Attualità

Due o tre cose su Demetrio Albertini, il vecchio Pirlo

Metronomo, genio, geometra, assistman: un breve ritratto di Demetrio Albertini da giocatore, un Pirlo prima di Pirlo, la cui carriera è finita per l'arrivo al Milan dello stesso Pirlo. E qualche episodio illuminante.

di Davide Coppo

Da quando lo conosco me l’hanno sempre presentato così: «Lui è il metronomo». Cos’è un metronomo, mi chiedevo e non sapevo rispondere, e ricordo che accettavo quella dicitura, metronomo, come si accettano delle regole, dei dogmi, dei dati di fatto. Non capivo davvero cosa volesse dire, non sapevo cosa fosse un metronomo e le spiegazioni («è perché dà i tempi di gioco in mezzo al campo») non servivano a molto. Nemmeno quando ho scoperto cosa fosse un metronomo le cose sono migliorate. Ci ho messo un po’, ho dovuto capire l’utilizzo delle metafore nella lingua italiana e scoprire l’importanza tattica del centrocampista centrale, un po’ mediano, un po’ regista.

Il 15 marzo 2006, dopo quattro stagioni tra Atlético Madrid, Lazio, Atalanta e Barcellona, Albertini si ritira dal calcio con una partita amichevole tra Milan e Barcellona, a San Siro. Durante il suo ultimo giro di campo io, in piedi sui seggiolini blu sporchi, piango un po’.

L’undici luglio 1991 esce su la Repubblica un articolo intitolato “Del Piero o Fortunato, sconosciuti da scommessa”. È un articolo sui giovanissimi calciatori italiani “da tenere d’occhio”, come si dice, e i nomi che vengono fatti sono quelli di Bruno Trocini, Michele Menolascina, Luca Pastine, poi Alessandro Del Piero, «poco più di un bambino», e infine Demetrio Albertini, 19 anni, descritto come «già una testa di serie» e che dopo un’ottima stagione al Padova in Serie B si prepara a tornare al Milan. Sarebbe facile dire che un tempo le squadre avevano le porte aperte ai giovani, facile in quanto sarebbe una valutazione fatta su due piedi, immediata e senza un ragionamento a suo sostegno, però Demetrio Albertini nell’agosto del 1991 torna al Milan, ha appena compiuto 20 anni, gioca 28 partite in campionato condividendo il campo con Marco Van Basten, Ruud Gullit, Daniele Massaro. Carlo Ancelotti invece perde il posto. Vince la Serie A senza perdere una sola partita.

Demetrio Albertini nell’agosto del 1991 ha appena compiuto 20 anni, gioca 28 partite in campionato condividendo il campo con Marco Van Basten, Ruud Gullit, Daniele Massaro. Carlo Ancelotti perde il posto.

C’è una fotografia di Demetrio Albertini risalente ai tempi del Padova, all’unica stagione giocata nel Padova in Serie B. Demetrio ha le mani in tasca, una polo della società con le mezze maniche larghe e lunghe come negli anni Ottanta e Novanta, gli arrivano oltre i gomiti. I pantaloni hanno le pences e sono marroni e sembrano troppo larghi. Al polso sinistro, la mano in tasca, si intravede un orologio azzurro di plastica, forse uno Scuba. È una bella foto e sembra mostrare i lati principali del carattere pubblico di Albertini: un po’ nerd, un po’ noioso, molto impegnato e dedito. E con quei capelli ingombranti come un casco, e folti come un gomitolo, e le labbra sporgenti, i tratti vagamente femminili e infantili. Sembra quello che banalmente si descriverebbe come “bravo ragazzo” e lo conferma il suo impegno nell’educazione della squadra: il fratello, Alessio, è uomo di chiesa. Nel giugno del 1992 viene ordinato sacerdote dal cardinale Martini in piazza Duomo a Milano. Il Corriere della Sera scrive che Demetrio è presente con alcuni compagni di squadra, senza specificare quali. Piazza Duomo, 14 giugno, il sole che brucia di estate, diecimila fedeli, una cerimonia formale, religiosità ossequiosa, celebrativa, barocca, Demetrio Albertini. Cosa ci fanno «alcuni compagni di squadra»? Chi sono? Sono andati per amicizia? Si saranno annoiati? Avranno avuto caldo e pensato “perché ho accettato l’invito?”? Come ha fatto un calciatore di 21 anni a convincere altri calciatori forse più grandi ad accompagnarlo alla cerimonia di nomina di 45 cardinali? Oggi sarebbe possibile?

Il primo gol segnato con la maglia del Milan è bellissimo: batte un calcio d’angolo da sinistra corto per Evani che è lì a due passi. Passa dietro a Evani e si sistema quasi sul vertice dell’area, ma ancora spostato più verso il fondo del campo. Da lì tira, all’improvviso, incoscientemente o coraggiosamente, fatto sta che il pallone è veloce e teso e finisce sotto il sette del secondo palo. Albertini si è tagliato i capelli e adesso ha un taglio più contemporaneo, più ancora tipicamente anni Ottanta, ma comunque moderno, giovane. Dopo la partita il giornalista Rai gli dice: «Questa prerogativa di calciare da fuori…» e lui sembra quasi arrogante ma probabilmente è soltanto inesperto, dice: «Sono le mie caratteristiche, le ho sfruttate l’anno scorso a Padova, non vedo perché non dovrei sfruttarle qui al Milan». Prima di andarsene, sorride, antipatico ma convinto.

Tira da fuori, tanto, e sa segnare. Ha fatto pochi gol, ma molti di questi pochi sono gol splendidi, potenti e non solo precisi, furbi, a volte con traiettorie che scavalcano il portiere da trenta metri di distanza dalla linea di porta. Però: metronomo. I tempi, i passaggi, l’ordine, il rigore. Metronomo è un soprannome che suggerisce i concetti di regolarità, costanza, lavoro, metodo, sono i tempi necessari, un metronomo non sbaglia, fa tac, poi fa tac, può farlo a quattro quarti o ad altri tempi. Demetrio Albertini non è solo quello. Carlo Ancelotti arriva al Milan dopo Fatih Terim, Ha in squadra Andrea Pirlo e sceglie di farlo giocare davanti alla difesa, lasciando Albertini ai margini. Si potrebbe pensare a una vendetta di Ancelotti, messo in panchina da un Albertini ventenne nella sua prima stagione da titolare al Milan, nel 1991, si potrebbe e Albertini dopo una sola stagione con Ancelotti in panchina se ne va in Spagna all’Atletico Madrid dicendo «qui [al Milan] ero accettato, l’Atletico mi ha desiderato», e poi «con Ancelotti ci siamo parlati poco. L’ultima volta lui mi disse “mi pare che tu abbia già preso la decisione”. Ma da allora sono trascorsi giorni e lui non ha aggiunto altro. Confidavo che si avverasse il sogno di poter concludere la carriera nel Milan. Non è successo, non mi hanno fatto più sentire importante per questa squadra». Si potrebbe pensare ma sarebbe stupido e pretestuoso: Pirlo era stato pagato 35 miliardi di lire e di lì a poco sarebbe diventato il centro del gioco di Ancelotti e uno dei migliori registi del mondo, forse uno dei migliori centrocampisti di sempre. Per poi, guarda le coincidenze, lasciarsi male dal Milan, dove era “accettato”, e andare alla Juventus, che lo aveva “desiderato”.

Le somiglianze di colpi, di relazione con il pallone, tra Albertini e Pirlo, sono evidenti. Si parla di tocco di palla, di visione di gioco, di traiettorie, di modi di servire l’ultimo passaggio all’attaccante, di recapitare il pacco proprio ìl e proprio in quel momento, e di inventarsi il modo meno aspettato per farlo. Mentre scrivo non so se chiamare queste cose “genio” oppure “geometrie”, che son o due concetti che, nella narrazione calcistica, stanno piuttosto distanti tra loro. Il genio dovrebbe essere, credo, quello che inventa l’inaspettato, il goal di tacco, il tiro da quaranta metri, il dribbling impossibile e rischioso, mentre il geometra quello che imposta ordinatamente e fa sì che l’invenzione non sia pura estetica ma anche utile, efficienza. Sia per Albertini che per Pirlo si dovrebbe parlare di genio geometrico, o di geometrie geniali.

14 luglio 1994 si gioca la semifinale del Mondiale, Italia – Bulgaria. Di Albertini sono notevoli tre cose in particolare: la prima inizia al minuto 1:50 del video, l’Italia è in vantaggio 1-0 con il bel gol di Baggio. Qui Baggio riceve palla al limite dell’area, la tocca appena per Albertini che arriva a rimorchio, è un tocco come da punizione di seconda, un invito al tiro. Albertini tira e dimostra che “le sue caratteristiche” le sa sfruttare anche in Nazionale, è un tiro molto potente, un suo tiro tipico e che prende in pieno il palo, ma non è finita. L’azione continua, Donadoni recupera un pallone, lo dà a Baggio che la ridà a Donadoni, Albertini non si è mosso dal limite dell’area, Donadoni gliela tocca come prima Baggio, un invito al tiro, e Albertini prende il compasso e il genio, e fa una cosa che a rivederla oggi ho pensato: ma questo è Pirlo. Invece no, era Albertini prima di Pirlo. Stoppa la palla di destro, e di destro la tocca sotto per un pallonetto che il portiere e capitano, Borislav Mikhailov, riesce a deviare in angolo. Non è finita, e Albertini aspetta ancora il pallone lì, come sempre, forse soltanto un po’ più indietro. La stoppa e aspetta che due difensori si stacchino dalla linea e lo attacchino, e lui ancora la tocca per un lob, per Baggio che nel frattempo era partito in profondità, la geometria fa sì che la palli gli rimbalzi davanti ai piedi, Bruno Pizzul urla «Roberto!» e l’Italia va in finale. Un precedente c’era stato appena pochi giorni prima: Italia – Messico, fase a gironi. Questa volta da centrocampo, nel secondo tempo appena iniziato, Albertini scavalca tutta la difesa messicana e progetta la parabola che Massaro stoppa di petto e calcia in porta. Pirlo? Sì, ma ancora: Albertini prima di Pirlo.

Tra un Mondiale e l’altro passano quattro anni, in quattro anni Albertini si fidanza con l’attuale moglie, Uriana Capone, modella di Brindisi, ed è testimonial per i Salesiani in una serie di Vhs distribuiti “per far riflettere sul messaggio cristiano i bambini tra i 10 e i 14 anni”. Poi arriva Francia ’98, lui sceglie un altro numero strano, il 9, dopo aver indossato l’11 negli Stati Uniti. L’Italia è una buona Italia, e viene eliminata dalla Francia nei quarti di finale, ai rigori, con Albertini che sbaglia il primo, e Di Biagio che completerà la sconfitta. L’Italia non gioca bene, almeno non meglio della Francia, è Pagliuca a fare gli interventi più difficili e spettacolari. L’occasione migliore per l’Italia ce l’ha Roberto Baggio, che non partiva titolare, ed è nel secondo tempo supplementare. La palla ce l’ha Albertini, sulla sua trequarti e spostato sulla fascia destra (nel video a 0:55). La difesa francese non si muove male come quella messicana, ma lui riesce comunque a creare un lob che scavalca Desailly e finisce davanti a Baggio, ancora Baggio, che calcia fuori di pochissimo, a incrociare, come nel 1994 o quasi. Se la fruizione degli highlights attraverso i Vine fosse stata diffusa allora come oggi, credo che un bel po’ di repertorio (internazionale) di Demetrio Albertini circolerebbe molto, tra status di meraviglia e tweet di apprezzamento. L’anno dopo vince il suo ultimo Scudetto con il Milan, uno dei giocatori più esperti nel Milan di Zaccheroni, e dopo poco arriva il cambio: Terim, poi Ancelotti, poi Pirlo.

Mi chiedo ancora se la tecnologia e i media influenzino il giudizio storico su un giocatore: Albertini sarebbe considerato uno dei migliori centrocampisti del mondo e degli ultimi trent’anni se quei passaggi da genio e da geometra avessero avuto a disposizione dei canali di condivisione video su Internet? Perché il “chip” di Pirlo contro l’Inghilterra a Euro 2012, ai rigori, o la sua punizione a Brasile 2014 hanno fatto il giro del mondo? Perché sono due meraviglie di balistica e sono state diffuse in massa e in massa commentate. Eppure i passaggi di Albertini a Baggio, a Massaro, ancora a Baggio sono potenziali highlights storici da manuale del calcio e della classe. Forse, in mancanza di media capillari come Internet e come Youtube, ci sarebbe voluto qualcosa in più: la narrazione dalla parte dei vincitori. “L’Italia elimina la Francia, i padroni di casa / Albertini come Zidane”, non sarebbero stati commenti improbabili se Baggio avesse messo in porta quel tiro incrociato. E quante volte sarebbe stata rivista Italia – Bulgaria, la penultima tappa di quella che verrebbe definita “cavalcata”, se sempre Baggio non avesse calciato alto il rigore contro il Brasile. Il suo apporto al calcio e alla sua storia, italiana e mondiale, sarebbe stato più graffiante in termini di epica? Forse la stessa cosa sta accadendo con la candidatura alla presidenza della Figc. Manca tanto così, manca sempre quel tanto così.

 

Nell’immagine, Albertini e Ronaldo in un’amichevole del 1997. Ben Radford / Allsport