Attualità

Diario dal Roland Garros

I cinque articoli dall'Open francese raccolti in un unico testo. Un racconto lungo per raccontare due settimane a Parigi tra tennis, pioggia, e terra rossa.

di Fabio Severo

 

I • Rossa terra di Parigi

Parigi mi accoglie subito con un cielo apocalittico e una temperatura da torneo indoor, come quelli che si giocano in autunno in Europa, a Stoccolma o Basilea. Non c’è l’atmosfera festosa della vigilia dell’Australian Open, con il sole accecante e i manifesti sin dall’autostrada verso Melbourne, il maxischermo in centro e tutti i tram con i faccioni dei giocatori. Qui il glamour del grande evento si perde nella foschia di una città troppo piena di sé, e in un torneo che non presta il proprio volto a nessuna gloria effimera.

Sul bus dall’aeroporto un uomo sulla sessantina, capelli lunghi grigi e disordinati, giacca di pelle nera, tiene in mano un vecchio libro sulla nascita del cinema sonoro. Sembra un bohémien stagionato, assieme alla compagna che ha circa la stessa età. Lei appare più curata, un caschetto grigio incornicia gli occhi azzurri, porta un paio di orecchini eleganti. Me li immagino mentre fumano sigarette a ripetizione seduti dentro un bistrot dove si cicca per terra, mentre discutono animatamente dell’ultimo film visto, con il trasporto con cui si difendono le grandi idee. Quando i parigini ti dicono che sono andati al cinema lo fanno con il tono di chi è andato a fare qualcosa di importante, mica a passare il tempo. Guardo ancora la coppia di anziani gauchistes e mi trovo a pensare ai diversi modi in cui lasciamo mutare la nostra immagine con il passare del tempo, tra l’ostinazione dell’uomo di voler restare uguale al sé di allora e il gentile ingrigirsi naturale della sua signora.

Qualche panchina, i tavolini dei bar dove si compra un’acqua a 5 euro o una baguette a 10, ma neanche un prato o un piazzale dove rilassarsi un attimo. Quest’anno poi si sono aggiunti il gelo e la pioggia.

Anche il Roland Garros lotta tra la fedeltà alla propria tradizione e il bisogno di cambiare, di modernizzarsi: da qualche anno la Federazione Francese di Tennis sta sviluppando un piano di espansione delle infrastrutture del torneo, dotare il campo centrale Philippe Chatrier di un tetto per ovviare ai capricci meteorologici, costruire un nuovo campo n.1 e ampliare gli spazi verdi di decompressione. Ma il problema è che la struttura si trova accanto alle serre d’Auteuil, patrimonio storico-artistico del paese, e non c’è verso di risolvere la questione senza sconfinare un po’ nei sacri giardini adiacenti. Già alcune associazioni locali sono riuscite a mettere i bastoni tra le ruote bloccando tutto, e proprio alla vigilia del torneo la Federazione ha rilanciato il progetto, che prevede un nuovo stadio proprio dentro i giardini, ma la cui struttura esterna sarebbe composta da serre, a ovviare all’invadenza dell’impianto. Una cintura di fiori ad avvolgere un campo da tennis: una quadratura del cerchio probabilmente solo apparente, che il tempo dirà se potrà o meno accadere.

Fatto sta che l’area del Roland Garros rasenta davvero il claustrofobico: già dall’arrivo in metropolitana si fatica a scorgere dove il tutto si trovi realmente, e non rimane che seguire gli adesivi di palline da tennis incollati a terra che conducono lungo le avenue costeggianti il Bois de Boulogne, dentro cui i campi si nascondono. Superate le famigerate serre d’Auteuil cominciano i varchi di ingresso, e una volta dentro ci si trova di fronte a un dedalo di stradine e piazzette attorno cui sorgono le strutture degli stadi principali e poi i campi secondari. Le mura degli impianti in alcuni punti sembrano quasi sfiorarsi, e non c’è alcuno spazio previsto per i visitatori se non quello per andare da un punto all’altro: qualche panchina, i tavolini dei bar dove si compra un’acqua a 5 euro o una baguette a 10, ma neanche un prato o un piazzale dove rilassarsi un attimo. Quest’anno poi si sono aggiunti il gelo e la pioggia dei giorni delle qualificazioni, una cornice ingrata per assistere a (e disputare) degli incontri di tennis.

Qui si deve giocare alle condizioni del luogo, non è uno di quei tornei minori pieni di soldi e dal clima temperato, fatti per mettere a loro agio i giocatori. Gli incontri vanno avanti sotto l’acqua, i raccattapalle senza neanche un cappellino in testa, mentre capannelli di francesi stanno assiepati a bordo campo, emettendo ruggiti di approvazione per i colpi di giocatori sconosciuti. Se togli al tennis una cornice meteorologica favorevole resta qualcosa di profondamente austero, quasi brutale: i gesti perdono grazia, avvolti nel genius loci espresso dal grigio cemento degli stadi principali, impreziosito solo da merlettature sugli orli superiori. Poi grate metalliche, freddo, umidità. Dal vivo non sembra più neanche intrattenimento, è solo gloria da conquistare a caro prezzo. Persino le statistiche in tempo reale che appaiono sui tabelloni dopo ogni punto giocato (retours gagnant: 6, fautes directes: 13, faute de coup droit: 7) suonano minacciose, come un memento di colpe e meriti.

L’erba è la tradizione, la mistica del tocco e della sensibilità, l’archetipo del terreno di gioco. La terra battuta è un campo di battaglia, dove si depositano tutti i segni del combattimento, sul suolo e sui corpi dei giocatori.

Le superfici del tennis esprimono ognuna un diverso senso del gioco: il cemento appare come un luogo neutro, fatto solo per accogliere il gioco, freddo e senza storia, soprattutto nella sua attuale variante blu scelta per il migliore contrasto con il giallo della pallina visto dalla televisione. L’erba è la tradizione, la mistica del tocco e della sensibilità, l’archetipo del terreno di gioco. La terra battuta è un campo di battaglia, dove si depositano tutti i segni del combattimento, sul suolo e sui corpi dei giocatori. Li vedi quando sbagliano, in maglietta e pantaloncini a dieci gradi di temperatura che guardano per una frazione di secondo nel vuoto, provando a ricacciare indietro il disgusto per tornare a pensare al match, un punto alla volta. Come nell’incontro Schmieldova–Kudryatseva, dove la prima chiude al secondo match point sotto rete, e a meno di un metro di distanza dall’avversaria si china su se stessa e caccia un urlo tremendo, i pugnetti chiusi. Si stringono la mano, l’altra fa un sorriso perplesso. Poi qualcuno passa il tappeto sul campo, a cancellare le tracce.

Mi allontano da questa sofferenza collettiva per andare a seguire il sorteggio del tabellone principale dei singolari femminile e maschile. Al piano inferiore del Museo del Roland Garros, passata un’enorme parete espositiva con centinaia di racchette di tutte le epoche, nel buio della sala si sente la voce del direttore del torneo che con un “Chers amis” apre la cerimonia. «Spero di rimettere la coppa in mano a un francese», dice poi senza remore, con il consueto sciovinismo naturale dei transalpini. Siamo nel trentennale della vittoria di Yannick Noah, ultimo francese a alzare la Coppa dei Moschettieri, e giustamente il direttore poggia le speranze di un popolo sulle spalle del nutrito gruppo di tennisti di media-alta classifica, tutti peraltro dotati di bel gioco, che la Francia possiede. Ma non vincerà mai nessuno di loro, lo sa lui, lo sappiamo noi.

L’atmosfera è da casa d’aste. Un cestello con quattro-cinque bottiglie di Moët & Chandon sotto ghiaccio a attendere la conclusione delle procedure, musichetta di pianoforte mentre dei pallini digitali rotolano sullo schermo andandosi a posizionare nelle varie zone del tabellone, gente che si saluta, ciarla e ridacchia a bassa voce. Qualche “bof” e “oh” sui piazzamenti in tabellone dei francesi, l’unica persona che mi rivolge la parola mi ha scambiato per un altro. Poi vengo parzialmente ripagato dell’attesa sorseggiando calici di champagne, mentre fogli alla mano rifletto sulle implicazioni dei sorteggi appena effettuati.

Piove e la terra assorbe, assorbe, diventa un pantano dove sprofondano i colpi e le caviglie dei giocatori. La palla nel gioco sulla terra non è più un proiettile da indirizzare, diventa un oggetto persecutorio di cui non ci si riesce a liberare.

Roger Federer ha un’autostrada verso la finale: Novak Djokovic e Rafael Nadal sono capitati tutti e due dall’altra parte del tabellone. Aggiungiamo che Andy Murray e Juan Martin del Potro non partecipano per infortunio e al Maestro dalla sua parte, prima della finale, restano solo il francese Jo-Wilfried Tsonga e il gregario di lusso David Ferrer. Tsonga è a forte rischio per la suddetta psicosi patriottica, Ferrer è semplicemente 0-14 con lo svizzero nei confronti diretti. Federer lo trovo che si allena sul Philippe Chatrier col francese Benoit Paire, sotto la pioggia. Dopo un vincente del francese lo sento che urla «Ah, le soleil, le soleil!!», mentre il suo staff sta a bordo campo imbacuccato e lui porta una t-shirt bianca con righe blu orizzontali e taschino, molto rive gauche, mentre parla in francese col compagno di allenamento, svizzero-tedesco con l’allenatore in seconda e inglese col coach vero e proprio. Piove e la terra assorbe, assorbe, e prima che il gioco venga sospeso è già diventata un pantano dove sprofondano i colpi e le caviglie dei giocatori. La palla nel gioco sulla terra non è più un proiettile da indirizzare, diventa un oggetto persecutorio di cui non ci si riesce a liberare, che costringe all’ennesimo allungo, scivolata, colpo.

Vado a seguire qualche conferenza stampa, ma sembrano solo un tappeto sonoro indistinto, non riesco a cogliere una cosa detta che non sia di circostanza. Mi sembra un esercizio simile a osservare per ore un monitor di sorveglianza, cercando di mantenere l’attenzione desta nel caso accada qualcosa in un angolo dell’immagine che scorre sempre uguale. Subito fuori dalla sala conferenze, mentre sto seduto a cincischiare col telefonino mi passano davanti tutti i top player. Faccio fatica a capire il senso profondo dell’ecosistema composto da media, giocatori e p.r. : tutti si danno un tono e conversano amabilmente, tutti sembrano aver fatto buoni studi e puntellano le loro conversazioni enunciando i nomi dei giocatori quasi con uno schiocco di lingua. Come se una piccola magia si producesse ogni volta che uno di quei nomi viene pronunciato, nobilitando qualsiasi cosa dicano.

Poi il giorno dopo c’è il Kids Day, la tradizionale giornata di partitelle e svago alla vigilia degli Slam. Dopo una serie di incontri di un set tra vari giocatori arriva il momento di Bob Sinclair, che fa un dj set nel centrale, con la console posizionata sugli spalti dietro al campo. La situazione è surreale, il campo è vuoto e lo stadio pieno, con l’80% delle persone che neanche balla mentre Sinclair spara a tutto volume la commerciale più cafona che ci sia. Quasi tutti stanno lì solo a passare il tempo, visto il biglietto pagato e la gita fino a Bois de Boulogne, guardando sui maxi schermi i giocatori che a turno fanno finta di divertirsi accanto al dj. Al bar dei giornalisti mi lasciano un Cd omaggio di Sinclair, Paris by Night. La seconda traccia del disco si chiamaGroupie, la sesta Far l’Amore, la tredicesima Samba in Hell.

La domenica comincia il torneo del tabellone principale, dove Federer passeggia sul suo primo turno, anche se nessuno continua a darlo per favorito nella vittoria finale. Anche il suo look in campo è all’insegna dell’understatement, niente colletti principeschi o rifiniture chic, giusto una maglietta azzurrina, per passare inosservato. Il campo Suzanne Lenglen invece ha visto aspre battaglie già in questa prima giornata, con Gilles Simon che ha battuto in cinque set il veterano Lleyton Hewitt dopo aver perso i primi due, e Venus Williams che ha ceduto dopo più di tre ore alla sua forma precaria e alla tigna della polacca Ursula Radwanska. L’architettura brutalista del Lenglen è il teatro perfetto per le battaglie all’ultimo sangue: il freddo del cemento nudo della struttura, il contrasto tra il profilo curvo delle tribune laterali e la secca linea retta di quelle dietro le linee di fondo, gli spalti a picco sul campo.

Ce ne saranno molte altre di battaglie, mancano ancora quattordici giorni alla fine.

 

 

II • Tennis bagnato

Per disputare un incontro di tennis è necessario che sul campo siano presenti in ogni fase del gioco sedici persone, esclusi i giocatori. Il gruppo è formato da un giudice di sedia, sei giudici di linea distribuiti in due gruppi da tre posizionati dietro le linee di fondocampo, due giudici seduti a lato della linea di confine del rettangolo di servizio e un giudice del fallo di piede, che si siede a lato del fondocampo a verificare che il giocatore alla battuta non tocchi la linea di fondo al momento di colpire la palla. Infine ci sono sei raccattapalle, di cui quattro stanno agli angoli del campo e due presidiano la rete. Durante l’incontro questi gruppi vengono sostituiti più volte, in un cambio della guardia minuziosamente coreografato. Accade nelle pause di gioco, nei sessanta secondi in cui i giocatori siedono dopo i game dispari. I nuovi gruppi di giudici e raccattapalle entrano in campo in fila indiana percorrendo il perimetro del campo, e ogni volta che un membro della fila raggiunge la posizione assegnata si stacca dalla processione e si posiziona a fianco del collega che sta per sostituire. Poi è la volta dei rimpiazzati, che uno alla volta lasciano i loro posti andando di nuovo a formare una fila che poi marcia unita fuori dal campo. I giudici di linea entrano e lasciano il campo camminando, i raccattapalle invece lo fanno correndo.

I raccattapalle corrono sempre, anche per coprire solo un metro di distanza. Come scoiattoli frenetici, sono sempre pronti a lanciarsi in una qualsiasi azione richiesta. Devono domare nel minor tempo possibile le capricciose traiettorie delle palline, combattere la noia e la ripetitività che portano a giocare con quelle tre-quattro che tengono nelle mani nascoste dietro la schiena, col rischio di farne cadere una e interrompere il gioco. Ma soprattutto devono continuamente leggere la psiche del giocatore che hanno di fronte, capire cosa vuole, come, quando, rimanendo lucidi nonostante siano costretti a maneggiare un asciugamano fradicio di sudore che gli viene chiesto in continuazione, con delle brusche maniere ormai diventate codici, tra cui spiccano il gesto della mano agitata davanti alla faccia e l’ancora più sgradevole dito puntato.

Dopo il match point il belga lancia una palla fuori dallo stadio mentre va a rete, l’applauso finale è molto intenso, come alla fine di una buona rappresentazione.

Qui a Parigi ho assistito al rito del cambio della guardia per la prima volta durante il match di primo turno tra Milos Raonic e Xavier Malisse nel bel campo numero 1, con gli spalti disegnati come un cerchio che corre attorno al campo. Scontro improbo, con il candese Raonic favoritissimo contro l’ormai trentaduenne con accenno di pancetta, che però data la nazionalità belga, il suo partire sfavorito e il gran talento storicamente mal gestito è stato ampiamente sostenuto dal pubblico. Dopo non aver visto palla nei primi due set, Malisse vince il terzo accompagnato da un’ovazione, ma ebbro del set strappato poi manca alcune occasioni per consolidare all’inizio del quarto, che scivola via in un attimo. Voleva solo la gioia di un momento Malisse, lo si intuisce anche dai sorrisi che fa sugli applausi del pubblico, poi tira i remi in barca. Dopo il match point il belga lancia una palla fuori dallo stadio mentre va a rete, l’applauso finale è molto intenso, come alla fine di una buona rappresentazione.

Proprio tra il terzo e il quarto set, mentre Malisse scaldava il pubblico riunito sotto un cielo plumbeo con la falsa promessa di una rimonta eroica, è cominciata la danza del cambio dei raccattapalle, con una colonna di ragazzini che è entrata in campo correndo lungo i bordi, e ognuno di loro si è messo davanti al compagno che doveva sostituire. Sono rimasti così per qualche secondo, raddoppiando le posizioni in attesa che il gruppo uscente avesse l’ok per lasciare il campo. A un angolo vedo un ometto castano e pallido come sono centinaia di raccattapalle, e dietro a pochi centimetri da lui c’è una ragazzina con una folta chioma riccia e corvina. In quell’attimo di pausa vedo lei chinarsi leggermente in avanti a dire qualcosa all’orecchio del compagno, e lui che le risponde girando lievemente la testa, poi lei che sussurra qualcos’altro. Poi come dopo un colpo di pistola le coppie di raccattapalle si separano in un istante, con il vecchio gruppo che svanisce velocemente. Preso da un’allucinazione indotta dal freddo e dalla speranza che Malisse rovesci l’inerzia di una partita impossibile immagino la storia dei due ragazzini, le giornate caotiche in cui magari si sono conosciuti per poi perdersi in continuazione nel trambusto degli eventi, per poi ritrovarsi nei momenti più improbabili, a scambiarsi due parole rubate tra un asciugamano e un servizio da schivare.

Sono zuppi anche i piedi delle decine di ragazze che gestiscono gli ingressi dei campi, che per perpetuare quell’immagine di femminilità francese un po’ retrò sono costrette a indossare delle ballerine sotto le loro uniformi café crème, con la gonna plissettata al ginocchio.

Poi continua a piovere, in alcuni giorni anche prima dell’inizio degli incontri. La folla non sa che fare, incastrata tra migliaia di ombrelli, gruppetti che restano sotto l’acqua a aspettare l’arrivo delle macchine dei giocatori, altri seduti sugli spalti a ammirare i campi coperti dai teloni, mentre il resto si parcheggia nel sottopassaggio di ingresso dello Chatrier. Al bar della stampa c’è la ressa per la cerimonia del premio al miglior articolo francofono sul torneo dell’anno scorso, con i senatori della vecchia guardia francese Henri Leconte e Guy Forget a sorridere e a farsi voler bene. Mi tocca bere un’altra volta champagne prima di mezzogiorno, accompagnato da deliziosi spiedini con fetta d’arancio, ciliegina di fior di latte e un salume chic non identificato. Qui si beve a tutte le ore, sembra che nessuno stia lavorando.

Le nuvole sono così a macchia di leopardo che mentre sospendono una partita ancora si sente il tifo che viene dagli altri campi. Nel sottopassaggio intasato oltre i livelli di sicurezza vedo uomini vestiti con completi di lusso gocciolanti, l’aria divertita per la situazione insolita. Sono zuppi anche i piedi delle decine di ragazze che gestiscono gli ingressi dei campi, che per perpetuare quell’immagine di femminilità francese un po’ retrò che tutti amiamo sono costrette a indossare delle ballerine sotto le loro uniformi café crème, con la gonna plissettata al ginocchio.

Ricomincia il gioco, e mi accomodo sullo Chatrier per seguire il primo turno di Nadal contro il tedesco Daniel Brands. Appena entro lo spagnolo sbaglia un dritto facile e fa doppio fallo, concedendo il break del 4-5 per Brands, che poi va a servire e vince il primo set. Il tedesco colpisce molto forte, cerca le righe e io già pregusto finalmente una vittoria di Davide contro Golia. A seguire la partita davanti a me ci sono Gianni Clerici e Rino Tommasi, a qualche seggiolino di distanza l’uno dall’altro. Tommasi accanto a sé ha una gentile signora con l’aria di chi è in visita, forse sua moglie. Si volta verso l’amico Gianni e fa un sorriso dopo un dritto frustata del tedesco, mentre io mi scopro a spiare gli appunti di Clerici: a sinistra vedo segnati vari punteggi, a destra note che non riesco a decifrare. Protegge i suoi fogli dal reclinarsi di una donna dalla lunga chioma nera seduta subito davanti a lui, poi chiede di fare silenzio nel corridoio alle spalle della tribuna: persino le piccole scene della sua vita quotidiana sembrano prese da qualche suo scritto. Nei suoi appunti vedo molte cifre e simboli separati da delle barre, riesco solo a leggere “NON È LENTO”, scritto così, in stampatello. Poi leggo “palla br.”, poi altri segni misteriosi, poi una nota che dice “soggetto/verbo/complemento”. Non ne sono sicuro, ma mi pare che quando deve segnare degli ace scriva “asso”. Naturalmente poi alla fine Nadal vince, e Clerici prende la parola in conferenza stampa solo per chiedergli se non sia stata una delle bombe del suo avversario a rompere il polso dell’amico Benito, un collega che sta seduto accanto a lui con la mano fasciata. La battuta non viene apprezzata come avrebbe meritato, né da Nadal né dalla platea dei giornalisti.

Negli appunti di Clerici vedo molte cifre e simboli separati da delle barre, riesco solo a leggere “NON È LENTO”, scritto così, in stampatello. Poi leggo “palla br.”, poi altri segni misteriosi, poi una nota che dice “soggetto/verbo/complemento”.

Nel lento svolgersi di questi primi due turni mi trovo anche a seguire l’incontro tra la francese Marion Bartoli e la russa Olga Govortsova. Bartoli è la giocatrice più scioccante del circuito, un groviglio di tic e riflessi pavloviani: saltella e fa scatti in avanti ogni volta che attende la palla per servire, e ha un movimento della battuta estremamente convoluto, fatto almeno di tre fasi che sembrano non avere alcuna relazione motoria tra loro. Oltre a fare il consueto rantolo d’ordinanza poi colpisce con due mani da entrambi i lati, torcendosi come se le avesse incollate al manico. Risponde più di un metro dentro il campo, si batte la mano sulla coscia nei momenti più strani, tra un punto e l’altro prova i colpi a vuoto con le spalle al campo, presa in una sorta di autismo tra l’angosciato e il rabbioso; esulta su errori grossolani dell’avversaria, fatti su punteggi ininfluenti. Il successo sportivo e la competizione sembrano per lei solo un modo di restare a galla, placare l’angoscia, nessuna idea di cimento sano della propria identità pare alleviare il fardello del dover giocare, che sopporta solo guardando di continuo in direzione del padre allenatore seduto tra gli spalti. Vince in tre ore e venti di sofferenze, alzando il pugno al cielo come una Marianne allucinata.

Sul finire di una di queste prime giornate piene di interruzioni e turni rimandati vado a dare un’occhiata all’ultimo match prima del tramonto, quello tra Flavia Pennetta e la belga Kirsten Flipkens. Mi fanno entrare di straforo a “jeter un coup d’œil”, e mi siedo sulla panchina degli addetti al campo. Un tizio accanto a me fuma il sigaro, nel frattempo chiacchiero della partita con il suo collega. Gli dico che Flavia si è da poco ripresa da un infortunio al polso e che sta ancora faticando a vincere gli incontri; lei è così vicina che potremmo guardarci, potrei parlarle sottovoce. La osservo mentre si difende dalla brutta situazione in cui si trova (0-5 al terzo) ripetendo i suoi gesti rituali, sempre esatti: la routine del servizio con la palla ben poggiata sul dorso della racchetta, la sistemazione delle corde, il modo composto in cui annuisce in direzione dei raccattapalle. L’altra è ormai sicura, lei sul finire anche un po’ sfortunata, con gli addetti che già si allontanano durante gli ultimi scambi per avviare le procedure di chiusura del campo. Finisce 2-6/6-4/6-0. La francofonia dell’avversaria ha fatto la differenza nelle scelte del pubblico, e in un campo così piccolo si sente anche di più. Vedo l’addetto con cui chiacchieravo che spazzola già il campo, ci salutiamo.
Dicono che anche domani pioverà tutta la giornata.

 

 

III • Panem et circenses

Comincia così ogni giornata, con la discesa nella metro e un viaggio di più di venti fermate e tre cambi, durante il quale hai l’impressione di incontrare e separarti con mezza città nell’arco di mezz’ora. Dentro quelle catacombe piastrellate di bianco i parigini ci sciamano con l’aria infastidita, come se quel dedalo di efficienza fosse il minimo dovuto, e invece di camminare con gli occhi spalancati a ringraziare per quel teletrasporto che li scarrozza ovunque li vedi che fanno le facce perplesse, e un po’ mi contagiano, finendo anche io a sospirare di disappunto quando il tabellone mi informa che il prossimo treno arriverà tra almeno tre minuti. Dentro, nel viaggio verso lo Stade Roland Garros la compagine di avventori del tennis non si distingue particolarmente dal resto della popolazione in movimento, se non per qualche zaino sportivo di troppo o per dei fogli stampati o dei Plan de Paris stretti nelle mani ancora dentro il vagone. Poi una volta scesi si cammina lenti tutti assieme verso l’uscita, c’è chi cerca di districarsi brandendo un accredito in mezzo al gruppone che intasa il binario, ma è inutile. I bagarini contrattano prezzi con spettatori dell’ultim’ora, scrivendo su pezzi di cartone preventivi a quattro cifre, mentre una sequela di strilloni chiama a raccolta per acquistare il programma del giorno o partecipare a una lotteria, come se vendessero l’edizione straordinaria che annuncia la fine della guerra.

Al bagno incontro il capo del reparto interviste, l’uomo più indaffarato di Parigi, sempre alla radio a dare orari e luoghi e a prospettare scenari sulla base di chi vince il dato incontro e a che ora. Anche di fronte all’orinatoio non molla le comunicazioni.

Adesso che ho dimostrato di non essere venuto soltanto a rubare una settimana di partite mi prorogano l’accredito fino alla fine del torneo. Mi danno anche un desk, dove sono circondato da giornalisti che parlano russo, polacco o croato con voci cavernose, gesticolano e litigano. Scopro che anche in russo si dice ‘mamma mia’, detto dal collega davanti a me per salutare il passaggio ai quarti di Svetlana Kusnetsova, che qui ha vinto nel 2009. Trovo qualcosa da mettere nel mio cassetto giusto per omaggiare la chiave che mi è stata data, e ora che ho una postazione posso smettere di andare in giro con giaccone e zaino come un visitatore, sempre con l’aria di uno che è appena arrivato giusto per dare un’occhiata. Mentre mi do un tono selezionando i canali della diretta del mio monitor mi offrono Perrier in lattina, io declino. Al bagno incrocio John McEnroe, e stiamo lì per qualche secondo dandoci le spalle, lui che si sistema la cravatta allo specchio e io che mi servo di uno degli orinatoi senza acqua che presumo siano marchio di fabbrica degli Slam, visto che già li osservavo ammirato in Australia per il loro potere magico di far sparire ogni traccia senza spreco di risorse idriche (“Urinoir sans eau”, dice appunto l’adesivo che ci si trova davanti, a ricordare il prezioso contributo alla sostenibilità). Sempre al bagno incontro il capo del reparto interviste, che immagino sia l’uomo più indaffarato di Parigi, sempre alla radio a dare orari e luoghi e a prospettare scenari sulla base di chi vince il dato incontro e a che ora. Anche di fronte all’orinatoio non può mollare le comunicazioni, e continua a parlare mentre io lascio il bagno vincendo la tentazione di spiare come gestisce il walkie talkie nel momento del bisogno.

Le tribune d’onore continuano a riempirsi di uomini con paglietta bianca che assistono con sufficienza al panem et circenses della folla, scortati ai loro posti da signorine vestite come le Demoiselles de Rochefort.

Fuori la folla che mi ha accompagnato nel viaggio si distribuisce tra i campi, e io sono giorni che la osservo cercando di cogliere i famosi tratti caratteristici del pubblico francese: estremamente partigiano, rumoroso, incline a dinamiche di amore e odio verso alcuni giocatori. Agassi in Open parla di puzza di pipa e sigaro, e anche se ormai credo non fumi più nessuno, le tribune d’onore continuano a riempirsi di uomini con paglietta bianca che assistono con sufficienza al panem et circenses della folla, scortati ai loro posti da signorine vestite come le Demoiselles de Rochefort. Poi ci sono il tifo e i cori, che seguono le dinamiche del tutto particolari del luogo, e se Parigi ha la fama di essere un posto dove è facile rimanere soli perché ognun pensa a sé, anche le incitazioni prendono la forma di questo solipsismo, poiché il pubblico francese costruisce la propria partecipazione sulla base di contributi rigorosamente individuali: c’è il classico “Allez” seguito dal nome del giocatore, poi una sorta di “Eeehhh” molto prolungato che termina su una nota acuta, infine c’è lo scambio tra il singolo e la folla, con uno spettatore che fa un lungo “Popopooh” a cui la massa risponde con un”Ooolé!”. Questi tre momenti sono il sottofondo di tutti gli incontri che si giocano qui, e solo durante match particolarmente intensi a questi suoni si vanno a sovrapporre vere e proprie ovazioni, canti della marsigliese e così via.

Quando sei in campo e il pubblico ti gira contro ti tocca sopportare un continuo starnazzare di voci e vocette che se non sei in grado di chiudere fuori dal cervello possono finire per corrodere la determinazione e far saltare i nervi. Parlano a voce alta tra la prima e la seconda di servizio, rallentano la ripresa del gioco fischiando quando una cosa non gli va bene, ridacchiano quando i giudici di linea urlano per segnalare gli out. Non è il pubblico tipico che partecipa eccitato al grande evento sportivo, si presenta più come una massa di spettatori che pretende, che vuole essere parte attiva dell’avvenimento, che non ringrazia per il fatto di poter assistere. Forse abituati a un’offerta culturale così ricca e articolata che i manifesti pubblicitari della stagione di danza contemporanea sono grandi quanto quelli dei saldi dei costumi da bagno alle Galeries Lafayette, i francesi sono diventati una massa di fruitori estremamente consapevoli, al limite dell’eccessivo.

Nel 2008 l’allora numero 1 Maria Sharapova ha urlato alla folla, resa ostile da alcune sue dispute arbitrali, “Allez up your fucking ass!”

Diversi sono gli episodi di giocatori portati sull’orlo di una crisi nervosa dal pubblico del Roland Garros: nel 2008 l’allora numero 1 Maria Sharapova ha urlato alla folla, resa ostile da alcune sue dispute arbitrali, “Allez up your fucking ass!”, a riprova di quanto quel mantra saputello ripetuto all’infinito possa nuocere alle menti spigolose dei tennisti. Nel 1999 Martina Hingis, all’epoca anche lei numero 1 e ancora adolescente gioca in finale contro Steffi Graf, ormai a fine carriera. In una partita altalenante finita al terzo set la Hingis sotto match point serve dal basso, ingannando la Graf e vincendo il punto. Da quel momento il pubblico si inferocisce fino a che la Hingis non perde l’incontro, finendo in lacrime e singhiozzi, tornata improvvisamente ragazzina di fronte alla pressione della folla. Dieci anni prima Michael Chang, anche lui diciassettenne, aveva fatto la stessa cosa a Ivan Lendl, eliminandolo tra le ovazioni. Non tutti i servizi dal basso sono uguali nella Ville Lumière. Per ciò la folla qui può essere un’alleata come una condanna per i giocatori francesi, molti dei quali vanno in giro con l’aria da nobilotti accigliati, tutti presi dal cruccio di dover difendere il proprio onore.

Federer ovviamente è uno dei pochi giocatori che riesce a cancellare le bandiere sventolate sugli spalti. Un po’ perché essere svizzero equivale quasi a essere apolide, un po’ perché lui quella nobiltà spadaccina dei tennisti francesi l’ha elevata a brand universale, ben tutelata dall’industria in quanto appeal necessario alla disciplina, al punto che origliando al ristorante ho sentito una giornalista giapponese dire che al suo giornale non è proprio concesso parlare male dello svizzero, pena richiami o addirittura provvedimenti. Ma nel suo ottavo di finale contro Gilles Simon anche lui ha dovuto patire qualche “Allez Gillou” di troppo, e dopo un primo set vinto in un soffio a metà del secondo è inciampato finendo mani e ginocchia a terra, la presa sulla racchetta diligentemente lasciata al momento della caduta. Scosso da quella perdita di compostezza ha poi perso secondo e terzo set, per poi andare un attimo in bagno, tornare e vincere quarto e quinto in poco più di un’ora. Ognuno ha i propri turbamenti, al Maestro è bastato abbandonare l’allez con cui per gentilezza verso i presenti lui stesso si è incitato negli incontri passati, e rispolverando il consueto come on navigare un po’ la tempesta e arrivare ai quarti, vincendo la novecentesima partita in carriera.

A Federer è bastato abbandonare l’allez con cui per gentilezza verso i presenti si è incitato negli incontri passati, e rispolverare il consueto come on per arrivare ai quarti, vincendo la novecentesima partita in carriera.

Altri incontri hanno visto lotte fin sul traguardo, con il tedesco Tommy Haas che ha battuto l’americano John Isner (quello del 70-68 al quinto a Wimbledon) 10-8 al set decisivo, dopo aver mancato dodici match point nel quarto. Con la sua andatura dinoccolata, la bocca semiaperta e lo sguardo vacuo Isner è l’idealtipo dello sportivo americano, condannato alla competizione come se non avesse scelta. Alto più di due metri, ha un servizio così potente che lo costringe a sopravvivere nelle partite anche quando tutto il resto del suo gioco non funziona più, ammassando punti che trascinano la competizione suo malgrado. Esausto, non si siede neanche più al cambio campo, cammina con le gambe storte come un airone ferito, mentre l’altro a 35 anni continua a lavorare la palla come pochi ormai fanno. Dopo una catena di infortuni, operazioni e classifiche sotto al numero cento, Haas per la prima volta ha raggiunto i quarti di finale a Parigi, dove giocherà contro Novak Djokovic.

Anche lo spagnolo Tommy Robredo viene da un lungo infortunio, l’anno scorso era finito sotto il numero 400, e qui stabilisce un primato di sopravvivenza, avendo vinto tre partite di seguito dopo aver ceduto i primi due set. Nella seconda gioca contro Gael Monfils, amato parigino che nel quarto set ha avuto quattro match point. Durante quei minuti di gioco, con la folla in delirio, Robredo si muove cauto tra un punto e l’altro, esulta poco, la testa bassa, i deboli applausi per i suoi vincenti che scorrono come rivoletti d’acqua soffocati, con cui piano piano si riesce comunque a dissetare, vincendo la partita. Nell’incontro successivo il pubblico è ormai tutto dalla sua parte: lui che non riesce ad andarsene dal campo a fine match, continua a aprire le braccia, si guarda intorno, la folla che lo tiene lì con applausi che ricominciano a ondate. Poi alla fine prende le borse e se ne va lasciando nello stadio qualche lacrima, e un paio di banane poggiate sulla sua sedia.

 

 

IV • Il crepuscolo

Adesso che si avvicina la fine del torneo e la realpolitik della competizione decide l’esito di quasi tutti i turni finali, un’ombra di malinconia mi coglie per le sconfitte degli artisti e degli eroi minori, piegati dalla costanza e dall’infallibilità di esecuzione dei candidati alla vittoria finale. I quarti maschili ad esempio hanno visto quattro sfide tra un rovescio a una mano e uno a due mani, terminate con il risultato di dodici set a zero per i bimani (come li definisce colui che qui dall’altoparlante chiamano “Giovanni Clerici”). Spossato dai confronti impari in corso mi rifugio al bar della stampa, e con una bière blanche in mano osservo su due schermi Tv i match in questione, Djokovic – Haas e Nadal – Wawrinka, dove il serbo e lo spagnolo giustiziano i due rispettivi contendenti e le loro geometrie ambiziose, punendoli per i loro scarsi margini di errore e la fretta di uscire dal logorante scambio a cui li invitano su ogni punto.

Tsonga è un’affascinante fusione di estro e potenza, ma tende a avere lo spirito della cicala che canta d’estate, mentre sulla strada rimasta fino alla finale ci sono solo formiche diligenti.

In verità un fantasista è rimasto ancora in gioco, il francese Tsonga, che ha battuto Federer con grande facilità. Il presagio dell’esito di quella partita l’ho avuto dopo pochi game, quando un bambino ha cominciato a piangere all’improvviso; mentre la mamma cercava di portare via dagli spalti i suoi singhiozzi disperati, proprio al picco del crescendo di quel lamento Federer ha messo un dritto facile in rete. Neanche mezz’ora dopo Tsonga provava con successo palle corte direttamente in risposta al servizio dello svizzero. Il resto si è svolto piuttosto velocemente. Tsonga è un’affascinante fusione di estro e potenza, ma tende a avere lo spirito della cicala che canta d’estate, mentre sulla strada rimasta fino alla finale ci sono solo formiche diligenti, sempre piene di provviste per gli inverni dei loro match. Ovviamente, al di là che Tsonga sia francese e qua ci sperano, è il giocatore più divertente tra quelli rimasti, e la sua vittoria finale sarebbe un po’ un riscatto della bellezza sul pragmatismo.

Messo di fronte al mio poco professionale disappunto, simile a quello che si prova per le storie che non finiscono mai bene, decido di occuparmi di facezie preparando una lista di desiderata per l’ufficio stampa, e usando la formula magica “dietro le quinte” provo a farmi schiudere le porte segrete del Roland Garros. La risposta molto veloce e efficiente mi mette però di fronte a una serie di barriere invalicabili, dimezzando l’itinerario della mia esplorazione: “Spogliatoi: impossibile, area relax giocatori: impossibile, palestra:impossibile, centro statistiche del torneo: impossibile”. Mi accontento di quel che resta, cominciando dal player’s lounge: dietro all’ingannevole nome seducente si nasconde il ristorante dei giocatori e dei loro entourage, dove i giornalisti possono entrare, alcuni in ogni momento, quasi tutti solo dietro consegna dell’accredito e ricevendo in cambio una fascia da mettere al braccio. Entro e mi dirigo al bancone del bar, accanto a me arriva Adriano Panatta che chiede un caffè, specifica “petit”, come sempre facciamo noi italiani con la fobia dei bibitoni che qui ti rifilano sotto falsi nomi. Il dress code del lounge presenta una netta prevalenza del bianco e di maglioncini poggiati sulle spalle, vedo famiglie con bambini bellissimi e pensosi, poi diversi conciliaboli che sanno di pianificazione del futuro di possibili promesse, si parla molto spagnolo e italiano. La fauna afferente al mondo tennistico presenta sempre coloriti da villeggiatura, occhi chiari e riposati, è uno dei pochi ambienti dove la classica polo a nido d’ape la fa ancora da padrone. Bianchi i vestiti, bianco l’arredamento, bianco il colore della pelle di quasi tutti i presenti (sotto l’abbronzatura), bianchi i pantaloni, chi non conversa amabilmente maneggia palmari di varie taglie e fogge. Va molto di moda la barba di due-tre giorni, che ben si accompagna al passare molto tempo all’aperto. Ora che quasi tutti i professionisti se ne sono andati a casa gironzolano per le sale tennisti sconosciuti, quasi tutti junior, che con le loro borsone e completi sgargianti sembrano tigrotti da safari, catturati dai vari individui con fare da tycoondello sport con cui intrattengono conversazioni piene di sorrisi e affabilità.

Sono state accordate 3613 racchette dall’inizio del torneo, con un totale che si prospetta supererà le 3700; i giocatori pagano per il servizio di stringing ma si portano i loro set di corde. Gli incordatori sono sempre lo stesso team che viaggia per tutti e quattro i tornei del Grande Slam.

Poi è la volta del laboratorio degli incordatori, dove scopro una serie di cose inutili facendo domande a una ragazza dai grandi occhi azzurri: al momento della nostra conversazione sono state accordate 3613 racchette dall’inizio del torneo, con un totale che si prospetta supererà le 3700; i giocatori pagano per il servizio di stringing ma si portano i loro set di corde. Gli incordatori sono sempre lo stesso team che viaggia per tutti e quattro i tornei del Grande Slam, i momenti più difficili sono durante la prima settimana, quando a mezz’ora dall’inizio delle partite quindici giocatori ti chiedono di incordare all’istante le loro racchette. Sorrido e le chiedo qual è la cosa più buffa o assurda che sia capitata in queste due settimane, lei sbatte le lunghe sopracciglia e mi risponde in modo assolutamente inespressivo: “Mi hanno già fatto questa domanda, non so proprio cosa rispondere”. Me ne vado provando un lieve senso di disagio.

Vado a bussare al compound degli arbitri, dove spero di scoprire i segreti occulti di una professione che mi ha sempre affascinato. Più che altro perché quando gioco non ricordo mai dove sia il segno della palla appena caduta, e stare su un seggiolone alto più di tre metri, scendere di corsa e andare in un punto preciso a otto-nove metri da te per individuare un segno minuscolo prodotto da una palla che viaggiava a 200 km/h, il tutto magari per placare un giovane uomo con gli occhi spiritati che andrà sotto match point a causa della tua decisione, insomma mi sembra una faccenda complessa, a livello balistico e psicologico. Scopro che lo staff arbitrale del torneo è composto da 310 persone, di cui 270 giudici di linea e 40 giudici di sedia, da una selezione di più di 700 che hanno fatto domanda. Ho sempre immaginato che la formazione per osservare la palla e per saper trattare con giocatori incazzati neri passasse per training simil-scientifici, con allenamenti su dei simulatori indossando occhiali speciali, e corsi di piscologia comportamentale sui gesti da fare e da non fare, sui toni di voce da adottare per inviare messaggi subliminali al cervello dolente dei tennisti sotto pressione. Ma sembra tutto più semplice: molti match, molta pratica, qualche indicazione sul dover spostare in anticipo lo sguardo dalla traiettoria della palla alla zona in cui andrà a cadere, per poter osservare il momento dell’impatto, e soprattutto un’accurata lista di quali giudici di sedia non accoppiare mai con certi tennisti.

Maria ha battuto in semifinale Victoria Azarenka, nel duello dei rantoli e dell’agonismo più incarognito, tra strilli, cappuccio e cuffie alle orecchie all’ingresso in campo, pugni stretti che immagini le unghie affondare nel palmo, in un altalenante 6-1, 2-6, 6-4. Serena ha invece demolito Sara Errani 6-0, 6-1 in 46 minuti.

Dulcis in fundo vado dal parrucchiere dei giocatori (a disposizione anche dei coach e, solo per alcuni, anche di amici e parenti), dove faccio una serie di domande ridicole da cui apprendo che vengono effettuati circa 500 tagli a torneo, il servizio è omaggio, sia Flavia Pennetta che la moglie di Federer sono passate lì in questi giorni, molti vengono giusto a farsi fare uno shampoo o un massaggio rilassante e poi che no, quando viene uno famoso per la gentile parrucchiera con cui parlo non c’è nessuna differenza, perché bisogna essere professionali nello stesso modo, in ogni momento.

Quel che resta del Roland Garros prevede tra le altre cose la finale femminile, che si giocherà sabato tra Maria Sharapova e Serena Williams. Maria ha battuto in semifinale Victoria Azarenka, nel duello dei rantoli e dell’agonismo più incarognito, tra strilli, cappuccio e cuffie alle orecchie all’ingresso in campo, pugni stretti che immagini le unghie affondare nel palmo, in un altalenante 6-1, 2-6, 6-4. Serena ha invece demolito Sara Errani 6-0, 6-1 in 46 minuti. Confronto impossibile quello tra le due: 11 cm di differenza in altezza, il servizio più veloce di Serena nel match 199 km/h, quello di Sara 152, 40 vincenti a 2, 5 ace a 0, 52 punti contro 16. Anche la finale appare abbastanza prevedibile, Maria non vince contro la Williams dal 2004. Poi ci sono le semifinali maschili: Nadal – Djokovic, ovvero la teoria della forza inarrestabile contro l’oggetto inamovibile, che qui potrebbe tradursi in una maratona ai limiti della fisiologia umana; poi Ferrer-Tsonga, dove il francese dovrà far valere le sue doti circensi contro la sindrome da cane da riporto dello spagnolo, altrimenti ci sarà una finale inutile, e noiosa.

Seduto al binario della metro, il volto di Carla Bruni mi fissa dal manifesto gigante della pubblicità di un nuovo modello di cuffie senza fili: lo sguardo che vorrebbe essere seducente ma risulta sadico, la pelle spianata da un pallore digitale, una chitarra che fa capolino. Che qui si possa concepire una simile pubblicità denota una sconfortante assenza di ironia, che mi fa temere anche per la fine del torneo.

 

 

V • Les jeux sont faits

Il team di raccattapalle scelto per le due finali di singolare maschile e femminile è composto da diciotto ragazzini, sedici maschi e due femmine, più due addetti a reggere l’ombrello ai cambi campo, distribuire bevande ai giocatori e gettare mano a mano la spazzatura prodotta durante l’incontro. Vado a trovarli nel loro spogliatoio per il briefing alla vigilia della finale femminile: all’ingresso c’è una griglia, che qui in Francia chiamano buffamente trombinoscopio, con tutte le fotografie dei ragazzi e sotto i loro nomi, che somiglia alla bacheca di un ufficio persone scomparse. Tutto attorno centinaia di foto ricordo, tra cui una dall’anno scorso che mostra un ramasseur mentre sta per lanciare una pallina a Federer, che aspetta di essere servito con la sua migliore espressione schifata.

Hanno tutti tra i dodici e i sedici anni: 2500 si sono presentati per partecipare al Roland Garros, 400 hanno poi fatto una formazione da cui ne sono stati scelti 220 per lavorare durante il torneo, assieme a 30 presi tra quelli dell’anno passato. Le ragazze sono il 25%, chiedo la ragione della differenza percentuale di genere e mi dicono che semplicemente riflette il campione dei tesserati alla Federazione Francese di Tennis. È un lavoro duro, spesso i raccattapalle dicono che faticano più dei giocatori, e quest’anno finora ci sono stati 10-15 infortuni sul campo; una di loro è persino svenuta durante una partita.

In queste due settimane sono stati esaminati durante ogni singola partita, le valutazioni servono a decidere quale sarà il gruppo a cui verranno assegnate le finali: fattori determinanti nell’essere un buon raccattapalle sono la regolarità con cui si svolgono i propri compiti, la velocità, la capacità di osservazione, la coesione dei vari gruppi. Poi vedo riportati diversi episodi, ad esempio leggo che Chloe ha fatto cadere a terra un asciugamano, Augustin invece è passato davanti al giocatore tra la prima e la seconda di servizio, qualcun altro ha fatto rimbalzare troppo la palla nel passarla al compagno. Probabilmente loro non ce l’hanno fatta.

Intorno alle due, un’ora prima del match, gli eletti scendono nel sottoscala del campo n.1, e a ognuno viene lanciata una bottiglietta d’acqua mentre il loro responsabile fa un discorsetto finale: comincia esprimendo il suo dispiacere per non avere un francese in finale e l’ambiance che l’occasione avrebbe creato, poi li invita a approfittare della grande occasione, gli ricorda che tutti gli occhi saranno puntati su di loro, che sono lì a rappresentare tutti i raccattapalle del torneo. “Assaporate il momento, siate all’altezza”, poi li invita a essere “cool” con i colleghi esclusi, e a prepararsi a qualsiasi cosa arriverà: critiche, gelosie, invidie. Si parla dei fiori da portare davanti alle giocatrici che entrano, poi un applauso collettivo per caricarsi e si va. Qualcuno ha appeso un foglio al muro con la scritta a pennarello “Roland Garros 2013”, con sotto disegnato un cuore trafitto da una freccia.

Fuori c’è aria di festa, clown sui trampoli, una banda di ottoni, le file di sedie sistemate davanti al maxischermo. Vedo già dei gruppetti sistemati, che mangiano alcune tra le oscenità in vendita ai chioschi di modo che lo stordimento calorico li aiuterà a non lasciare i posti presi e a ingannare il tempo, visto che manca ancora un’ora e mezza. Però li accanto ammiro una coppia di signori di una certa età, che seduti composti su una panchina apparecchiano cerimoniosamente il loro pranzo custodito in dei contenitori di plastica, con piccoli vani per ogni portata: le uova sode, il cous cous, la torta rustica e le fette di mela già tagliate. A pochi metri da loro ci sono delle colonnine con caricabatterie pubblici per telefonini, con i cavi così corti che devi tenere il cellulare in mano perché non riesci a poggiarlo, forse per farti sentire un po’ stupido per quello che stai facendo.

Il senso del torneo maschile si è esaurito con quei cinque set di Nadal vs Djokovic: i due raggiungono un piano che è tutto loro

Prima ancora dei premi e delle bande però c’è stata la deflagrazione prodotta dalla semifinale tra Nadal e Djokovic, e tutto ciò che ne è seguito è stato un tentativo di riprendersi dalla violenza dell’accaduto. Il senso del torneo maschile si è esaurito con quei cinque set che hanno visto prevalere Nadal dopo più di quattro ore e mezza; messi uno di fronte all’altro ormai i due raggiungono un piano che è tutto loro, compiono gesti diversi, portano la fisica del gioco dell’avversario a estremi che gli altri non osano esplorare.

Volano persino dei cappelli in campo durante i loro scambi, risucchiati dal vortice del combattimento. Attacco, difesa, capacità di rischiare, tenuta atletica, gestione della pressione: sono forse gli unici due tennisti che attualmente non perdono un’unghia del loro gioco in nessuna situazione in cui si trovino, fino all’ultimo punto della partita. O meglio Djokovic fino al quartultimo punto, quando sul 7-8 ha servito per restare nel match e ha perso il game a zero, in un minuto o poco più. Aveva chiesto che gli annaffiassero il campo perché era diventato scivoloso, troppa terra volata via. Ma per farlo ci vuole l’accordo dei due giocatori, ovviamente a Nadal il campo andava bene così.

Alla fine del loro match guardare un campo da tennis fa quasi male agli occhi, ma non c’è tempo, Tsonga e Ferrer devono giocare l’altra semifinale. Ma lo stadio è ridotto al cratere di un’esplosione, la folla spazzata via dagli spalti, ne viene fuori un susseguirsi di punti sconnessi; il pubblico scosso che prova a ritornare dentro per sostenere il connazionale, mentre un’ombra sale a coprire lentamente tutto il campo, come un sipario. Tsonga, confuso come a un primo appuntamento, si lamenta anche dell’ombra in questione mentre non ne azzecca una e perde in tre set veloci, contro uno che ha un decimo del suo talento e dieci volte le idee più chiare. Il francese lascia il campo scuotendo la testa tra qualche fischio, l’altro sorride per la sua prima finale in uno Slam raggiunta a 31 anni, esce tra applausi fiacchi come dopo la fine di un primo turno, ma pazienza.

Il sabato finalmente si giunge alla finale femminile, tra Maria Sharapova e Serena Williams. Fa caldo, il sole durante la settimana è riuscito a imporsi regalando scorci di cieli quasi mediterranei, una distesa azzurra senza neanche una nuvola, almeno per un’oretta o due al giorno. Maria già spinge dal palleggio di riscaldamento, nelle presentazioni delle atlete durante la buffa parentesi delle descrizioni e delle misure viene precisato che lei è quella che indossa la casquette bianca, che è alta 1.88cm per 59kg, mentre Serena è 1.75cm per 70kg.

Già dai primi punti il forcing di Serena in risposta è mostruoso, Maria si salva da 0-40 e già si incita con un come on ogni due punti. Avendo Maria realizzato 56 punti nella partita (che ha poi perso in due set), e avendo io contato almeno venti suoi come on udibili e/o visibili, fa quasi un’incitazione ogni due quindici vinti. Prima di ogni punto la russa cammina verso il fondo del campo, si ferma di fronte a una linea immaginaria accorciando gli ultimi passi, poi dopo qualche secondo immobile si volta e va a posizionarsi in campo. Come se ogni punto fosse un’entrata in scena.

Lentamente anche Serena comincia a emettere suoni durante lo scambio, che saliranno sempre più di volume, decisamente più minacciosi degli acuti di Maria. Il primo come on di Serena arriva quando recupera da 0-2 a 2-2 nel primo set, e vale come i sette precedenti di Maria, è prolungato e rivolto all’avversaria, che cammina a testa bassa verso la propria sedia. Ne conto cinque alla fine dell’incontro, su 71 punti realizzati. In tutta questa tracimazione di agonismo fa tenerezza udire il flebile sorryche entrambe pronunciano quando a causa del vento sbagliano il lancio della palla, e interrompono il movimento del servizio.

Siede accanto al trofeo come una divinità: a 31 anni sta dominando il tennis femminile come nessuno ha mai fatto, ha casa a Parigi, è come un magnete che attrae perfezione esistenziale

Serena dopo la vittoria si inginocchia, sorride composta all’avversaria, poi si fa aria con la mano. Vengono portati dentro i catafalchi per la premiazione e per ingannare il tempo rompono il protocollo e intervistano le giocatrici prima della cerimonia, costringendole a ripetere le stesse identiche cose nell’arco di pochi minuti. Serena parla in un grazioso francese. In conferenza stampa siede accanto al trofeo come una sorta di divinità: a 31 anni sta dominando il tennis femminile come nessuno ha mai fatto, ha un livello di gioco inarrivabile per qualsiasi avversaria, ha casa a Parigi, ha un allenatore francese che è anche diventato il suo compagno, è come un magnete che attrae perfezione esistenziale. Le chiedono di come vive questa fase della sua vita, i suoi 31 anni: “I feel great, and I look great“.

Poi le nuvole che avevano iniziato a riaffacciarsi durante il sabato della finale femminile riprendono possesso del cielo dalle prime ore della domenica, riportando la temperatura ai primi giorni di lotta al coltello. La finale maschile è una faccenda tutta spagnola, ed è una storia già scritta. Nadal contro Ferrer è uno scontro impari, il primo gioca per vincere l’ottavo Roland Garros, il secondo è un debuttante. Nadal può giocare esattamente come Ferrer, poi salire di quattro-cinque marce e non fargli più vedere la palla.

Benedetti dalla presenza di Usain Bolt in tribuna d’onore, invitato a consegnare il trofeo al vincitore in un’insolita mossa mediatica in contrasto con la tradizione autoreferenziale del mondo del tennis, i due cominciano a scambiare pesante da fondo, ma dopo pochi game in cui tutti sogniamo un improbabile equilibrio i valori in campo cominciano a differenziarsi, per non incontrarsi più. Sul 2-2 del primo set Bolt twitta direttamente dalla tribuna “Match shaping up to be a good one“, ma da lì alla fine il parziale dei giochi dell’incontro sarà 16-6 per Nadal.

Quello che Bolt non aveva previsto e che ha reso bizzarramente interessante la partita è stata la pioggerella che è caduta per l’ultima ora (Ferrer ha accarezzato l’idea di sospendere, di nuovo Nadal era contento di continuare così), i capannelli di spettatori rumorosi, ma soprattutto l’invasione a metà del secondo set, con un uomo a torso nudo e maschera che brandendo un bengala è saltato in campo, con la scritta “Kids rights” sul torace. Pochi minuti prima di lui alcuni ragazzi dagli spalti hanno urlato slogan e esposto striscioni sui diritti dei bambini in Francia. Insomma era una protesta contro i matrimoni omosessuali. E quindi tra proteste discutibili, tempo ingrato e lievi irrequietezze del pubblico il match si è avviato con un’aria disordinata, accentuata dai molti ombrelli aperti sugli spalti e le coperte spuntate in tribuna autorità, verso l’inevitabile conclusione. Come nel femminile, anche qui abbiamo avuto un risultato imperiale: se Serena ha rivinto Parigi dopo 11 anni, Nadal l’ha vinto per l’ottava volta in nove partecipazioni. Nessuno aveva mai vinto uno stesso torneo dello slam otto volte, c’è da chiedersi se una cosa simile potrà mai riaccadere.

I really enjoy suffering“, aveva detto Nadal dopo la vittoria contro Djokovic, un concetto che spesso lo spagnolo illustra per spiegare la sua idea di competizione. Contro ogni idea romantica del tennis come uno sport di guizzi e momenti di incertezza, quasi sempre la vittoria, soprattutto qui a Parigi, arriva già ai punti prima di decretare il ko dell’avversario, quasi sempre quella a cui si assiste è una vera e propria erosione del rivale in campo, un prevalere lento e inesorabile.

Tutti i campi vengono ormai messi a riposo, e alcuni hanno già l’aria di luoghi abbandonati, con la rete abbassata e la terra coperta di foglie. Mentre lo stadio Philippe Chatrier viene spogliato di tutti i macchinari e gli orpelli della competizione vedo riemergere il grigio del suo cemento, che ricorda un po’ la durezza che in fondo Parigi ha sotto la patina della dolcezza e dell’eterna promessa romantica dei suoi palazzi, dei nomi romanzeschi delle strade, delle file composte alle boulangerie nel deserto della domenica mattina.

Con la fine del Roland Garros si conclude la stagione della terra battuta, e il rosso mattone viene sostituito dal verde dell’erba per una manciata di settimane, effimere come la resistenza del manto alle intemperie. A un crocevia accanto al campo n. 2 vedo dei cartelli che indicano le distanze degli altri tornei dello Slam: New York è a 5839 km, Melbourne addirittura a 16950 km, ma Londra dista soltanto 365 km. Non ci vorrà molto ad arrivare, ci vediamo tra due settimane.