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I 59 dischi dell’anno, secondo me

Un illustre collaboratore di Studio elenca i suoi migliori ascolti del 2018.

di Christian Rocca

Paul Janeway dei St. Paul & The Broken Bones durante un'esibizione al Meadows Music and Arts Festival, 17 settembre 2017 (Photo by Noam Galai/Getty Images)

Ci siamo, ecco il listone dei dischi più belli dell’anno. Almeno per me. O, meglio, ecco il listone dei nuovi dischi, chiamiamoli ancora così, che ho ascoltato con più piacere e più a lungo durante questo 2018 sovranista e populista. L’elenco è lungo, in linea con lo spirito del tempo che costringe a non scegliere più e a scaricare qualsiasi cosa da Apple Music o Spotify (io sono un compulsivo ed entusiasta sottoscrittore di Apple Music, al punto che la mattina di ogni maledetto venerdì mi sveglio col pensiero fisso di scaricarmi le novità della settimana, partendo dal genere “Singer-songwriter”, alla ricerca illusoria di un nuovo Sufjan Stevens, e risalendo in ordine contrario a quello alfabetico con Jazz, Indie, Rock, Classic Rock, Country, Americana, Alternative). Non ho ancora deciso se i servizi a pagamento di streaming musicale siano il Paradiso in terra per gli appassionati di musica come me o semplicemente la disgrazia dell’industria discografica e di conseguenza anche per quelli come me, probabilmente entrambe le cose, ma da anziano compratore di lp e poi di cd ancora oggi non mi capacito di questa straordinaria possibilità di avere tutta la musica del mondo a disposizione sempre – com’era quella canzone dei Jesus and Mary Chain? Come faceva quel pezzo di Jaki Byard? – anche se mi rendo conto che si finisce per avere tutto e non ascoltare niente, esattamente come canta Jovanotti in “Ragazza magica” a proposito della proliferazione dei notiziari, «a forza di essere molto informato, so poco di tutto e mi dimentico di guardarti negli occhi». L’eccesso di informazione, senza filtri e senza mediazione, produce i mostri che vediamo ogni giorno nei social media e nei parlamenti, oggi diventati sinonimi, provocando alle fondamenta della nostra società una ferita difficile da rimarginare. Ecco, temo che la troppa e immeritata musica in tasca e a portata di bluetooth abbia lo stesso impatto sulle nostre abitudini musicali e civili. Mi perdonerete, quindi, se vi segnalo delle cose che secondo voi non meritano. La colpa è di Internet.

St. Paul & The Broken Bones – Young Sick Camelia
Non so se è la mia mezza età o la crisi dell’Occidente, ma le cose più belle uscite in questi anni hanno il sapore soul o retro soul. St. Paul & The Broken Bones sono una via di mezzo tra gli Chic e i Radiohead, tra i Bee Gees e i Pink Floyd, Elliot Smith e Kendrick Lamar. Indimenticabili.

Jonathan Wilson – Rare Birds
Jonathan Wilson, cantante, musicista e produttore, da qualche anno entra sempre nelle mie liste, sia con i suoi dischi, questo è il terzo, sia con quelli che cura (l’anno scorso quello di Roger Waters, quest’anno, leggete sotto, quello di Father John Misty). Il suo retro-folk a metà tra i Genesis o i Pink Floyd e il sound californiano dei primi anni Settanta (un critico ha rinominato Rare Birds «Piper at the Gates of Laurel Canyon») è il genere che ascolto di più. C’è molta bellezza, ascoltare con cura.

The 1975 – A Brief Inquiry Into Online Relationship
Contro il logorio dell’uomo moderno, da Manchester arriva la breve inchiesta sulle relazioni online che mescola ogni genere possibile, con echi di Ok Computer, un ventennio dopo. Chiudete Internet.

La cover del disco dei The 1975

Kurt Vile – Bottle It In
Folk rock psichedelico, l’altro grande mini movimento musicale che ha qualcosa da dire oggigiorno, facendo l’occhiolino a noi retromani. Kurt Vile con Jonathan Wilson è uno dei campioni di questo sottogenere, e ogni anno ci regala un disco formidabile, con la sua voce antipatica eppure meravigliosa.

The Good, The Bad & The Queen – Merrie Land
Sono il super gruppo di Damon Albarn, al secondo disco dopo il primo del 2007. Ballate brit pop sulla vita a Londra, prodotte da Tony Visconti e quindi anche molto David Bowie. Quest’anno è uscito anche il disco dei Gorillaz, The Now Now, molto bello  molto anti Brexit. Ma preferisco questo.

Parquet Courts – Wide Awake!
Il punk rock che incontra l’art rock e diventa ballabile, sono riusciti in questa impresa i Parquet Courts. Disco formidabile.

Angélique Kidjo – Remain in Light
Angélique Kidjo ha rifatto Remain in Light, il capolavoro dei Talking Heads di 40 anni fa che mescolava l’art rock con l’afrobeat, e l’ha rifatto in versione… afrobeat. Meraviglia delle meraviglie.

Titus Andronicus – A Productive Cough
I Titus Andronicus sono un’ex promettente band punk del New Jersey che ora ha fatto un disco non punk che la critica ha scartato, proprio perché è stato abbandonato lo spirito delle origini. È un disco di folk-rock alla Felice Brothers e alla Decemberists, bellissimo.

Ray LaMontagne – Part Of The Light
Nel 2016, il disco precedente di Ray LaMontagne, Ouroboros, è stato di gran lunga il più bello degli ultimi anni, un disco di rock psichedelico, ai confini con i Pink Floyd. Questo seguito è più un ritorno al passato di cantautore, un cantautore del New Hampshire, quando di lui si diceva che fosse l’erede di Van Morrison e Jeff Buckley, ma nelle ballate si sentono ancora i Pink Floyd. Ascoltate “Let’s Make It Last”, per esempio. In generale, Part Of The Light è un disco che comunica la voglia di rilassarsi e di concentrarsi sulle cose realmente importanti (ma chissà se in New Hampshire trasmettono la Champions League).

Father John Misty – God’s Favorite Customer
Josh Tillman si fa chiamare Father John Misty ed è uno dei più grandi cantautori contemporanei. Punto. La foto di copertina, poi, è di Pari Dukovic, il fotografo che più di ogni altro, quando dirigevo IL, avrei voluto coinvolgere ma che non sono mai riuscito ad assoldare.

La copertina con Father John Misty fotografato da Pari Dukovic

Anderson Paak – Oxnard
Non credo di aver mai messo in lista un disco di hip-hop, rap, elettronica. In ogni caso è un gran bell’album, non so di che cosa parlino i testi, non ho voluto approfondire, anzi non mi interessano, anche perché il disco mi pare perfetto così.

Mitski – Be The Cowboy
Il quinto disco di Mitski, che di cognome fa Miyawaki, è in apparenza un album di elettro-pop, ma in realtà a 27 anni Mitski è una delle più raffinate cantautrici americane, di origini giapponesi, qui con 14 mini canzoni deliziose.

Rosanne Cash – She Remembers Everything
La figlia di Johnny Cash è un gran cantautrice, mi spiace doverlo scrivere a così tarda età ma questo disco di canzoni semplici e curate è un gioiello.

Amy Helm – This Too Shall Light
Anche Amy Helm è la figlia di un gigante della musica americana, Levon Helm, batterista e mandolinista della Band di Robbie Robertson. Questo è il suo primo disco solista, dopo l’esperienza degli Ollabelle. Prodotto da Joe Henry, in questo album tipicamente genere “americana”, Amy canta una canzone di Robbie Robertson dedicata al padre e la favolosa “Mandolin Wind” del primo e inarrivabile Rod Stewart.

Neneh Cherry – Broken Politics
Altra figlia di, in questo caso “adottiva” del grande trombettista free jazz Don Cherry. Ex cantante pop, Neneh Cherry si è fatta le ossa col Bristol sound una trentina di anni fa e, adesso, al suo quinto disco solista, con copertina meravigliosa nella sua semplicità tipografica, pubblica il suo album migliore.

Anna Calvi – Hunter
Sette anni dopo il suo eccezionale debutto, e cinque dopo il suo dimenticabile seguito, la cantante e chitarrista inglese di origini italiane torna con un disco superbo di rock gotico che esplora i temi dell’identità sessuale e di genere. Gran disco.

Rosalia – El Mal Querer
Rosalia è una cantante catalana di 25 anni al secondo disco, capace di mescolare flamenco e r&b. Avvertenza: il primo brano, “Malamente”, resta in testa per sempre.

Rosalía Vila Tobella è una cantante spagnola nata nel 1993. El Mal Querer è il suo secondo disco dopo Los Ángeles del 2017

The Decemberists – I’ll Be Your Girl
Forse i Decemberists sono una delle ultime band di rock and roll, in ogni caso i dischi dei Decemberists entrano sempre nelle mie liste di fine anno.

Johnny Marr – Call The Comet
Il disco anti Brexit del chitarrista e anima musicale degli Smiths. Volete che non entri in lista?

Punch Brothers – All Ashore
Uno dei mille progetti del formidabile genio Chris Thile, mandolinista e cantante e conduttore radiofonico, campione della scena New Bluegrass (qualsiasi cosa voglia dire), sempre presente nelle mie liste di fine anno (l’anno scorso in duo con il pianista Brad Mehldau).

Bob Moses – Battle Lines
I Bob Moses in realtà sono un duo canadese e per capirci sono i Coldplay canadesi.

Lo Moon – Lo Moon
Ascoltate il primo brano, “This Is It”, di questa band di Los Angeles (uno dei membri è il figlio di Dave Stewart degli Eurythmics): sembra tratto da The Colour Of Spring dei Talk Talk, anno domini 1986, e quindi molti cuori e molti lacrimoni.

Ben Howard – Noonday Dream
Cantautore inglese di 31 anni, introspettivo,  immaginifico e mai banale.

Dusty Wright – Gliding Towards Oblivion
Cowboy psichedelico dell’Upper West Side di Manhattan, ma originario di Akron, Ohio, con cuore a Nashville, Tennesse, Dusty Wright (vero nome Mark Petracca) mescola americana e art rock, ballate country e sottofondo da camera, con chitarra e violoncello. Una raccolta di belle canzoni, “Fade Away” è la mia favorita, con un cameo di Donovan che fa la seconda voce nella cover della sua “Mellow Yellow”.

16 grandi vecchi
Il 2018 è stato l’anno di grandi ritorni, da Paul McCartney con un nuovo album (quanto è bella “I Don’t know?”) a Paul Simon che ha riprogettato alcuni dei suoi pezzi, da Elvis Costello a Rod Stewart (“Didn’t I?” è musicalmente la canzone più Rod Stewart di sempre), da uno splendido David Byrne a un sorprendentemente prolifico David Crosby, da Roger Daltrey degli Who a Paul Weller degli Style Council,  al fenomenale e super contemporaneo Richard Thompson, cinquant’anni dopo il suo primo disco con i Fairport Convention. Tutti dischi fantastici. E, poi, l’Americana dell’inglese Mark Knopfler, la nuova attualità degli Echo and the Bunnymen, più i dischi live di Springsteen a Broadway, di Neil Young tratto dal suo sterminato archivio, fino a More Blood and More Tracks di Bob Dylan, con gli outake di uno dei suoi capolavori, e, infine, i demo di Prince e di Graham Nash (Immigration Man, canzone vintage dell’anno, in America e in Europa).

9 dischi italiani
I tormentoni di Calcutta, e di Thegiornalisti, le canzoni (Anche “Fragile” e poi i duetti con Calcutta e De Gregori) della più sottovalutata delle cantautrici italiane, cioè di Elisa, l’Ivreatronic di Cosmo, i Mogway della provincia di Trapani, ovvero i Lay Llamas, il rock anglosassone degli Any Other, le cantautrici Maria Antonietta e CRLN e una delle più belle canzoni dell’anno, “Anna ha vent’anni”, di Samuele Torrigiani alias Postino.

10 dischi jazz
La splendida collaborazione jazz-country tra Charles Lloyd e Lucinda Williams, un gioiello con Charlie Haden e Brad Mehldau, il trio romantico del pianista Tord Gustavsen, le improvvisazioni soliste di Keith Jarrett alla Fenice di Venezia, il classico sound Ecm di Trygve Seim, la rigogliosa new wave jazz-hip hop con due dischi di Kamasi Washington, altri due di Makaya McCraven, e uno del trombettista Ambrose Akinmusire e infine l’inaspettata e imperdibile rivisitazione contemporanea di Sgt. Pepper dei Beatles, a cura di artisti vari.