente fosse tornata la voglia di prendersi cura del proprio Paese lo si capiva dalle discussioni per strada, dall’esplosione artistica e dalle piazze piene. La novità era che per qualche mese il poter era scomparso e tanti avevano iniziato a credere di poter fare qualcosa per il proprio Paese da soli, senza dover passare attraverso il sistema di favoritismi e raccomandazioni.

Era un’illusione, però, e di breve durata. Dopo la vittoria dei Fratelli Musulmani alle elezioni del 2012 il Paese è tornato a dividersi. Gli Islamisti si erano soprattutto preoccupati di occupare i centri nevralgici dello Stato, come polizia e televisione, per fare dell’Egitto il Paese che sognavano. Erano cambiati gli uomini, ma la natura del potere era rimasta la stessa: chi voleva continuare a lavorare si adeguava, come aveva sempre fatto, erano i mesi della prima presentatrice velata della tv di Stato, dei poliziotti che avevano chiesto di eliminare la proibizione di portare la barba lunga e dei negozi che esponevano il manifesto del presidente Morsi alla vetrina per far capire da che parte stavano.

Nel frattempo però i ragazzi della borghesia urbana – cioè quelli che avevano dato il là alla rivolta di piazza Tahrir, ma che non si riconoscevano affatto nel nuovo governo – avevano imparato a esprimere la propria opinione. Ma avevano anche capito che il loro impegno non era bastato per cambiare l’Egitto come avrebbero voluto. Così tanti avevano cominciato a disinteressarsi del proprio Paese e a pensare soprattutto a se stessi. I giovani della classe medio-alta del Cairo erano così divisi in due gruppi: quelli che pensavano che lottare non servisse a nulla e si iscrivevano alla palestra o ai corsi di ballo, lasciandosi ossessionare dalla dieta e da un visto per l’estero che non arrivava mai, e quelli che mettevano in piedi una piccola impresa.

Quando l’esercito ha deposto il Governo dei Fratelli Musulmani nel luglio del 2013, tutti i riflettori erano puntati sullo scontro frontale tra militari e islamisti, ma dietro le quinte era in corso un cambiamento silenzioso. Qualcosa era iniziato a cambiare nella mentalità dei giovani di questo Paese, soprattutto tra i ragazzi laici, istruiti e cosmopoliti. Per loro era difficile scegliere tra i militari o gli islamisti: meglio quindi pensare a creare una nuova applicazione dell’iPhone o a trovare il modo per ottenere l’energia elettrica dai rifiuti. Ognuno immaginava qualcosa di nuovo e c’era anche chi voleva esplorare altri pianeti, come Aisha Mustafa, che ha ideato un nuovo propulsore per le astronavi che esploreranno lo spazio quando aveva solo 19 anni e forse non era mai stata fuori dall’Egitto.

Oggi il Cairo è un fiorire di startup e piccole imprese: negli ultimi 12 mesi ne sono nate 9 mila, una cifra record per un paese storicamente poco incline all’iniziativa personale.

Oggi pochi liberali vanno ormai alle manifestazioni (anche se qualcuno di loro tifa per i militari), ma il Cairo è un fiorire di startup e piccole imprese: negli ultimi 12 mesi sono nate 9 mila piccole società, una cifra record per un paese storicamente poco incline all’iniziativa personale. Un dato particolarmente sorprendente inoltre, se paragonato con il resto dell’economia del Paese, paralizzata, faceva notare Bloomberg. In Egitto «sta fiorendo una nuova cultura delle startup», titolava The Atlantic.

È un momento unico e irripetibile: il settore delle nuove tecnologie, grazie anche a qualche investimento intelligente dell’epoca di Mubarak, sta crescendo a ritmi molto alti. L’uso di internet, ad esempio, è aumentato del 10% nell’ultimo anno. Il numero di egiziani che sceglie di avere una connessione veloce, sia essa Adsl o Usb, è cresciuto addirittura del 22% tra il 2012 e il 2013. C’è poi una continua espansione del settore telefonico, al punto che ha ormai 10 milioni di egiziani si collegano ad internet dal cellulare.

Sarà pure una svolta consumista, lontano da alcune istanze della rivoluzione, come l’ equità e la giustizia sociale, ma crea nuovi posti di lavoro. È ciò di cui ha bisogno l’ Egitto: gente in grado di pensare con la propria testa e che sappia creare ricchezza e benessere.

Piazza Tahrir ha insegnato agli egiziani che ce la possono fare da soli e che serve una buona idea e tanto impegno per cambiare la situazione. I mesi successivi alla rivolta hanno fatto capire che non bastano i sogni per rendere un Paese migliore. Ora inizia il tempo del duro lavoro, dei cambiamenti lenti e del lavoro costante, dell’impegno e delle serate insonni per trovare una formula matematica che consenta di risolvere un problema.

In Egitto sono ormai tempi difficili anche per i rivoluzionari.

 

Nella foto: piazza Tahrir, Cairo (Peter Macdiarmid/Getty Images)

 

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