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Dune – Parte 2 è un kolossal come non se ne vedevano da anni

Il ritorno ad Arrakis è la vetta della carriera di Denis Villeneuve, la prova che Hollywood è ancora capace di produrre grandissimi film che siano anche opere d'autore.

01 Marzo 2024

La sua biografia dirà che Denis Villeneuve ha passato gli ultimi tre anni a lavorare a Dune – Parte 2, ma la verità è che non ha mai smesso di lavorarci da quando aveva tredici anni e passava il tempo libero a disegnare storyboard per il film che già all’epoca occupava tutto lo spazio nella sua mente. Di anni adesso Villeneuve ne ha 56, e il tempo passato a fantasticare su questa storia, questo mondo, questi personaggi si vede tutto. Dune – Parte 2 è una liberazione, è un’ossessione che finisce: Villeneuve ha compiuto un’impresa impossibile, ha superato una prova dalla quale i migliori registi di un’altra generazione – David Lynch, Alejandro Jodorowski – erano stati sconfitti. Se Dune – Parte 2 fosse una cosa soltanto, sarebbe il suo trionfo personale: ha adattato il romanzo impossibile di un autore inarrivabile, lo ha fatto con «l’entusiasmo di un bambino di quattro anni» (è così che Villeneuve definisce la versione di se stesso che esiste solo sul set, durate le riprese) e la maestria di un regista navigato. Il risultato è un film compiuto, che sta in piedi senza bisogno di reggersi a quel che è stato (la Parte 1) né a quel che sarà: Villeneuve sta già scrivendo la sceneggiatura di Dune Messiah, l’ultimo capitolo della sua trilogia, dopo il quale ha già detto farà posto a chiunque avrà l’incoscienza di provare il confronto. «Sono stanco», ha detto, spegnendo l’entusiasmo di chi adesso pretende da lui anche la trasposizione degli altri cinque romanzi che compongono la saga letteraria (valgono solo quelli scritti da Herbert, ovviamente).

Villeneuve è stanco, e si capisce. Dune – Parte 2 è una bestia immensa come il verme delle sabbie di Arrakis, uno spettacolo magnifico da ammirare in lontananza e un rischio mortale per il fedaykin che lo cavalca: dirigere un film così stanca, certo. Ed esalta anche, come le scene in cui i Fremen sfrecciano a pelo di sabbia sul dorso pietroso di Shai Hulud. Dune – Parte 2 si muove proprio come l’animale totemico del pianeta della spezia: coperto sotto la sabbia di trama e dialoghi per lunghissimi tratti, improvvisamente esplode in superficie con sequenze d’azione che stravolgono chi guarda nello stesso modo in cui il passaggio del verme delle sabbie spezza in un attimo le linee che per millenni il tempo ha disegnato nel deserto. Queste scene d’azione sono immense per lo spazio che coprono, i rumori che emettono, le fiamme che sprigionano, i morti che lasciano. Se in Dune – Parte 1 ne avevamo fatto un assaggio tardivo, stavolta ce ne abbuffiamo. Con la vastità e il fragore di questi momenti, Villeneuve dimostra che il kolossal americano esiste ancora: i film immensi possono essere il luogo di espressione di talenti equivalenti, l’autorialità non è obbligatorio cercarla nelle ristrettezze del cinema indipendente. Non è un caso che il film sia piaciuto tantissimo a Christopher Nolan, altro regista abituato a lavorare su grandi scale. E non è un caso che Nolan lo abbia intuitivamente paragonato a L’impero colpisce ancora, altro film che da solo spostò i confini della fantascienza dell’epoca e del “grande film” in generale. «Non avrei potuto immaginare un complimento più grande», ha detto Villeneuve dopo aver saputo dell’opinione di Nolan.

Dune – Parte 2 è film grande, non blockbuster – c’è un senso ormai irrimediabilmente omologante in questa parola, un rimando alla produzione in serie, al modello industriale del morente cinecomic – ma kolossal. In un kolossal contano davvero le scelte dell’autore, e Dune – Parte 2 è un film che non sarebbe esistito se non fosse stato per le scelte di Villeneuve. Quantomeno non sarebbe esistito così, che è più di quanto si possa dire della maggior parte delle produzioni di questa importanza uscite da Hollywood negli ultimi quindici anni. In questa Parte 2 Villeneuve ha avuto il coraggio di cambiare notevolmente il testo originario, ripulendolo da tutte le inattualità (Paul Atreides è un esempio abbastanza manualistico di white savior) che lo avrebbero azzoppato. Dal punto di vista della scrittura, il lavoro più interessante è quello fatto sul personaggio di Chani: dall’amante-concubina di Herbert, il personaggio viene trasformato nell’incarnazione di un dilemma – istintivamente ama il ragazzo Paul, culturalmente rifiuta il messia Lisan al-Ghaib – che purtroppo si manifesta entro i limiti imposti dalla limitata espressività di Zendaya, ferma sullo stesso broncio per quasi tutto il film.

Ma il lavoro di scrittura si vede anche nei personaggi di Stilgar (Javier Bardem) e Lady Jessica (Rebecca Ferguson), complementari a Chani nell’elaborazione di uno dei temi, se non il tema, fondamentali del film: le conseguenze del potere per le masse sulle quali viene esercitato, la sua capacità di mutare come un virus adattandosi al corpo infettato, di diventare indifferentemente ribellione (Chani), fanatismo (Stilgar) o manipolazione (Lady Jessica). Un tema, questo delle conseguenze del potere, che Villeneuve e il cosceneggiatore Jon Spaihts hanno raccontato soprattutto attraverso Paul (Timothée Chalamet). Consapevoli dell’equivoco al quale questo personaggio è destinato – Herbert fu quasi costretto a scrivere Messiah dopo aver capito che tutti avevano frainteso Paul per un eroe quando lui lo intendeva come un antieroe, come la prova che nessuna salvezza arriva dalla venuta dei Messia – lo hanno reinventato, proponendone una versione inedita che fonde in uno il primo e il secondo Paul Atreides di Herbert, quello che è esistito prima e quello che esisterà dopo la guerra santa.

Se il lavoro sulla sceneggiatura di Dune – Parte 2 è notevole, quello sulle sue immagini è strabiliante. Grazie alla fotografia di Greg Fraser e al montaggio di Joe Walker, Villeneuve compie il suo capolavoro estetico. Girato tra Giordania e Arabia Saudita, ispirato evidentemente al Lawrence d’Arabia di David Lean (ma non solo: dentro questo Dune ci sono anche Akira e L’ultima tentazione di Cristo), Parte 2 è il risultato di scelte artistiche radicali. Per girare trenta minuti di scene nel deserto spesso ci sono voluti tre giorni interi di riprese: «Avevamo la luce giusta soltanto per dieci minuti al giorno», ha raccontato Villeneuve. La decisione di usare tutta la luce naturale possibile alla fine ha pagato, sia nel modo in cui in Parte 2 il deserto “lavora” per il film – «il deserto deciderà il suo destino», dicono, appunto, gli anziani saggi Fremen – sia nel modo in cui permette a Villeneuve di trattare i volti dei suoi attori come paesaggi. Il film è pieno di primi e primissimi piani in cui la luce scava valli e alza dune nelle facce degli attori, trasformandoli in “luoghi” che il regista usa per ambientare le scene più intime, riflessive, meditabonde del film. È una scelta che paga in una circostanza e penalizza in un’altra, però: quando l’inquadratura si allarga e si allontana dal volto e si fa cornice di un corpo, Dune – Parte 2 diminuisce. Lo si nota soprattutto nella scena in cui Paul si rivela come Lisan al-Ghaib davanti ai Fremen riuniti in sessione plenaria: dovrebbe essere un momento catartico, il corrispettivo di Aragorn che esalta gli uomini dell’ovest davanti al Nero Cancello di Mordor nel Signore degli anelli (altro film al quale Dune – Parte 2 deve parecchio), ma manca un pezzo. Forse manca un pezzo nell’interpretazione di Chalamet, ancora incapace di prestazioni “a corpo intero” come quella che sarebbe necessaria in certi momenti di questo film.

Forse manca un pezzo perché anche Dune – Parte 2 soffre dello stesso problema di cui soffrono tutti i film suoi pari in questa epoca: è troppo lungo, una lunghezza che rende soprattutto il secondo atto ridondante e trascinato e che rende il climax (il duello all’arma bianca tra Paul e il Feyd-Rautha Harkonnen interpretato da Austin Butler) troppo breve rispetto alle attese, nonostante si capisca che lo scontro sia ispirato a quelli fulminei tra i samurai di Kurosawa e non certo a quelli lunghi ed esasperanti degli action moderni. È un film con dei difetti, Dune – Parte 2, lo ha ammesso lo stesso Villeneuve per fermare la macchina mortale dell’hype che lo voleva autore di un’esperienza semi-religiosa, di un’opera rivoluzionaria (non è così: don’t believe the hype). Perfezionista com’è, ha detto di aver tagliato moltissimo girato e ha assicurato che non ci saranno futuri director’s cut del film fatti quasi interamente di materiali di scarto: «Quello che non è nel film non è il film», ha spiegato, opponendosi all’ennesima disgraziata tendenza commerciale di Hollywood. Nel film stanno e restano i suoi difetti, ha detto Villeneuve: questi sono la traccia lasciata dal passaggio di un autore, come il Fremen che con il suo passo della sabbia rovina inevitabilmente l’immobile perfezione del deserto ma allo stesso tempo dimostra così la sua esistenza in un mondo all’apparenza privo di vita. E Dune – Parte 2 dimostra proprio questo: che gli autori a Hollywood vivono ancora e che sono ancora capaci di fare film immensi come il deserto.

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